Fare cultura attraversando la complessità

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    Da tempo si è diffusa l’idea della necessità di competenze che tendano all’iper-specializzazione scientifica, a contrasto o in netta contrapposizione all’orientamento trasversale dell’eclettismo umanistico che, evidentemente, viene facilmente confuso con l’eccessivo entusiasmo nei confronti della creatività diffusa, secondo la quale basta abbozzare un’idea per gridare al miracolo.

    La vita è sottile e i saperi umanistici di questa sottigliezza hanno fatto la loro specializzazione. Roland Barthes

    Il pasticciare con il talento, certo, è figlio dei tempi. La finestra sempre aperta delle reti si affaccia sulla passerella delle cose che accadono senza sosta. E non sempre si tratta di contenuti culturali di qualità, condizione fisiologica di un ecosistema senza più confini, di fatto aperto a chiunque e senza luoghi e tempi precisi. Ce n’è per tutti i gusti: chi fa l’editore, chi fa il fotografo, chi organizza mostre, chi scrive, chi crea immagini, chi fa il performer su YouTube. Ci sono gli innovatori, i maker e, per dirla bonariamente alla Bonomi, gli “smanettoni” del digitale. Fatto è che il mondo intellettuale viene percepito come poco concreto.

    Da qui, forse, la diffidenza sempre più forte dell’intellighenzia accademica che si chiede se “creare contenuti pseudoartistici” o “avere un pubblico” possano essere dei mestieri. Le Arti, in sostanza, non possono esserlo. Non hanno un riconoscimento che vada al di là di una funzione sospesa in modo confuso tra edonismo e intrattenimento (qualcosa che richiama il folclore del tempo libero più che una professione).

    In tal senso, sono nate negli anni interpretazioni reazionarie piuttosto vetuste. La convinzione, ad esempio, di puntare al miglior sapere tecnico perché utilizzabile nel lavoro (con una forbice di interpretazione che va dall’asfaltatore di strade all’analista di sistema, dall’ingegnere chimico al montatore di parabole). Vero. Senza dubbio questi lavori stanno vivendo un momento di crescita. Il bisogno di tecnica non si arresta, perché mai dovrebbe. Ad arrestarsi, invece, è la crescita personale, visto che per i più conta maggiormente assicurarsi la vita e costruire il futuro su fondamenta sicure. Un grande errore di valutazione. Una miopia che tende a minimizzare il rischio della progressiva complessità degli scenari attorno a noi.

    L’eredità della filosofia classica ci racconta che la complessità, a differenza della complicazione, non può essere spiegata (dispiegata, svelata) se non con l’effetto della dissoluzione delle parti che la compongono. La complessità è una struttura, non è un artefatto. Ci sei dentro, nonostante tutto. Pensare di arginare il senso di disorientamento semplicemente evitando di sapere cosa accade attorno è inutile e pericoloso. Mentre l’approfondimento verticale dell’iper-specializzazione, che di per sé è un valore, diventa uno svantaggio nel momento in cui non può essere ricollegato ad alcun altro fenomeno che non sia il continuo analizzare se stesso all’infinito, la cultura fa un lavoro di interconnessione dei significati di fondamentale importanza.

    Collega le idee, le interpretazioni del mondo fino a trovare possibili soluzioni; prescindendo, poi, dal fatto che anche le arti hanno la loro base di tipo tecnico la quale, nel senso del saper fare, ha le finalità di qualsiasi altra scienza. La scienza umanistica è la grande opportunità del prossimo decennio. La capacità di creare degli ingegneri del possibile, dei creativi in grado di dare un fondamentale contributo alla lettura di problemi complessi – come da tempo propongono gli approcci al design thinking – sono fenomeni che hanno preso ormai piede e che è necessario tenere nella giusta considerazione. In un articolo uscito su Repubblica il 30 maggio, Marino Niola scrive che per costruire il futuro non bastano le specializzazioni tecniche, ma servono talento, capacità di creare, apertura al possibile. Aggiunge, poi, che già negli anni Quaranta questa era la tesi del tecnologo Vannevar Bush, incaricato dal presidente Roosevelt di immaginare per l’America un modello formativo e produttivo vincente.

    Mi sembra importante toccare l’aspetto della formazione. L’informazione generalista è contraria a promuovere le humanities.  Eppure ci troviamo in un’epoca che sta vivendo un passaggio importante – che potremmo paragonare alla fase delle avanguardie del secondo dopoguerra – in cui gruppi e organizzazioni si muovono in sinergia con il tessuto culturale più dinamico e brillante delle città, fatto di scrittori, designer, registi, filosofi, antropologi, sociologici, attori, comunicatori, fotografi, storici dell’arte, divulgatori e altri ancora. Siamo ancora, tutto sommato, nell’era della Città Creativa di floridiana memoria, testimoni di luoghi, conoscenze e competenze che, nell’essere eterogenei, costruiscono ogni giorno valore “resistente”.

