Durante le elezioni americane il giornalismo italiano ha dato il peggio di sé

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    È sembrato che stessero raccontando due storie diverse. Da una parte, la vicenda di un presidente che inventa menzogne prive di alcun fondamento pur di non accettare la sconfitta; dall’altra, quella di un presidente che accusa gli avversari di truccare il voto. Da una parte, titoli e titoli sul “torrente di falsità” e sulle “bugie sul conteggio dei voti”; dall’altra, “accuse di brogli” e “ira” causata dal tentativo di “rubare le elezioni”.

    Sembrano i racconti di due situazioni diverse e invece trattano ovviamente la stessa vicenda: le elezioni negli Stati Uniti che Donald Trump, mentendo spudoratamente, ha denunciato essere state truccate da brogli colossali. La vicenda è la stessa, a essere differente è invece la caratura del giornalismo statunitense rispetto a quello italiano, che in queste lunghe giornate elettorali è sembrato confondere la forza dei fatti per parzialità, mancando così di segnalare adeguatamente, direttamente nei titoli (come viene sempre fatto oltreoceano), l’assurdità delle accuse dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Con il risultato, si spera non voluto, di avvalorare le teorie del complotto di Trump.

    C’è un esempio che, più di ogni altro, illustra la differenza giornalistica tra i due paesi: negli Stati Uniti, la NBC, la ABC, la CBS e altri importanti network giornalistici (esclusa la CNN e anche la Fox) hanno deciso di interrompere la diretta di una conferenza stampa di Donald Trump non appena ha iniziato a mentire sui presunti brogli in atto. Le telecamere hanno abbandonato la conferenza e il conduttore ha ripreso la parola per avvertire il pubblico a casa che quanto il presidente stava per affermare era una menzogna. Questa è una legittima scelta giornalistica: raccontare ai propri spettatori o lettori, nel modo più preciso e puntuale possibile, ciò che sta avvenendo; anche a costo di interrompere il presidente in carica per smentirlo. Non tagliare il collegamento, secondo questa linea editoriale, avrebbe significato contribuire a diffondere (e avvalorare) pure e semplici bugie.

    Cosa c’è di credibile nella teoria che i democratici, supportati dai media e da big tech, abbiano operato un complotto per truccare le elezioni?

    Da noi, invece, succede che una delle firme più note abbia scritto sul principale quotidiano progressista (?) che “l’idea che l’establishment potesse pianificare l’estromissione di Trump è falsa ma credibile”. Credibile? Cosa c’è di credibile nella teoria che i democratici, supportati dai media e da big tech, abbiano operato un complotto per truccare le elezioni? Perché mai un giornalista nel pieno possesso delle sue facoltà mentali e in buona fede dovrebbe etichettare un’assurdità del genere come “credibile”? Ve lo vedete il The New York Times che definisce “plausible” l’esistenza di un complotto per defraudare Trump della vittoria elettorale?

    Non finisce qui, perché nello stesso articolo si segnala come “i grandi social media e i principali network televisivi hanno oscurato le esternazioni del presidente”, affermando preoccupati che così “diventano gli arbitri di ciò che si può pubblicare”. Ma no?! Che strana cosa: un’emittente giornalistica che decide cosa mandare in onda e cosa invece tagliare. Si chiamano filtri giornalistici, scelte editoriali, e sono la cosa più normale del mondo: avete mai visto un telegiornale o un quotidiano che non decide cosa pubblicare e cosa lasciare fuori?

    Per quanto invece riguarda la decisione di Facebook e Twitter di oscurare (permettendo comunque di leggerli) i tweet più vergognosi di Trump, vale solo la pena di segnalare che questi nostrani editorialisti sono gli stessi che si lamentano ogni due per tre delle “fake news che circolano sui social” e che chiedono provvedimenti rigorosi per bloccarle, salvo poi pretendere che queste stesse fake news circolino liberamente se giungono dalla Casa Bianca. Il mondo al contrario: bisogna identificare gli utenti dei social per impedire che pubblichino fake news, ma bisogna lasciare che il presidente degli Stati Uniti le diffonda senza ostacoli.

    L’interpretazione più ottimista per spiegare il permissivismo del giornalismo italiano è che si dà per scontato che tutti sappiano quando qualcuno sta dicendo assurdità, che si tratti del presidente statunitense o del semisconosciuto ospite di un salotto televisivo.

    Ed è probabilmente a causa di questa ribaltata chiave di lettura che ci tocca vedere in televisione delle figure che accusano i democratici statunitensi e anche quelli italiani di essere “da sempre più propensi ai brogli”, senza che nessuno interrompa questi deliri per segnalare che, ovviamente, si tratta di menzogne priva di fondamento. Per quale ragione ci tocca subire tutto ciò?

    L’interpretazione più ottimista per spiegare il permissivismo del giornalismo italiano è che si dà per scontato che tutti sappiano quando qualcuno sta dicendo assurdità, che si tratti del presidente statunitense o del semisconosciuto ospite di un salotto televisivo, e che quindi non ci sia nemmeno bisogno di segnalarlo. Potrebbe essere per questa ragione che, nei titoli dei quotidiani italiani mainstream, non viene quasi mai precisato che le accuse del presidente USA sono inventate e che in televisione nessuno si premuri di segnalare che i democratici italiani o statunitensi, fino a prova contraria, non hanno mai frodato un’elezione.

