Lavorare anche quando non si lavora e non avere mai il tempo di pensare

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    I nuovi centri culturali sono spazi di confronto, di scontro e di trasformazione. Il lavoro che svolgono è inestimabile ma è necessario fare di più per sostenerli. Farlo significa superare gli ostacoli economici e pratici che li hanno limitati fino ad ora: dobbiamo condividere strumenti, conoscenze ed esperienze. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva. Vogliamo unire le forze con tutti i nuovi centri culturali d’Italia. Compila il nostro questionario e raccontaci chi sei.


    Verso la fine del 2018, cheFare pubblicava un mio articolo, dal titolo Dalla sostenibilità economica alla neurosostenibilità. Nel pezzo provavo a sviluppare un ragionamento e una domanda, ovvero: il lavoro culturale, sempre più spesso precario, mal retribuito, pone nella vicenda quotidiana di molti, moltissimi, un tema cruciale, quello della sostenibilità economica della professione e, di conseguenza, della sua sostenibilità esistenziale, specie quando il lavoro comporta un carico significativo di ansia e fatica; ma che cosa accade quando il lavoro precario, o più lavori precari, più commissioni, con il relativo portato di stress e cronica incertezza, si combinano, per esempio, con un utilizzo intensivo dei device? E che cosa succede quando si è costretti ad accettare tutti i piccoli lavori che ci vengono offerti? Quanto a lungo è possibile sostenere un certo ritmo di vita e lavoro? Ecco che forse, mi dicevo, si pone un tema ulteriore: quello della neurosostenibilità del lavoro culturale.

    Il pezzo è stato molto letto, condiviso e discusso. Segno che qualcuno si è riconosciuto e che la questione esiste. Perciò abbiamo pensato di provare ad allargare la discussione, inoltrando sette domande a persone e amici che lavorano nella cultura, nella conoscenza, nella formazione etc. Crediamo che valga la pena parlarne, che occorra testimoniare, sollevare una discussione pubblica e che questo spazio, infine, sia il luogo giusto per iniziare.

    In questa quinta puntata (qui le precedenti) abbiamo girato le nostre domande a Paola Ricciardi e a Elena Contenta Patacchini.
    «Alla fine sei stanco: perché lavori tanto e perché quando non lavori, lavorii», dice Paola, che è architetto, parlando del periodo in cui ha lavorato come libera professionista. Elena Contenta, che si occupa di comunicazione ed è autrice di un romanzo, sembra invece preoccupata per l’assenza di ossigeno e spazio mentale nel mondo del lavoro culturale, e per gli spazi sempre più ridotti per il pensiero critico. Detto con le sue parole: «non c’è tempo per dare il tempo al pensiero di fare il suo dovere di pensiero».

    PAOLA RICCIARDI

    Quanti anni hai e che lavoro fai?

    Ho 36 anni e sono un architetto. Ho lavorato fino allo scorso anno come libera professionista, impegnata principalmente in due settori: da un lato la professione vera e propria, principalmente nel campo dell’architettura di interni e della gestione di patrimoni immobiliari (regolarizzazioni urbanistiche, catastali, etc.), e dall’altro lato il lavoro culturale nell’ambito della promozione dell’architettura, con attività di formazione, organizzazione eventi, comunicazione e ricerca. Da 6 mesi invece sono dipendente a tempo indeterminato per una pubblica amministrazione, sempre con la qualifica di architetto, ma rivesto un ruolo preminentemente tecnico, e sto cercando di continuare a portare avanti nel tempo residuo una parte del lavoro culturale che svolgevo prima (la libera professione in senso stretto mi è comunque preclusa in quanto dipendente a tempo pieno).

    Tempo fa hai scelto un certo percorso di studi e professionale. Quali erano in quel momento le tue ambizioni e i tuoi desideri?

    Il percorso di studi è stato scelto per tanti motivi, tra cui la passione e anche le opportunità lavorative, ma senza una reale consapevolezza di quale sarebbe stato poi il percorso professionale conseguente. Il percorso professionale è stato un susseguirsi di cammini interrotti e ripartenze. Prima della crisi economica del 2009 sognavo di fare la progettista e lavorare in un grande studio; dopo, con le offerte di lavoro sempre più scarse e le condizioni sempre più vessatorie, ho dovuto fare un po’ tutto quello che capitava, inventarmi una mia “autoimprenditorialità” come unica via d’uscita alla disoccupazione o allo sfruttamento, ma ho anche avuto modo di fare delle esperienze che lavorando a tempo pieno in uno studio non avrei potuto fare, come il dottorato di ricerca e lo stesso lavoro culturale. La crisi mi ha chiuso una strada ma è stata anche una messa in discussione molto forte di quelle che avevo percorso fino ad allora e questo mi ha dato l’opportunità di capire meglio chi fossi e cosa volessi fare.

    Esiste un tema della «neurosostenibilità» nel tuo lavoro e nella tua vita? E come si manifesta? Con quali sintomi? Quali sono, a tuo parere, le cause?

    Il tema della sostenibilità in generale, con tutti i suoi vari aspetti interconnessi – sostenibilità economica, psicologica etc. – è il fattore che mi ha portato ad accettare un lavoro sicuro nel momento in cui se ne è presentata, inaspettatamente, l’opportunità (avevo fatto un concorso 10 anni fa, proprio nel momento in cui a causa della crisi per 4 mesi non ero riuscita a trovare un lavoro; e sempre a causa della crisi la graduatoria è rimasta in vigore 10 anni per via del blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione; non è che ora voglio dare alla crisi la colpa di tutto, ma in effetti io, molte altre persone e lei abbiamo un conto aperto).

    Quando lavoravo come libera professionista, il primo problema era la sostenibilità economica: i lavori erano spesso sottopagati e a singhiozzo; questo portava ad accettare quanti più lavori possibili – anche di nessun interesse per il miglioramento del mio curriculum o addirittura controproducenti –per avere più entrate e non perdere mai nessun cliente, in modo da assicurarsi il massimo di continuità lavorativa, il che significava caricarsi di un onere, in termini di ore lavorate, piuttosto pesante; i periodi con pochi incarichi, invece, soprattutto all’inizio li vivevo sempre con una certa angoscia e quindi non mi ricaricavo mai davvero; col tempo poi impari che questo flusso di lavoro incostante è fisiologico, ma una preoccupazione di sottofondo ti resta sempre se la mattina ti svegli e non sai cosa fare.

    Inoltre la libera professione porta ad assumersi molte responsabilità sul piano civile e penale, mentre il lavoro autonomo comporta continuamente l’onere di prendere decisioni di cui ti assumi personalmente la responsabilità davanti ai tuoi clienti/committenti, il che è psicologicamente sfiancante. L’instabilità economica e la mancanza dei diritti più elementari (diritto al futuro di una vecchiaia serena, di una famiglia, di mettersi al riparo dall’imprevisto di una malattia), che è secondo me la prima e principale causa di tutto il resto, veniva compensata dal fatto di avere, almeno in parte, un lavoro ricco di senso, attraverso cui crescere.

    Questo significa però anche fare del lavoro il senso della propria esistenza, il che può essere ulteriormente problematico; così come condividere questo percorso lavorativo con amici/colleghi da un lato ti rende meno solo e vulnerabile, dall’altro mette in crisi molti rapporti personali, perché tutto diventa fluido e sovrapposto: vita e lavoro, amicizie e collaborazioni. Ma la questione per me è sempre che non ci sono contrappesi: questa è solo la ciliegina dolcissima e un po’ pesante su una torta già indigesta.

    Alla fine sei stanco: perché lavori tanto e perché quando non lavori, lavorii, nel senso che hai un lavorio di preoccupazioni e di rimozioni di preoccupazioni che non ti fa riposare davvero.

    È una questione di cui parli con i tuoi colleghi e amici o è un tema tabù?

    Ne parlavamo, con più o meno consapevolezza, con più o meno stanchezza: c’è anche chi magari è più resistente allo stress, o viene da percorsi differenti. Al di là delle diverse soggettività, comunque, per me è un problema collettivo, “di classe” (probabilmente, effettivamente, disagiata). Questa consapevolezza di “classe”, però, non è diffusa quanto la stanchezza che poi tutti manifestano; non nel senso che non si abbia la percezione del problema come collettivo e generalizzato, ma nel senso che non è percepito come problema politico, nato in seno alla struttura economica e sociale e trasversale alle professioni.

    Rispetto alle aspettative e ai desideri con i quali hai intrapreso tempo fa un percorso professionale, oggi qual è il tuo bilancio? E qual è il senso del lavoro che svolgi? 

    Alla fine io ho scelto di “capitolare”, e credo che questa scelta parli un po’ da sé, anche se l’ho fatta non pienamente convinta. La decisione è stata dura anche perché ha comportato il trasferimento in un’altra città e l’abbandono di un percorso lavorativo in cui ormai avevo acquisito una buona professionalità, ma anche una comunità di affetti e di persone con cui condividevo progetti e incarichi. Mi rendo conto che le sicurezze acquisite con questo nuovo lavoro sono importanti, ma lo era per me anche il senso di quello che facevo, che era l’idea, forse naive, di poter dare qualcosa alla comunità attraverso un lavoro fatto bene, che mi piaceva, mi faceva crescere anche come persona, e in cui iniziavo a essere brava. È ovvio che posso farlo anche qui, ma non è lo stesso tipo di lavoro e ci vorrà comunque molto tempo per costruire una professionalità in questo settore.

    Quali sono le tue paure e le tue speranze per il futuro della tua vita e del tuo lavoro?

    Mi sento a un bivio: da un lato un lavoro sicuro e ben retribuito, “pagata ma poco appagata”, in una città dove non ho affetti; dall’altro un lavoro difficile, faticoso, pagato in modo discontinuo e sempre in equilibrio fragilissimo, ma in cui riconoscevo un maggiore senso e con i miei affetti vicini o comunque non troppo distanti (anche se non avevo tanto tempo da dedicargli). Sono sicura che questa mia situazione attuale non mi rende felice, ma sono anche sicura che la situazione di prima, per tanti motivi, non era sostenibile ancora a lungo.

    Quindi sinceramente non so come se ne esce e non so cosa accadrà in futuro. So che questa esperienza è stata in ogni caso importante perché ho potuto toccare con mano cosa significhi avere una sicurezza economica, una chiara distinzione tra tempi di vita e di lavoro, una serie di tutele, specialmente quando non hai rendite di famiglia o entrate di un certo tipo, e ho capito che è una cosa che ti cambia la vita e pure un poco la personalità: è tanto semplice da dire ma i diritti dei lavoratori negli ultimi 30 anni sono stati così ferocemente attaccati che sembra che ci sentiamo tutti “choosy” se diciamo pubblicamente una verità così banale.

    Quali sono le strategie che intendi porre in essere per rendere la tua vita migliore e per dare maggiore senso al tuo lavoro?

    Se tornassi indietro rispetto alla scelta che ho fatto ora, chiaramente sarebbe per una forte motivazione, e quindi da un lato accetterei la condizione di “equilibrio fragilissimo” del lavoro autonomo in ambito culturale/creativo, dall’altro proverei a lavorare per prendermi quei diritti che non mi sono dati: meno invasioni del lavoro nella vita privata, pretendere parcelle più alte, in generale una maggiore consapevolezza. Questo per lo meno mi sembra quello che a livello individuale e realistico potrei mettere in campo; a livello collettivo ci sarebbe molto da fare in merito a coscienza e diritti. In generale penso che il lavoro culturale abbia bisogno di strutture solide per produrre ricchezza, non solo per chi lo fa, ma anche per la società che di quella cultura è la diretta fruitrice. Le persone che ci lavorano hanno bisogno di investire su sé stesse e sui progetti che portano avanti, e investire significa ragionare con orizzonti temporali ampi, mentre la precarietà è per statuto qualcosa che ti costringe a piccole gittate, piccoli obiettivi, piccole salvezze.

    ELENA CONTENTA PATACCHINI

    Quanti anni hai e che lavoro fai?

    Ho 29 anni e mi occupo di comunicazione per progetti che mirano a generare impatti positivi, soprattutto in ambito sociale e culturale. Inoltre, mi capita di scrivere: articoli e racconti, ma mi sono cimentata anche in qualcosa di più strutturato, visto che un paio di mesi fa è stato pubblicato un mio romanzo.

    Tempo fa hai scelto un certo percorso di studi e professionale. Quali erano in quel momento le tue ambizioni e i tuoi desideri?

    Era tanto tempo fa, e più che altro la decisione è stata presa per giustificare il mio trasferimento in una grande città. È stata una scelta non tanto legata ai temi specifici, quanto a qualcosa che potremmo chiamare “neurosostenibilità della provincia italiana”. Sulle mie “vere” passioni, poi, ho pensato bene di provare un imbarazzo continuo e disarmante, con conseguente mutismo verso l’esterno per quasi tutta la post-adolescenza. Ritengo anche questo un effetto ricorrente e implacabile del desiderio di lavorare in ambiti neuro-insostenibili (se non già neuro-incomprensibili) per le persone che si hanno attorno.

    Esiste un tema della «neurosostenibilità» nel tuo lavoro e nella tua vita? E come si manifesta? Con quali sintomi? Quali sono, a tuo parere, le cause?

    Esiste un tema forte di neurosostenibilità nel lavoro culturale, che ricade sempre più spesso sulla vita privata. La qualità e la profondità perdono terreno ogni giorno che passa: questo è il dato. Essenzialmente, l’insostenibilità si manifesta con una dilagante frustrazione causata da una sempre minor possibilità di riflessione, dalla riduzione a zero degli spazi di pensiero.