    Forse è per questo che, in un articolo-intervista di febbraio 2016 a firma di Bruno Giurato per Linkiesta, Salvatore Settis affermava:

    Bisognerebbe ricordarsi più spesso di un aforisma di Goethe, che dice più o meno così: “Le discipline si autodistruggono in due modi, o per l’estensione che assumono, o per l’eccessiva profondità in cui scendono”.

    Bisogna trovare un equilibrio tra lo specialismo e la visione generale. La tendenza che si sta affermando nei sistemi educativi un po’ in tutto il mondo, ma in particolare in Italia, è educare a “competenze” piuttosto che a “conoscenze”. Ecco, è un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla Moratti in poi per le loro pessime riforme scolastiche.

    Abbiamo bisogno di persone con uno sguardo generale. Non bastano le conoscenze specialistiche, approfondite quanto si vuole. Ci vuole una visione collegata col senso della comunità (come del resto è scritto nella nostra Costituzione, che stiamo via via dimenticando).

    Salvatore Settis non ha torto, anche se a tutti gli effetti la sua è una visione parziale. L’idea di creare un nuovo equilibrio tra una migliore conoscenza storico-culturale e una tendenza al saper fare pratico – l’equilibrio aureo di cui ha parlato nel suo best seller L’Uomo Artigiano Richard Sennett – serve a portare su uno stesso livello entrambe le categorie cognitive. La Teoria e la Prassi. Conoscenza e competenze si mescolano l’una nelle altre e il perché segue ragioni legate allo sviluppo del mondo contemporaneo. Prima di tutto, noi ci preoccupiamo di regolamentare un modello formativo per generazioni che, probabilmente, avranno accesso al lavoro dopo molti anni dall’inizio del loro percorso di studi.

    Il che equivale a dire che nessuno studioso è davvero in grado di comprendere con tanto margine di previsione quale possa essere, rispetto ai rapidi cambiamenti della contemporaneità, l’evolvere delle professioni. Poi, c’è un altro punto di fondamentale importanza: il saper fare tecnico dell’epoca dei millenials non è un semplice neo-artigianato in chiave hi tech, ma condensa una serie di attività e funzioni che portano le capacità progettuali di tipo intellettuale a interagire con abilità pratiche artistiche che, a ben vedere, si sviluppano nelle forme più varie. Anche l’educazione di tipo artistico in senso stretto – con l’ausilio e il supporto della tecnica o, più propriamente, della tecnologia – sta diventando qualcosa di molto diverso. Il contenuto trova oggi, in questi strumenti, nuove potenzialità espressive.

    Tutti i bambini sono artisti nati; il problema è riuscire a restarlo da grandi. Pablo Picasso

    Nel 2006, durante il TED, Sir Ken Robinson è stato protagonista di un bellissimo e divertente intervento (attualmente con circa 39 milioni di visualizzazioni) dal titolo Do schools kill creativity? L’idea alla base della tesi di Robinson è che la creatività oggi è importante quanto l’alfabetizzazione e dovrebbe essere trattata dalle scuole allo stesso modo. I bambini tendono a “buttarsi”, inventano il mondo facendo largo ricorso alla creatività che hanno in dote dalla nascita. Non hanno paura di sbagliare o di fallire e connettono l’errore all’opportunità di creare una nuova soluzione.

    Robinson sottolinea che le scuole e le accademie hanno la responsabilità di aver relegato le materie umanistiche e artistiche molto al di sotto delle materie di carattere tecnico-scientifico e fa risalire questo particolare assetto all’epoca dell’industrializzazione nel XIX secolo, che aveva la necessità di preparare tecnici per gli scopi e le finalità del lavoro (le discipline utili per il lavoro in cima e il resto più in basso); uno schema che nel tempo ha raggiunto il suo acme nel fordismo.

    All’estremo opposto, per quanto riguarda le scienze cognitive – continua Robinson – ancora oggi nel nostro sistema educativo il punto di massima riconoscibilità sociale è costituito dalla figura del professore universitario (sia lui che Settis lo sono), poiché il sistema educativo punta moltissimo sulle abilità accademiche, mentre l’esercizio delle pratiche artistiche è stato nel tempo abbandonato al caso (il talento spontaneo), nell’idea di privare gradualmente gli individui, nel loro percorso di crescita, di ogni tensione verso lavori incerti, percepiti come troppo astratti o come sogni campati in aria. Questo atteggiamento sottrattivo (non studiare musica, non sarai mai un musicista; non fare corsi di disegno, non diventerai mai un pittore!) è il principale responsabile dello spreco dei talenti in settori culturali di fondamentale importanza che, coltivati e sostenuti nel migliore dei modi, potrebbero regalare incredibili sorprese.

    Vengo dall’esperienza di Direzione Artistica del Ferrara Sharing Festival. Una prima edizione molto bella e carica di stimoli. Sono stato a contatto con i creativi che, tra spessore intellettuale e competenza tecnica, uniscono oggi in un unico obiettivo un nuovo modo di pensare il ruolo produttivo del singolo nel sistema sociale. Tra i tanti workshop, quello che più attirava la mia attenzione critica (venendo io da studi e passioni classici), è stato quello dedicato ad alcuni operatori culturali che presentavano i loro modelli, caratterizzati dall’utilizzo di processi partecipativi i quali condividono con la sharing economy l’appartenenza comune all’idea di collaborazione e di costruzione di reti sociali.

    Parliamo di Citofonare Interno 7 di Rossano Astremo, che organizza reading letterari di scrittori noti nelle case dei privati; Teatroxcasa di Raimondo Brandi che, allo stesso modo, propone spettacoli teatrali; Superfred di Gianluca Sbarchiero, un social network che promuove la prossimità e lo scambio di libri. Bene. Abbiamo proposto la dinamica del world café, che permette ai partecipanti un’interazione e un dialogo diretti con i relatori. Organizzati in gruppi, i partecipanti hanno analizzato i progetti che sono stati loro presentati.

    Quando ho parlato con il moderatore del workshop, Giulio Costa del Teatro Off di Ferrara, mi ha detto che era stata una bella esperienza, ma con critiche molto severe sulla sostenibilità dei progetti. Come dire? Dato che queste idee non producono soldi e non creano valore economico non sono dei veri e propri modelli di business (soprattutto se, come spesso avviene, il valore è visto solo nell’ottica del profitto). Pochi cenni sul controvalore generato da questi progetti, a partire dal capitale relazionale che si sviluppa attorno all’obiettivo di promuovere con passione l’urgenza della fruizione culturale. Eppure, a ben vedere, in questi casi la parte per così dire artistica ha trovato nell’organizzazione di un modello (un progetto per sua propria fisionomia richiede una strutturazione di tipo tecnico) il suo perfetto contrappunto.

    Ognuna di queste azioni ha dovuto confrontarsi con problemi di tipo pratico (la realizzazione di una piattaforma, il coinvolgimento degli artisti, l’individuazione delle disponibilità logistiche, la pianificazione, promozione e gestione degli eventi, ecc). Fino a Superfred che, addirittura, è un prodotto che trova nella tecnologia la sua essenza. Il problema, quindi, sembra essere legato più alla mancanza di un’intenzione generale nel riconoscere la funzione della cultura come uno strumento di fondamentale importanza per la costruzione di valore immateriale (parola che ancora spaventa), pur con ricadute effettive a medio-lungo termine sulla microeconomia reale.

    Noi, che negli anni siamo stati preparati dalle elucubrazioni del marketing culturale, con l’idea colbertiana di osservare un prodotto aleatorio dalla prospettiva di qualsiasi altro prodotto di mercato (e con l’aggravante di doverci costruire attorno una catena del valore nettamente più vulnerabile), ci stiamo pian piano rendendo conto che, fuori dalle logiche del consumo, la cultura è un’esperienza che dipende dal senso comune di riconoscergli uno spazio fatto di sguardi trasversali, di percorsi ibridi che coltivano nicchie di utenza e che, spesso, nascondo la propria ragion d’essere in tempi medio-lunghi (promuovere con uno spettacolo la cultura vuol dire contribuire al recupero della sensibilità verso le arti e preparare le persone al consumo di attività legate più alla crescita della mente e dello spirito ).

    Ecco perché credo che la posizione di Settis, così come quella di Robinson, siano giuste nella misura in cui si portino a dialogare variabili differenti, e che la questione centrale sia ormai nella percezione che il mondo è cambiato in modo irreversibile. Non si tratta di celebrare l’idealità dell’arte in senso lirico, ma di dargli il giusto spazio nella società che verrà, e riconoscere a chi si occupa di cultura un ruolo professionale di ingegnere delle soluzioni e costruttore di nuove e urgenti architetture sociali. Ricordiamoci, quindi, che l’operatore culturale, l’artista, il designer, il fotografo, ecc sono prima di tutto questo, dei sense-makers. Come, del resto, voleva la storia nel periodo delle avanguardie, quando si mettevano sullo stesso piano un ombrello e una macchina da cucire.

    Note