Nei confronti del cyberspazio si dovrebbe adottare un comportamento «conservatore», come quello di Chaplin nei confronti del sonoro nel cinema: Chaplin, più di molti altri, si rese conto dell’impatto traumatico della voce, in quanto intruso estraneo, sulla nostra percezione del cinema. Allo stesso modo, l’attuale processo di transizione ci permette di percepire ciò che stiamo perdendo e ciò che stiamo guadagnando – questa percezione diventerà impossibile nel momento in cui abbracceremo totalmente, e ci sentiremo pienamente a casa nelle nuove tecnologie. In breve, abbiamo il privilegio di occupare il posto di «mediatori evanescenti».
Un tale atteggiamento chapliniano ci obbliga a resistere al fascino seduttore dei due miti contemporanei riguardanti il cyberspazio, i quali si basano entrambi sul luogo comune per cui oggi siamo nel bel mezzo del passaggio dall’epoca del modernismo (della soggettività monologica, della Ragione meccanicistica ecc.) a quella postmoderna della dispersione (del gioco delle apparenze non più basato sul riferimento a una qualche Verità ultima, delle forme molteplici di Sé costruiti):
a) Nel cyberspazio assistiamo a un ritorno al pensée sauvage, al pensiero «concreto», «sensibile»: un «saggio» nel cyberspazio mette a confronto frammenti di musica e altri suoni, testo, immagini, videoclip, e così via, ed è questo raffronto di elementi «concreti» che produce un significato «astratto»… Qui, non ritorniamo ancora al sogno di Ejzenštejn del «montaggio intellettuale» – di filmare Il Capitale, di produrre la teoria marxista fuori dal contrasto di immagini concrete? L’ipertesto non è forse una nuova pratica di montaggio?
b) Oggi stiamo assistendo allo spostamento dalla cultura modernista del calcolo alla cultura postmodernista della simulazione (vedi Turkle 1995). L’indicazione più chiara di questo movimento è il cambiamento nell’uso del termine «trasparente»: la tecnologia modernista è «trasparente» nel senso che conserva l’illusione dell’intuizione di «come funziona la macchina»; sarebbe a dire, lo schermo dell’interfaccia si supponeva permettesse all’utente un accesso diretto alla macchina oltre lo schermo; l’utente si supponeva «dominasse» le operazioni della macchina – addirittura, in condizioni ideali, le potesse ricostruire razionalmente.
La «trasparenza» postmodernista indica pressoché l’esatto opposto di questo atteggiamento di analitica pianificazione globale: lo schermo di interfaccia si suppone nasconda le operazioni della macchina, e simuli la nostra esperienza quotidiana il più fedelmente possibile (come il sistema di interfaccia Macintosh, nel quale i comandi digitati sono rimpiazzati da un semplice click del mouse sulle icone…); ma il prezzo di questa illusione di continuità con il nostro ambiente quotidiano è l’«assuefazione» dell’utente all’«opaca tecnologia» – il meccanismo digitale «oltre lo schermo» si ritira nella più totale impenetrabilità, persino invisibilità.
In altre parole, l’utente rinuncia al tentativo di dominare il funzionamento del computer, rassegnandosi al fatto che nella sua interazione con il cyberspazio viene proiettato in una situazione non‐trasparente simile a quella del suo Lebenswelt quotidiano, una situazione nella quale egli deve «riuscire a orientarsi», deve arrangiarsi (come nel bricolage) per prove ed errori, non deve semplice‐ mente seguire certe regole generali prestabilite – o, per usare un gioco di parole di Sherry Turkle, nell’atteggiamento postmodernista «guardiamo in (inter)faccia le cose».
Se l’universo modernista è quello, nascosto dietro lo schermo, dei byte, dei fili e dei chip, della corrente elettrica, l’universo postmodernista è l’universo della fiducia ingenua nello schermo che rende irrilevante proprio la ricerca di «cosa sta dietro». «Guardare in (inter)faccia le cose» implica un atteggiamento fenomenologico, una disposizione a « darsi dei fenomeni»: il programmatore modernista trova rifugio nel cyberspazio in quanto trasparente e chiaro universo strutturato che gli permette di sfuggire (almeno momentaneamente) all’opacità del suo ambiente quotidiano, nel quale egli è parte di un sistema a priori incomprensibile, pieno di istituzioni il cui funzionamento segue regole sconosciute che esercitano il loro dominio sulla sua vita; per il programmatore postmodernista, al contrario, le caratteristiche fondamentali del cyberspazio coincidono con quelle descritte da Heidegger come le caratteristiche costitutive del nostro mondo della vita quotidiana (l’individuo nella sua finitezza si trova a esser‐gettato in una situazione le cui coordinate non sono regolate da chiare norme universali, così che deve gradualmente trovare in esse la sua strada).
In entrambi questi miti, l’errore è lo stesso: sì, abbiamo a che fare con un ritorno al «pensiero concreto» premoderno o a un mondo di vita non-trasparente, ma questo nuovo mondo di vita presuppone già un universo scientifico digitale: i byte – o, piuttosto, le serie‐digitali – sono il Reale dietro lo schermo; sarebbe a dire, non siamo mai immersi nel gioco delle apparenze senza un «residuo indivisibile». Il postmodernismo si concentra sul mistero di ciò che Turkle chiama l’«emergenza» e Deleuze ha elaborato come l’«evento‐senso»: l’emergere della pura apparenza che non può essere ridotta al semplice effetto delle sue cause fisiche (vedi Deleuze 1969); ciò non di meno, questo emergere è l’effetto del Reale digitalizzato.
A proposito dell’idea di interfaccia, la tentazione qui, naturalmente, è di portarla al punto del proprio autoriferimento: che succederebbe se si concepisse la «coscienza» stessa, la struttura per mezzo della quale percepiamo l’universo, come una sorta di «interfaccia»? Nel momento in cui cediamo a questa tentazione, comunque, portiamo a compimento una sorta di forclusione del Reale. Quando un utente, giocando in una chat, dice a se stesso: «che succederebbe se la vita reale stessa fosse solo un’altra chat?»; o, riferendosi alle molteplici finestre di un ipertesto, «che succederebbe se la vita reale fosse solo un’altra finestra?», l’illusione a cui egli soccombe è strettamente legata a quella opposta – all’atteggiamento del senso comune volto a conservare la nostra fede nella piena realtà fuori dall’universo virtuale. Sarebbe a dire: bisogna evitare entrambe le trappole, tanto il semplice e diretto riferimento alla realtà esterna fuori dal cyberspazio quanto l’atteggiamento opposto del «non c’è una realtà esterna, la vita reale è solo un’altra finestra».
Nel dominio della sessualità questa forclusione del Reale dà origine alla visione New Age della nuova sessualità computerizzata, nella quale i corpi si mescolano in un etereo spazio virtuale, privi del loro peso materiale: una visione che è stricto sensu un immaginario ideologico, dal momento che unisce l’impossibile – la sessualità (connessa al Reale del corpo) con la «mente» staccata dal corpo, come se – nell’universo di oggi, dove la nostra esistenza fisica è (percepita come) sempre più minacciata da pericoli ambientali, Aids, e così via, fino all’estrema vulnerabilità del soggetto narcisistico rispetto all’effettivo contatto psichico con un’altra persona – potessimo reinventare uno spazio nel quale poterci abbandonare del tutto a piaceri fisici liberandoci dei nostri corpi concreti. In breve, questa visione è quella di una condizione priva di lacune e ostacoli, una condizione di libero galleggiamento nello spazio virtuale nel quale il desiderio nondimeno in qualche modo sopravvive…