    Questo fatto disegna, all’interno dell’esistenza professionale, una curva della qualità del lavoro pesantemente decrescente (soprattutto rispetto all’agire strettamente connesso con la “produzione di contenuti”), una stanchezza stratificata che non lascia intendere una possibilità concreta di “recupero”, una demotivazione incrementale legata al percepire come “appena sufficienti” progetti che potenzialmente si erano immaginati più che ottimi. Se questo è un aspetto difficile da gestire nelle aree di lavoro prettamente tecnico, lascio immaginare, con le dovute proporzioni, quanto pesi sul lavoro più apertamente creativo.

    Quando la sensazione di non aver fatto abbastanza è legata a una mancanza di tempo, a una mancanza di spazio mentale, la chiusa del ragionamento è una serie di silenziose implosioni interne, uno stato mentale fatto un po’ di rabbia e di tristezza. Non c’è tempo per ragionare, non c’è tempo per stare, non c’è tempo per dare il tempo al pensiero di fare il suo dovere di pensiero.

    È una questione di cui parli con i tuoi colleghi e amici o è un tema tabù?

    Ne parlo praticamente con tutti (diventando ogni giorno un po’ meno sopportabile). Soprattutto con le persone più vicine, ma anche con gente sconosciuta, più o meno interna al mondo del lavoro culturale. In passato era un tabù parlarne con la famiglia, quando si stava ancora gestendo l’ostacolo “spiegare che lavoro faccio”. Inoltre, pesava su questa possibilità di libera condivisione quel senso del dovere e di asservimento al lavoro, radicato nel nostro paese, che impediva l’accettazione del tema “problemi al lavoro”. In generale, l’esito del confronto sul tema (amicale o famigliare), si risolve con una parata della consolazione.

    Da un lato “siamo tutti sulla stessa barca”, sussurrato mentre si beve qualcosa assieme, leggendo le mail sullo schermetto del cellulare a orari improbabili; dall’altro i “potrebbe andare peggio: potresti essere disoccupato” o il più diffuso “vabbe’, ma non lavori mica in miniera!”, che riportano tutta la questione a una retorica infelice.

    Rispetto alle aspettative e ai desideri con i quali hai intrapreso tempo fa un percorso professionale, oggi qual è il tuo bilancio? E qual è il senso del lavoro che svolgi? 

    Avendo esordito nel mondo del lavoro in uno stato di confusione rilevante, sento di poter dire che il bilancio è positivo. Il mondo culturale è –quando lo si percepisce come vocazione, come universo in cui abitare – un mondo estremamente ricco e sognante. È un terreno fertile per strutturare innovazione, per disegnare futuri, per immaginare cose che non esistono ancora. Il senso lo si sente chiaro ogni qualvolta si riesce a strutturare un progetto in maniera corretta. Al contrario, faccio fatica a far pendere la bilancia dal lato buono quando parliamo di approcci, di tempistiche, di volumi di attività, di organizzazione del lavoro.

    Quali sono le tue paure e le tue speranze per il futuro della tua vita e del tuo lavoro?

    La paura è che la giostra non si fermi più, che la quantità prenda il dominio definitivo sulla qualità; che l’approfondimento diventi reato, che lo spirito critico sia pensionato in virtù di quello pratico. Detto così, quest’ultimo appare come un’attività di seconda importanza e, invece, il senso non è questo.

    La parte più agita è il vero valore, la componente operativa porta alla possibilità di condividere il pensiero con le persone, di mettere a sistema le proprie idee, di partecipare. Il fare consente di mettersi a servizio degli altri; ma “arrivarci” è il punto. Un agire privo di visione è un agire superficiale. La speranza è che si riesca a pensare e abitare un metodo di lavoro più sperante e meno disperato, più lento, più fermo, più leggero e più profondo. La speranza è che il ritmo si spezzi e torni più agibile la ricerca di un equilibro tra vita e lavoro.

    Quali sono le strategie che intendi porre in essere per rendere la tua vita migliore e per dare maggiore senso al tuo lavoro?

    A volte il desiderio è di abbandonare tutto, di riporre i progetti in corso (oserei parlare di un atto pensato come violento, visto che si tratta concretamente di trasformare un’implosione in un’esplosione), rompere con la città grande e i suoi tempi piccoli, i suoi enormi impegni e le regole strette. Più frequentemente, però, considerato l’aspetto della sopravvivenza economica e della fame di vivere in un centro in movimento, viene più ovvio ragionare sulla necessità di avviare un pensiero di sistema, una riflessione collettiva rispetto al bisogno di un lavorare più lento, sulla necessità di strutturare un fronte comune attorno alla volontà di fare “meno e meglio”. Per chiudere: occorre cercare e aderire a gruppi di lavoro che si vanno costruendo proprio attorno a questa condivisa esigenza, a questa urgenza di riassetto.

    Note