Un mondo possibile. A partire dalle donne

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    Scendendo da piazza Vittorio lungo via Emanuele Filiberto il passo accelera, rafforzato dalle canzoni che fuoriescono dal camion con gli altoparlanti. Prima, si sentono, all’unisono, le note di “Amore disperato” di Nada, poi si intona “Non sono una signora” di Loredana Berté, e infine, un attimo di sospensione. Il corteo si blocca, tutte e tutti fermi, sullo sfondo le camionette della polizia. Nell’aria si sentono le parole di Loretta Goggi, e su “che imbroglio era” una fiumana fucsia si riversa su Piazza san Giovanni, la piazza del Primo Maggio, e delle grandi manifestazioni in grado di riempirla.

    Ieri pomeriggio a Roma 150.000 persone, senza bandiere né supporti politici, hanno manifestato nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne, lanciata in Italia dalla piattaforma “Non una di meno”.

    Si è trattato di un corteo e di una piazza festosa, composta da donne e uomini, che attraversavano almeno tre generazioni: femministe storiche, famiglie di trenta-quarantenni con figli, giovani universitarie, liceali e studentesse medie. I gruppi generazionali si alternavano tra striscioni e camion musicali, si alternavano i centri antiviolenza e i giovani collettivi delle scuole superiori, che rappresentavano alcuni tra gli spezzoni più politici. C’erano bambine e bambini, c’erano gruppi queer e movimenti migranti. C’erano gli spazi storici del movimento e i vecchi gruppi di autocoscienza, ma anche ragazze dai capelli rosa e verdi, giovani velate, operaie e intellettuali. Non c’erano bandiere, se non palloncini fucsia e matrioske riempite di contenuti politici. Dal carro sono stati letti molti dei tweet ricevuti dalla campagna “quella volta che”, ma sono state rilanciate una serie di battaglie per i diritti: quelli delle donne richiedenti asilo, la critica all’obiezione di coscienza, le morti per “femminicidio”, la domanda da riconoscimento per le sex workers, la sempre presente discussione sull’aborto, e il tema, centrale per la giornata, della violenza.

    Il movimento ha una dimensione internazionalista, che riunisce le proteste argentine a quelle polacche, passando per le rivolte turche (osteggiate ieri) nella città che ha dato il nome alla Carta fondamentale dei diritti delle donne, la Convenzione di Istanbul.  Il corteo segue la presentazione di un piano nazionale antiviolenza, lanciato il 21 novembre e frutto del lavoro di circa 5000 donne che per un anno hanno sviluppato tavoli di concertazione e riflessioni collettive.

    Tra i punti fondamentali, la riflessione sulla violenza di genere come violenza strutturale e sistemica che attraversa tutte le forme e le pratiche sociali: i percorsi di fuoriuscita dalla violenza; l’ambito legislativo e giuridico; quello del lavoro e del welfare; il diritto alla salute sessuale e riproduttiva; l’educazione e la formazione; i femminismi e le migrazioni; la narrazione della violenza che viene svolta attraverso i media; il sessismo nei movimenti; le questioni inerenti alla terra, i corpi, i territori e gli spazi urbani.

    Sfogliando il piano, si ritrovano tutte le grandi battaglie ed emergenze politiche che accompagnano i giorni recenti. In quella piazza, ieri, si poteva ritrovare la complessità del presente, e il bisogno di una politica fatta sui contenuti, sull’ascolto e sul cambiamento del paradigma. Il movimento femminista che ha sfilato ieri, ha operato una reale innovazione culturale, senza rifiutare l’eredità della tradizione, i punti di “Rivolta femminista”, le battaglie sull’etica della cura, il pensiero della differenza.

    Tuttavia, le nuove necessità e una spinta realmente globale hanno permesso alle piattaforme di rinnovarsi, di parlare del presente, di ragionare sul futuro. In un certo senso, abbiamo assistito realmente ad una trasmissione dei saperi che hanno saputo adeguarsi ai linguaggi e ai cambiamenti, e superare le fazioni e le divisioni che avevano portato a piazze sempre più vuote l’otto marzo e il 25 novembre degli anni precedenti.

