La campagna #deleteFacebook è partita una paio di mesi fa, sull’onda emotiva provocata dalle rivelazioni del Guardian su Cambridge Analytica, eppure, a parte aver occupato l’agenda dei media per qualche giorno, non sembra aver prodotto un vero movimento di fuga collettiva da Facebook. L’unica vera fuoriuscita di massa da Facebook è quella degli adolescenti, giustamente in fuga da qualsiasi spazio, fisico o digitale, in cui gli adulti rappresentano la maggioranza dei presenti. Peccato che questa fuga finisca sempre dentro i confini dell’impero mediale di Zuckerberg, visto che gli adolescenti hanno sostituito Facebook con Instagram.
Ma in questo articolo vorrei parlare di un problema più ampio della singola campagna contro Facebook, ovvero la possibilità di praticare una resistenza allo stato di distrazione permanente facilitato dall’intero ecosistema dei social media commerciali. Se c’è un motivo per fuoriuscire da Facebook, non è tanto quello di proteggere meglio i nostri dati personali, ma quello di proteggere le nostre limitate risorse di attenzione.
La riflessione parte da un bel pezzo di Gert Lovink, uscito il 28 marzo (quando è partita la campagna #deletefacebook) su Eurozine: “Distraction and its discontents”.
Lovink molto correttamente suggerisce che il “digital detox”, il periodo di disintossicazione da social media, non è una soluzione sostenibile nel lungo periodo, e non è nemmeno una soluzione politicamente rilevante: “La disillusione nei confronti dei social media ha come unico effetto quello di stimolare ancor di più, da parte delle piattaforme, la ricerca di tecniche di manipolazione sempre più raffinate. La disintossicazione non aiuta: solo un’azione collettiva, non la forza di volontà del singolo, può liberarci dallo stato permanente di distrazione”.
15 anni fa, ricorda Gert Lovink citando Noah Smith, “l’internet era una via d’uscita dal mondo reale. Ora il mondo reale è una via d’uscita dall’internet”.
Dopo 15 anni d’uso di social media commerciali, la sbornia dovuta all’accelerazione dei contatti sociali mediati da tecnologie comincia a diradarsi, e si fa strada tra studiosi e utenti la percezione di aver passato forse troppo tempo dentro i confini del giardino dorato di Facebook e compagni.
Se pensiamo a come è cambiato il nostro modo di stare dentro quel giardino, possiamo ricordare molti momenti divertenti e piacevoli, scambi interessanti, scoperte quotidiane, flirt continui, insomma, la lista degli “effetti” positivi della piattaforma, potrebbe essere lunga, e ancora oggi molti di noi trovano dei benefici nel confrontarsi online con amici e conoscenti, alla scoperta di notizie, meme, punti di vista interessanti. Ma è sempre più evidente il rumore di fondo che abita questo ecosistema, un rumore di fondo così forte che è diventato quasi impossibile parlarsi e ascoltare.
Eppure, andarsene via, a parte pochi casi isolati e ampiamente strombazzati, sembra ancora impossibile ai più, forse per via di quella “social glue”, quella colla sociale fatta di relazioni e contatti umani, dentro la quale siamo imbrigliati in una rete quotidiana di menzioni e like, di cui facciamo fatica a liberarci, per paura di sentirci soli. E’ proprio questa colla, che è progettata per creare dipendenza. E anche tra i creatori di queste piattaforme, ultimamente va molto di moda fare autocritica.
Tra gli autocritici più famosi c’è un noto interaction designer della Silicon Valley, Tristan Harris. Harris ha pubblicato su Medium un articolo dal titolo “How Technology Hijacks People’s Minds — from a Magician and Google’s Design Ethicist” in cui sostiene che i social media replicano il meccanismo delle slot machine. Il meccanismo psicologico che sta dietro le slot machine, prosegue Harris, è quello delle “intermittent variable rewards”, cioè delle ricompense intermittenti di natura variabile. Quando tiro la leva non so che tipo di ricompensa riceverò. Se i designer di tecnologia vogliono massimizzare la dipendenza, quello che devono fare è collegare l’azione di un utente (come tirare la leva della slot) con una ricompensa variabile. Tu tiri una leva e immediatamente ricevi in cambio un bel premio o anche niente.
La dipendenza è massimizzata quando la ricompensa è la più varia possibile: “diversi miliardi di persone hanno una slot machine nelle loro tasche: quando tiriamo fuori i nostri cellulari per controllare le notifiche stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando clicchiamo “refresh” per aggiornare le nostre email, stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando facciamo scivolare il nostro indice lungo lo schermo del telefono per aggiornare la bacheca di Instagram, stiamo giocando con una slot machine. Quando scorriamo i profili di potenziali partner su Tinder stiamo giocando con una slot machine.”
Justin Rosenstein, inventore del pulsante “mi piace” di Facebook, ha recentemente paragonato Snapchat all’eroina. Leah Pearlman, ex project manager di Facebook, ha invece ammesso che anche lei è diventata insoddisfatta del pulsante “mi piace” e dei “feedback-loop” in cui ti spinge la piattaforma. O Chamath Palihapitiya, un altro ex dirigente di Facebook, che afferma che i social media stanno facendo a pezzi la società e consiglia gli utenti di “prendersi una pausa”.
Queste autocritiche non solo suonano ridicole – ma come? Avete guadagnato milioni di dollari con le vostre invenzioni e ora chiedete scusa per quello che avete progettato? Se volete scusarvi davvero, dovreste restituire anche i soldi – ma sono anche molto rischiose, perché spostano il problema verso una reazione “moderata” all’uso di queste piattaforme: secondo la nuova ondata degli autocritici americani, basterebbe “prendersi una vacanza”, “staccare la spina”, essere consapevoli del meccanismo per controllarne meglio gli effetti, cioè darsi una disciplina individuale, o imporla ai propri figli.
Mi sembra di sentire di nuovo le stesse polemiche già accadute con l’avvento della televisione commerciale: bisogna utilizzarla a piccole dosi, i genitori devono “razionare l’uso” della tv, ecc…
Come giustamente nota Lovink, “rifugiarsi nei boschi (come dei novelli Thoureau, aggiungo io) senza un telefono cellulare, non ci aiuterà nel lungo periodo. Le strategie di disintossicazione o di autodisciplina, servono solo alle corporation a fare ancora più soldi”.
Per evitare di cadere nella trappola di posizioni romantiche, quelle che Lovink chiama “offline romanticism”, ovvero una mitizzazione della vita offline, tanto cara anche all’ultima Sherry Turkle, bisogna chiederci quali siano le informazioni davvero vitali per noi, e quanto siamo disposti ad aspettare per ottenerle, anche rinunciando al real-time dei social media.
Ancora Gert Lovink: “Offline o online, ciò che conta è capire come è possibile fuggire da una vita calcolata, insieme. È stato divertente finché è durato, ma ora bisogna andare avanti.”
Lovink mostra una via d’uscita possibile: fin qui ci siamo anche divertiti, ma è ora di scuoterci da questo stato di distrazione permanente, e per farlo non bastano singoli atti, isolati, di resistenza, autodisciplina, disintossicazione, servono azioni collettive, “politiche”, capaci di “Invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo”, per dirla con Ivan Illich (Tools for Conviviality, 1973, p. 10). Come si inverte la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo? Si può, ma solo mettendo in crisi lo stato di distrazione permanente indotto da questi strumenti per legittimi fini di profitto, che ora però, stanno avendo ripercussioni su vari livelli di funzionamento della società.
La distrazione permanente è una condizione necessaria per il funzionamento dell’economia dell’attenzione, un’economia, come racconta brillantemente Tim Wu nel suo “The Attention Merchants”, nata con la vendita di spazi per la pubblicità coi primi quotidiani popolari, proseguita attraverso la nascita del broadcasting commerciale nel Novecento per poi prendere la forma contemporanea dei social media commerciali.
Da questo regime di distrazione permanente, di intrattenimento collettivo, a volte intelligente, a volte demenziale, ci si scuote soltanto attraverso un intervento politico contemporaneamente dal basso e dall’alto: dall’alto, attraverso una riforma strutturale delle telecomunicazioni (vedi per esempio la discussione su cheFare intorno al “pluralismo di piattaforma”), e dal basso, attraverso una politicizzazione delle piattaforme esistenti, una presa di coscienza collettiva dei meccanismi di valorizzazione dei nostri dati, un’attivazione collettiva che richieda alle piattaforme esistenti maggiore responsabilità e, solo in uno stadio successivo, quando questa consapevolezza sarà di massa, l’articolazione di altri strumenti, non commerciali, di natura pubblica o no profit, non progettati per tenerci attaccati alla macchina, ma lo stesso utili per intermediare relazioni sociali che riteniamo significative.
Immagine di copertina: ph. Thought Catalog da Unsplash