    È un atteggiamento superficiale e pericoloso. E anche paternalistico nei confronti di ospiti invitati proprio per sostenere assurdità e trattati da giullari: “Dai raccontaci quella dei brogli”. Ma se qualcuno fa affermazioni prive di ogni fondamento andrebbe interrotto, facendo notare come non ci sia alcuna prova di quanto sostenuto. Non ci si ride sopra con aria di sufficienza, come se fosse una tavolata di amici a cui è stato invitato l’amico scemo per darsi di gomito non appena attacca con le sue stupidaggini complottiste. Così come non si dà per scontato che tutti sappiano che Trump si sta inventando le accuse: è un dettaglio di cruciale importanza che va segnalato in ogni occasione, per amor di verità e per far sì che anche chi si limita a scorrere i titoli (e non sono pochi) abbia modo di rendersi conto di quale sia la situazione.

    Questa, però, è la lettura ottimista. Ce ne sono altre. Secondo Nadia Urbinati, per esempio, la “complice simpatia per quel demagogo di Donald Trump” che si avverte nei talk show e sui quotidiani nazionali “rappresenta al meglio questa nostra italica voglia eversiva”. È per questo che “trapela un certo piacere a vedere il presidente Trump che sfida (le regole)”. La barbarie di un presidente che rifiuta le fondamenta del sistema democratico viene avvertito qua e là come un simpatico “avventurismo”, quasi una performance futurista che scuote la tradizione.

    E se invece la ragione fosse un’altra ancora? Se questo comportamento dei giornali italiani fosse causato da un’errata interpretazione del concetto di imparzialità? Come se denunciare esplicitamente e nettamente il fatto che Trump stia raccontando una marea di balle tradisse la missione giornalistica. Come se affermare con forza la verità dei fatti e derubricare le affermazioni dell’uomo più importante del mondo a “menzogne” non permettesse di essere super partes nel riportare ciò che sta avvenendo. Da noi sembra che qualunque cosa un potente dica vada necessariamente trattata come se fosse rispettabile: solo perché la dice un potente. Un gesto di deferenza che molto racconta del giornalismo italiano, che da sempre permette a qualunque politico intervistato di dire tutto quello che vuole senza mai osare contraddirlo.

    Cosa sia la vera imparzialità lo hanno invece mostrato, ancora una volta, i giornalisti statunitensi. Che nella loro fredda oggettività sono persino riusciti a ottenere risultati comici. È il caso della CNN che nel sottopancia segnala: “Trump vuole rivolgersi alla Corte Suprema, ma non è chiaro perché”. Sottolineare che non c’è alcuna ragione per rivolgersi alla Corte Suprema non è tradire la missione di raccontare solo i fatti, significa proprio attenersi a questa missione. È spiegare le cose come stanno. Se qualcuno dice che si rivolgerà alla Corte Suprema senza alcuna motivazione che giustifichi questa azione, va segnalato chiaramente: non si può far finta che queste assurdità abbiano un fondamento razionale solo perché a pronunciarle è l’inquilino della Casa Bianca.

    La CNN o il The New York Times ci hanno dato ancora una volta una lezione di giornalismo rigoroso, che non teme di raccontare i fatti con precisione e non tentenna nemmeno quando deve smentire con forza il presidente degli Stati Uniti. È la forza di un giornalismo abituato a distinguere i fatti dalle opinioni. Da noi, invece, la storica assenza di questa cruciale separazione potrebbe essere la ragione per cui si ha timore a riportare con puntualità i primi per la paura (infondata) di scadere nelle seconde.

    Nei nostri quotidiani è da sempre tutto mischiato. È un colabrodo in cui i fatti sono fusi con le opinioni al punto che l‘analisi di un fenomeno cruciale – come il voto pro-Trump degli operai bianchi del Midwest – non prende le forme di un’inchiesta, ma diventa il pretesto utilizzato da un noto editorialista per far trapelare tutto il suo fastidio nei confronti della sinistra cosmopolita di oggi e per occhieggiare con malcelata simpatia in direzione rossobruna (o rosabruna, o forse solo bruna). Invece di separare l’inchiesta dalla propria legittima opinione sul tema, si crea un ibrido tipicamente italiano che rende molto più complicato separare l’analisi di una dinamica dall’interpretazione, legittimamente soggettiva, del perché quella dinamica si stia verificando (oltreoceano funziona diversamente).

    D’altra parte, questo è il paese in cui interi articoli sono riempiti di virgolettati inventati di sana pianta, mandati in stampa come se fossero fedeli trascrizioni di quanto detto dal politico di turno senza alcuna precisazione su come e quando queste parole siano state raccolte, e che fanno immaginare che alcuni giornalisti abbiano microspie in ogni stanza del potere (inutile dire come questa pratica sia inesistente nel giornalismo anglosassone e non solo).

    Questo è anche il paese in cui i grandi quotidiani denunciano “le fake news del web” mentre trattano a loro volta i social network come una discarica dell’informazione, in cui riversare il peggio che sono capaci di produrre – gossip, stupidaggini strappalacrime prive di qualunque valore informativo, notizie sensazionalistiche non verificate (e che spesso si dimostrano come minimo inaccurate) – per acchiappare il prima possibile qualche click. Prima riempiono i social network di schifezze e poi scrivono editoriali da primi della classe sulla cattiva informazione che circola online.

    Per forza che poi i pochi esempi italiani di giornalismo rigoroso passano per rompipalle petulanti sempre con la matita rossa in mano: non siamo abituati alla precisione e all’attenzione; siamo invece abituati a un giornalismo tanto pavido quanto, paradossalmente, deformante, che impedisce al lettore di capire che cosa stia succedendo. E che così – proprio nel momento in cui ce n’è più bisogno; proprio quando le fondamenta dei meccanismi democratici vengono messe in discussione – fallisce nella sua missione: offrire ai lettori un’informazione chiara, precisa e puntuale.

    Note