Che cosa è il Socio-Social-Design?

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    Quello del socio design è una dimensione che risuona anche oggi, a distanza di più di trent’anni, soprattutto nella cornice che il sociologo Bruno Latour delinea dalla fine degli anni ottanta con gli articoli Mixing Humans and Nonhumans Together: The Sociology of a Door-Closer (1988), