Essere a corto di tempo. Costruire una cronosofia

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    Pubblichiamo un estratto da Avere tempo di Pascal Chabot in questi giorni in libreria per Treccani

    Non abbiamo più tempo. Su questo pianeta siamo centinaia di milioni di persone che ripetono più volte al giorno: “Mi dispiace, non ho tempo”. Avremmo voluto ascoltare meglio quello che ci dicevano gli altri, sederci e approfondire l’argomento.

    Avremmo voluto non irritarci o eliminare ogni discussione e anche rispondere al telefono con calma, invece di scrivere soltanto: “Non è possibile, mi dispiace” in risposta a una richiesta importante. Avremmo voluto soffermarci con quel bambino particolare che ci ha fatto una domanda. E magari leggere con tranquillità quel volume su come vivere a bordo di una stazione spaziale. Oppure oziare un po’ più a lungo la mattina, ascoltando i suoni della natura mentre i boccioli fioriscono. Ma non c’è tempo per tutte queste attività.

    Opponiamo al reale lo stesso regime frettoloso. Camminiamo un po’ più velocemente, parliamo un po’ più forte. Lavoriamo dalla mattina alla sera.

    Guardiamo dritto davanti a noi, costringendo chi vuole rivolgersi a noi ad accelerare, affrettando noi stessi il passo per raggiungere gli altri. Siamo quindi coorti, lanciate sui binari veloci della vita, avviate all’assalto del futuro; siamo spronati come destrieri da pensieri di obblighi, progetti, crediti, giorni migliori e vacanze imminenti. Le to-do-list sono le nostre botti delle Danaidi, che si riempiono non appena vengono vistate.

    Nei registri dimenticati delle caselle di posta elettronica, piccole bandiere colpevoli segnalano che i compiti non sono stati eseguiti. A volte, tutte queste mancanze fanno venire le vertigini. Perché ciò che è stato fatto si dimentica rapidamente, avendo trovato il suo posto in un passato approvato, mentre ciò che resta da fare si impone, imperiosamente, come una sfida per il domani. Sarai all’altezza! E sarai puntuale!

    Infatti, il mondo è puntuale. Mantenere gli impegni è una cortesia sociale di base. E si effettua il compito di ogni giorno, non senza orgoglio. La fretta non significa sciatteria. Il rispetto delle scadenze, per quanto coercitivo, non impedisce di portare a termine il lavoro iniziato, né di onorare i propri obblighi. Abbiamo dovuto correre, anche buttarci a capofitto, e mangiare a malapena, ma alla fine della giornata tutto si somma. Abbiamo fatto le nostre ore, come si dice, ore che hanno prodotto un risultato soddisfacente. Non è sempre il burn-out, il dolore di fare l’impossibile. Nella maggior parte dei casi è possibile farlo e in effetti è possibile ottenerlo: ecco il risultato.

    Ma c’è ancora quella vocina che si deve ascoltare meglio: “Mi sembra di non avere tempo”. Questo è quello che si dice, tra due impegni, tra l’ultima sessione su zoom e la preparazione della cena, mentre si lascia il posto di lavoro o nell’ingorgo tra due riunioni. O quella persona che vorresti vedere, o il libro che rimpiangi di non aver iniziato. “Mi sarebbe piaciuto, ma non ne ho il tempo…”. Cosa dice questa scusa, dietro la quale l’ego si rifugia? Dice che il soggetto si scagiona dando la colpa alla mancanza di tempo. Non sono io, sembra dire, è il tempo che non ho. Naturalmente, questa scusa è a volte troppo facile. Può anche sembrare in malafede. Dopo tutto, non è il tempo che decide che non possiamo vedere un amico, è piuttosto l’amicizia che non si impone a sufficienza, la persona che non compie la scelta di coltivare come priorità una relazione. Siamo liberi e il tempo non cambia nulla. È troppo facile addossare tutta la responsabilità dei nostri atteggiamenti su di esso. Se non ho letto questo libro, non è perché non ho tempo, è in realtà perché ho scelto di privilegiare altro. Il problema è dunque solo individuale? È solo una questione di scelta?

    Mi sembra di non avere tempo”. Questo è quello che si dice, tra due impegni, tra l’ultima sessione su zoom e la preparazione della cena, mentre si lascia il posto di lavoro o nell’ingorgo tra due riunioni.

    Il tempo è la cosa più essenziale che ognuno abbia e di cui possa, in teoria, fare ciò che vuole. Vivere non è altro che avere tempo. Ma questo bene prezioso ha due destini comuni. In primo luogo, è incastrato nella società, preso dal lavoro e da strutture che vanno al di là di noi. In secondo luogo, e questo è il secondo destino che dipende più da ognuno di noi, passiamo questo tempo in gran parte senza contarlo. Siamo generosi, dedichiamo ore e giorni agli altri o a qualche attività futile, senza renderci sempre conto che i minuti passano solo una volta. Serio e persino maniacale su tanti dettagli, l’individuo tratta spesso il pro- prio tempo con grande noncuranza. Colui che a volte esita a dare qualche euro è sorprendentemente generoso nel disporre del proprio tempo. La verità, però, è che il budget di giorni a disposizione di ogni persona non è espandibile, soprattutto perché è impossibile sapere in anticipo quanto durerà. Ma viviamo come immortali, dedicando mesi, a volte anni, a cose o relazioni che non sempre meritano una tale prodigalità.

