Quale “diritto” per l’innovazione sociale?

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    Il seminario organizzato qualche settimana fa in Triennale da cheFare su “Progettualità Sociale e Politiche” ha fatto emergere diversi spunti di riflessione interessanti, anche in un campo come quello del diritto, ritenuto di solito – e forse giustamente – secondario.

    Partendo dalle considerazioni puntuali di Guido Smorto – che ha sottolineato come se una politica vuol essere davvero trasformativa si pone in contrapposizione con il diritto, che da solo non è in grado di determinare alcun cambiamento – vale la pena svolgere alcune riflessioni sul punto tenendo conto delle evoluzioni, anche di matrice giuridica, che si registrano in questo ambito.

    È certamente complesso pronunciare delle parole definitive sul grande tema delle “regole”, tuttavia non sempre si può fare a meno di tenerne conto.

    Ezio Manzini, all’interno del paper (lo trovate qui) che ha guidato le riflessioni nel corso dell’incontro, ci ricorda come le progettualità sociali vivono all’interno di un ecosistema abilitante, che può ostacolarne o favorirne lo sviluppo. Dall’altro lato non si può non considerare come la produzione normativa in Italia abbia assunto delle dimensioni considerevoli. Leggevo di recente come in Italia dovrebbero esserci in vigore oltre 100.000 atti normativi, mentre in Francia circa 7.000. A prescindere dall’esattezza del dato, mi sembra comunque un indicatore abbastanza significativo.

    È vero che l’innovazione sociale spesso sfugge alle regole esistenti, ma è altrettanto necessario definire un perimetro all’interno del quale i soggetti che gravitano intorno questa complessa galassia possano – per tornare alle parole di Manzini – “sperimentare forme di governance che connettano le pratiche collaborative emergenti dal basso, come espressione della cittadinanza attiva, con quelle degli altri attori sociali coinvolti o coinvolgibili (terzo settore, imprese, università e, ovviamente, enti pubblici)”.

    Il Terzo settore può di certo rappresentare un paradigma da analizzare, perché se da un lato si deve condividere la necessità di lasciare che la società civile si auto-organizzi – e vada incontro alle esigenze della collettività attraverso forme organizzate di produzione/scambio di beni e servizi – dall’altro ci troviamo davanti ad un sistema che in alcuni casi rischia di soffocare l’intraprendenza di questi nuovi soggetti, soprattutto quando si muovono all’interno di settori non ancora presidiati o attraverso meccanismi imprenditoriali inediti.

    Solo per fare un esempio che rimane in questo ambito, il nuovo codice del Terzo settore elenca in maniera puntuale quali attività possano considerarsi di “interesse generale” per accedere al perimetro disegnato dalla nuova disciplina, ed esclude automaticamente tutti quegli enti che operano fuori dai settori di attività elencati dal legislatore.

    Mi chiedo, ma anticipo che non ho risposte, quali siano le condizioni per far attecchire un ecosistema adeguato, realmente abilitante, se è vero che il firmamento normativo è costellato di qualifiche, etichette, acronimi e status ma che non sempre si riesce a trovare un equilibrio tra forma e sostanza.

    Per anni abbiamo assistito ad un proliferare di provvedimenti che rincorrevano la realtà, ma forse occorrerebbero degli interventi in grado di anticipare o quantomeno accompagnarne lo sviluppo di nuove formule aggregative/imprenditoriali. Sul punto Luca Gori e Flaviano Zandonai commentano giustamente su Vita come “Più passa il tempo e più la riforma del Terzo settore sembra sancire il passato più che disegnare il futuro”.

    Questo è il grande tema da sviscerare. Da un lato assistiamo a fenomeni difficili da inquadrare all’interno dei modelli codificati, dall’altro siamo sempre alla ricerca di punti di riferimento che possano in qualche modo legittimare l’operato degli innovatori sociali.

    Che fare dunque? L’ambiente regolativo è importante. Il diritto può contribuire a mettere ordine e fornire strumenti ed incentivi, ma ragionando solo in ottica agevolativa il rischio è fare ciò che conviene invece di ciò che serve.

    Rileggendo il titolo del seminario mi viene in mente la metafora utilizzata da Geoff Mulgann che con riferimento alla relazione tra grandi istituzioni (finanziarie, imprenditoriali, politiche, etc.) e il mondo dell’innovazione sociale, ci spiega come in ogni società esistono molte “api” – persone con idee creative di stampo sociale che potrebbero tradursi in soluzioni efficaci – ma ciò che in genere non hanno è il legame con gli “alberi”, ovvero con le grandi istituzioni che hanno potere e denaro. Conclude Mulgann sottolineando come occorra “creare un legame tra la forza degli alberi e la creatività delle api: le grandi burocrazie non sono in grado di creare e le api da sole non hanno alcun impatto”.

    Ed ecco che alla fine, arriviamo sempre a discutere di impatto. Sarà la chiave per aprire una fase nuova o per chiudere l’innovazione sociale in una gabbia dorata?


    Immagine di copertina: ph. Mario Gogh da Unsplash

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