Nel 2021 smetteremo di usare plastica monouso, meno male. Ma la plastica ci ha cambiato la vita, regalando praticità, leggerezza e igiene laddove legno, vetro o metallo richiedevano tempi e gesti divenuti rapidamente scomodi nella pratica comune. Il problema non è lei, ma il nostro rapporto con il mondo materiale.
Cos’hanno in comune l’isola galleggiante di plastica nel Pacifico, la discarica di Ghazipur alta come il Taj Mahal alle porte di New Dehli, la Terra dei Fuochi in Campania, gli incendi dolosi di rifiuti in Lombardia e così via? Sono cimiteri.
Noi non sappiamo più dove seppellire le cose, meglio “le merci a fine corsa”. Che non muoiono più, si accumulano, si polverizzano e finiscono nei fiumi e negli animali, si liquefanno e si infiltrano nel terreno, e se si bruciano si trasformano in gas tossici, come se si vendicassero dello sterminio quotidiano mutando in zombie.
‘Combattere il sistema’ per salvare il pianeta vuol dire una cosa che suona lontana da quello slogan, cioè metter mano alla nostra intimità
Ci illudiamo di arginare il danno con il biodegradabile – il materiale che “non si vendica”, per stare in quell’immagine – ma anche quello è un problema in economia circolare, perché comunque è un rifiuto, da raccogliere, stoccare, smaltire.
Abbiamo prima inventato utensili e vestiti, poi arredi e strumenti di ogni tipo, oggetti votivi e oggetti d’arte, cioè abbiamo popolato il mondo con le nostre cose, con cui avevamo un legame fortissimo. “Gli uomini sono uomini più cose” diceva Calvino.
Queste cose sono diventate nell’età moderna oggetti, cioè etimologicamente siamo passati da ciò che ci interessa – “cosa” e “causa” hanno lo stessa origine – a ciò che ci si oppone, cioè l’oggetto, caduto sotto il dominio del soggetto, che vuole il mondo ai suoi piedi. Poi la nostra forza creatrice ha raggiunto la potenza della produzione industriale, che con la serialità ha mutato gli oggetti in merci, repliche programmate del prototipo.
Il prezzo pagato è che oggi il mondo materiale ci è divenuto alieno: nessuno conosce nulla di ciò che lo circonda nel quotidiano, i saperi impliciti sono troppo elevati, noi che abbiamo sempre appreso dalle cose ora sappiamo a malapena usare le merci, quasi mai ripararle, certo non produrle.
Usare e buttare è antropologicamente agli antipodi dell’ideare e creare, l’estraneità a questo mondo materiale che non ci parla e non parla di noi finisce in quello sterminio quotidiano, in quei cimiteri dove non trovano pace i nostri “rifiuti”, letteralmente ciò che non abbiamo voluto con noi. È l’addestramento all’usa e getta: lo sterminio è incentivato, il consumo esige che non si abbiano legami.
E poi la tecnologia incorporata nelle nuove merci regala superpoteri, le “rivoluzioni” di questi anni sono state nuove funzioni di oggetti non il coraggio e gli ideali di persone, basta aspettare e buttare il vecchio, anche se di quei superpoteri ignoriamo principi e funzionamento, cioè ne siamo dipendenti.
“Combattere il sistema” per salvare il pianeta, come dicono gli attivisti di oggi, vuol dire allora una cosa che suona lontana da quello slogan, cioè metter mano alla nostra intimità. Al rapporto con le cose che scegliamo e ci circondano, ad un’ecologia che paradossalmente non è solo rispetto dell’ambiente ma attenzione agli oggetti, al loro significato, alla funzione più bella e sostenibile che hanno, ovvero non quella di darci potere – perché allora ne vorremo sempre di più, in una corsa infinita – ma di creare relazioni. Vediamone due esempi, fra i tanti.
Le scatole delle meraviglie
Un’educatrice di nido anima un’isola d’intimità prendendosi cura del piccolo gruppo di bambini stanchi con cui siederà a tavola a breve: seduti in cerchio in una zona riparata, su un tappeto, sono palpabilmente legati da un vivido interesse che prende corpo attraverso il passaggio, di mano in mano, di oggetti desueti, che la donna presenta uno a uno, invitando poi i bambini ad esplorarli e passarli al compagno di fianco.
Così si dipana davanti ai nostri occhi il potere delle scatole delle meraviglie, un potere notevole, se si tiene conto che al nido ci sono bambini che arrivano molto presto e vorrebbero dormire quando è ora di pranzo, intorno alle undici, desiderio raramente accolto dalle istituzioni, che solo in sparuti casi considerano prioritario personalizzare questi aspetti della cura. Alcuni bambini faticano ad adattarsi agli orari dell’organizzazione: ammetterlo rende possibile cercare soluzioni.
Le scatole delle meraviglie nascono proprio così, per far fronte a un problema: ideate per sollevare i bambini dalla fatica dell’attesa, sono diventate un traghetto che sposta l’attenzione dal calo fisiologico di energia al desiderio di condividere un momento rituale insieme ai propri compagni di nido, coetanei e adulti di riferimento.
Le scatole delle meraviglie alimentano una dimensione ad alta densità relazionale, il cui potere generativo è direttamente proporzionale all’amorevolezza con cui sono stati selezionati e presentati gli oggetti: Pestalozzi ci insegna infatti che l’amorevolezza è una postura, una habitus professionale, non l’espressione di un moto sentimentale, ed è in tale cornice che si concretizza un balletto raffinato di turni di parola e gesti, tra bambini e adulto.
Riproponendo nelle formazioni agli educatori l’esperienza delle scatole delle meraviglie si nota che vi sono gesti e desideri che si ripresentano, indifferentemente da chi li compie e dall’età delle persone di cui si prendono cura professionalmente: il desiderio di raccontare dove si era incontrato un oggetto analogo o identico (a casa della nonna, dalla mia amica d’infanzia, durante un viaggio, …); l’urgenza di condividere l’emozione suscitata, spesso legata a figure significative dell’infanzia, ad amicizie e amori giovanili, o della maturità; l’abitudine di separare dagli altri gli oggetti preferiti, rincorrendo la fantasia di poterli ricevere in dono; una tensione classificatoria che procede per tassonomie ed insiemistica; il soffermarsi sulle superfici per indagarle con vari sensi, tatto in primis.
La forza trasformativa degli oggetti è evidente: molti luoghi pubblici – presidi ospedalieri, servizi di accoglienza diurna e residenziale, uffici – sono respingenti e opprimenti per la sterilità narrativa degli arredi e dei complementi: basterebbe introdurre elementi di uso comune già “vissuti” per trasformarli radicalmente. Da sempre nei servizi educativi è indicatore di sensibilità e perizia trovare un equilibrio sostenibile tra la capacità narrativa del vecchio e la stupefazione del nuovo, lo stesso si riscontra in quelle biblioteche pubbliche in cui – da Prato a Göteborg – la meraviglia si gioca tra discontinuità e prevedibilità negli oggetti che popolano gli spazi accessibili dai frequentatori.
Le autobiografie materiche e i cataloghi sentimentali
Proviamo a chiedere ad un ragazzo “dimmi quali sono stati per te, nella tua vita, i tre oggetti fondamentali”: provocato a stilare un’autobiografia per oggetti, ripensa al poco che conta davvero, in un’ecologia che è delle esperienze, dei vissuti, dei sentimenti. In queste ricostruzioni fatte come esercizio riflessivo crolla il mercato e il suo valore di scambio, non ci sono più le marche che rapiscono nel quotidiano, ma restano oggetti legati a ricordi, a piccole imprese, sempre a relazioni, d’amore e d’amicizia.
Quanto più sono usati tanto più sono amati, ogni segno d’usura è un pezzo della storia, la pubblicità commerciale è la forma discorsiva più distante dal loro racconto. Si arriva in un attimo, riflettendo a voce alta insieme, a capire come sia l’esperienza ad assegnare il valore, perché quasi mai si tratta di merci ambite e a lungo desiderate: a vedere quelle scarpe, quel biglietto di teatro, quella catenina, quel cacciavite… nessuno ne coglierebbe l’importanza. Questo valore sta nell’oggetto come medium di relazioni, come vettore di esperienze, quando lo riguardi così non lo vuoi più rimpiazzare, lo conservi.
Ma gli oggetti hanno tante vite, e allora immaginiamo di “fare eco” ed elevare al quadrato quella proprietà relazionale, cioè di farne occasioni di nuove relazioni. A ispirarci sono le “Wunderkammer”, le stanze delle meraviglie, cioè i primi musei, privati, nati nelle case dei ricchi commercianti per esibire l’esotico, il singolare, il mai visto. In un nido, in un centro giovani, in una biblioteca si espongono le autobiografie materiche di chi li frequenta, cioè gli oggetti e le loro storie, le loro mappe affettive, i “lasciti” di qualcosa di caro che ciascuno è sollecitato ad offrire, ecc.
Questi materiali vengono allestisti ed esposti con cura artistica, perché l’arte è il nostro baluardo dal consumo, nella sua cornice l’oggetto qualunque esce dal ciclo “usa e getta”: quando disegni interroghi l’oggetto, quale che sia, quanto guardi un dipinto fai parlare ciò che vedi, eviti l’indifferenza del consumo. In fondo i musei etnografici funzionano così, e questa è un’etnografia dei viventi, cioè delle cose dei bambini, dei ragazzi, di chi frequenta quegli spazi.
In queste Wunderkammer – o in più semplici Wunderwand, pareti allestite con lo stesso principio – si scopre così quella meraviglia che è la vita degli altri svelata per dettagli, con l’intimità di piccoli oggetti che raccontano un mondo anche se non valgono niente. Sono oggetti osservati a lungo, se si usano didascalie si possono svelare le storie delle persone così da far sentire tutti portatori di qualcosa di prezioso, degno di contemplazione. Ma le didascalia si possono creare insieme, per far nascere un’identità condivisa attraverso gli immaginari convocati dagli oggetti.
Mentre si osserva insieme ci si sorride a vicenda, per la complicità di quei frammenti, si rimbalza sugli oggetti per entrare in una relazione quasi intima, si crea una comunità a partire dai suoi cataloghi sentimentali, e si salva dalla discarica non solo gli oggetti ma anche gli scorci di vita di cui sono carichi.
Immagine di copertina: ph. Alex Gruber da Unsplash