    Tuttavia, questa leggerezza da cicale ha un fascino profondo; senza di essa, la vita virerebbe rapidamente verso la gravità. Diventerebbe pignola per la spesa, riluttante a elargire qualche minuto in più. Ma che senso ha, visto che i secondi fuggono, che ci piaccia o meno? Le cicale del tempo hanno le loro ragioni: si godono l’estate perché sanno che la bella stagione ha una fine, e piuttosto che ripetere la malinconica lezione, che è nota a tutti, ballano, bevono e cantano.

    L’autunno, qualunque cosa accada, arriverà presto. La spensieratezza, in questo caso, è forse saggezza. In ogni caso, è il desiderio di non rovinarsi l’esistenza in anticipo, evocando troppo presto una malinconia che si amplificherà in seguito. Per questo motivo, né la serietà né la gravità sono rimedi universali per la questione del tempo. I frivoli, che a volte lo sono solo in apparenza, sono forse i più filosofici.

    Ma tutto cambia quando ci si sente dire spesso: “Non ho tempo”, e queste parole diventano una denuncia, addirittura l’oggetto di una rivolta. È una questione seria. La cicala non canta più e forse si ribella in quanto non ha più la possibilità di essere piacevolmente spensierata. Occorre contare, lavorare, applicarsi, agire sempre, e anche così il tempo è poco. Non solo non lo elargisce copiosamente, ma deve anche ammettere di non averne quasi più. Allora, dov’è andato a finire? Perché ogni giorno ognuno di noi ha tanto tempo quanto chiunque altro. Una giornata è universalmente composta da ventiquattro ore.

    Dov’è allora questo tempo? Dove vanno a finire i minuti e le ore di coloro che ne lamentano la scarsità e, a differenza di Proust, vivono nella perdita del tempo ricercato? Ragioni psicologiche, scelte e capacità organizzative possono spiegare in parte questa fuga che li fa disperare, ma solo in parte, perché si sentono anche persone molto scrupolose e ordinate fare questa osservazione: “Non ho tempo!”.

    Cosa significa questo paradosso? In effetti è paradossale lamentarsi della mancanza di qualcosa che si ha. Se non avessero tempo, scricto sensu, queste persone sarebbero morte. Eppure vivono, ma pretendono che manchi loro ciò che è la condizione della loro esistenza! Quindi di cosa si lamentano esattamente? Di cosa è sintomo il loro lamento? Come si spiega questa contraddizione?

    In verità, è un segno che il loro tempo non appartiene a loro. Queste ore e questi giorni, che dovrebbero essere loro perché connaturati nella loro esistenza, vengono loro tolti. Con questa constatazione di non avere tempo, l’individuo introduce una scissione nella propria vita, una scissione fondamentale che fa la differenza tra un tempo che non è suo (anche se è il tempo della sua esistenza) e un tempo che sogna, che potrebbe essere suo.

    Dov’è allora questo tempo? Dove vanno a finire i minuti e le ore di coloro che ne lamentano la scarsità?

    Se questo tempo non è suo, è perché viene assorbito sia da una struttura sia da altri individui. Il problema è che ci si è impossessati proprio del suo tempo, e quindi della sua vita. Tutto il suo tempo, si lamenta, è tempo programmato, tempo socialmente trasformato. E il tempo di cui sogna, slegato e libero, farebbe rima con una solitudine fantasticata. Ma troppo spesso questa sembra impossibile, da qui la sua rabbia quando gli viene detto che è tutta una questione psicologica di scelte e priorità. L’obiezione è impercettibile, tanto che l’individuo sente che gli obblighi professionali, familiari e sociali hanno interferito con la sua temporalità fino a regolarne i dettagli. Sente che il tempo programmato in cui vive non è stato organizzato da lui, e che tutta la sua vita è regolata da vincoli, volontà e intenzioni che non sono sue.

    Così, con la sua aria di constatazione dispiaciuta, il famoso “non ho tempo” tradisce un’espropriazione, talvolta seguita da un desiderio di riconquistare i propri diritti. Nulla sembra più giusto che disporre del proprio tempo, perché è questo che è la vita: avere tempo. E niente è così comune come non averlo, darlo via o esserne derubati, anche senza intenzione malvagia… Eppure eccolo il risultato: il mio unico bene viene alienato.

    Questa consapevolezza è una liberazione potente. Si credeva con ingenuità che il tempo fosse distribuito imparzialmente a tutti; lo si considerava indifferente vista la sua intoccabile neutralità metafisica – perché cosa potrebbe essere più neutrale del tempo, cosa più insensibile alle vicende umane di questo mistero cosmico? E si comprende piuttosto che questa indifferenza è solo fisica e metafisica, mentre, in concreto, il tempo è oggetto di un’aspra lotta, che porta fino al furto. Questa nuova lucidità cambia tutto!

    Non possiamo più nasconderci dietro il fatalismo poetico che ammette, impotente, la legge universale che il tempo ha sempre sete. Perché sembra piuttosto che a volte sia l’altro ad avere sete del mio tempo. Invece dell’implorazione “Oh tempo, sospendi il tuo furto”, sarebbe più appropriato, nella modalità di denuncia, sospendere il furto del tempo! Perché per alcuni si tratta solo di rapina, piccoli furti, e, alla fine, non rimane più niente… Quando c’era così tanto tempo… Strano avere, che è anche dell’essere.

    Note