    Saper raccogliere quell’eredità e trasformarla in urgenze presenti e vive è una lezione importante per tutti i processi sociali in divenire. È un processo che ha permesso in un anno di lavoro, di superare il divario generazionale che attraversa tutti gli spazi politici, di ridurre le differenze economiche tra la borghesia di alcune femministe storiche e le lotte che sono economiche ancor prima che sociali di molte donne migranti.

    Questo processo ha saputo soprattutto ragionare di piattaforme di diritti, e di come poter fare egemonia nel riconoscimento delle forme di esclusione e di richiesta di riconoscimento.  Un processo che il femminismo statunitense aveva già affrontato con il mirabile lavoro politico di Kimberlé Crenshaw. L’attivista e giurista nel 1989 aveva evidenziato la necessità di incrociare (intersezionare) le differenti identità sociali per poter cogliere le molteplici forme di oppressioni e discriminazioni.

    Ribaltando il suo paradigma, solo domandando con forza molteplici tutele giuridiche e il riconoscimento di diritti plurimi (di genere, di identità, economico-sociali, legati alla migrazione e alla cittadinanza) si può davvero ridurre la pratica violenta e la dimensione strutturale delle violazioni. Non solo, ma solo quando le domande di diritti prescindono l’interesse specifico rispetto al diritto in questione la pratica diventa culturale, non solo politica.

    Ciò che interessante di ieri è che in un momento di forte disaffezione dalla politica dei corpi, quando le analisi vengono spesso schiacciate sul “gentismo”, sui “leoni da tastiera”, sugli “webeti”, si sia aperta e stia crescendo una breccia politica reale, fatta di discussioni, di pratiche ma anche di incontri e relazioni. Per raggiungere Roma ieri sono partiti pullman da tutta Italia.

    C’erano madri e figlie, nonne e nipoti, ma anche i compagni e le compagne che condividevano quello spazio e quella domanda di giustizia. La piazza di ieri ha risposto in modo fattivo al rumore bianco che si è creato attorno al caso Weinstein, il costante confondere le vittime con i responsabili, la personalizzazione delle battaglie, la gogna delle accuse. Ieri era chiaro chi era il noi collettivo che stava parlando, ma anche che la ripresa dello spazio pubblico era (come sempre è stato) la miglior medicina per il vittimismo, lo strumento più forte per incontrarsi, ragionare, protestare.

    La piazza di sabato è stata la cartina tornasole che una riflessione sui contenuti politici che si sposta dalle soggettività della rappresentanza è la strategia più efficace per ricucire i legami tra le persone e le urgenze sociali, per ripristinare quello spazio fruttifero di discussione e riflessione, che è sempre più appiattito in polemiche manichee.

    Il femminismo di ieri, il femminismo degli ultimi due anni sta lavorando su pratiche congiuntive e non disgiuntive. È una modalità che colpisce, perché è al contempo nuova e antica, si riallaccia al novecento, all’eredità densa dei movimenti, ma ne trasforma le parole, i lessici, i soggetti.

    L’urgenza del problema, che interseca le questioni della migrazione, delle visioni del femminile, il privato e il pubblico, l’individuale e il collettivo ha riaperto una dimensione che era stato eroso negli anni, e ha riavvicinato i territori e le generazioni.

    Colpisce quanto poco quello spazio sia stato capito dai media tradizionali che hanno a fatica saputo raccontare quel processo. Colpisce rispetto alla cultura morbosa che accompagna le morti per femmincidio, la costante esposizione a forme di violenza simbolica delle donne. Ieri quella piazza è stata rubricata ad appendice della discussione politica. Colpisce come non ci fossero le figure di spicco della politica, della televisione, del cinema, del giornalismo, della letteratura. O forse non colpisce così tanto. Perché quella piazza, quella ricchezza, è la principale minaccia dello status quo.

    Quella piazza racconta un mondo possibile, in cui non ci sono discriminazioni, in cui si trovano spazi di condivisione partendo da posizioni distanti, in cui il divario generazionale diventa scambio e ricchezza, in cui non c’è bisogno di ruoli ed etichette. Quella piazza è l’innovazione culturale di cui abbiamo bisogno, e potrebbe essere il modello a cui ispirarsi per molte altre battaglie.

    Note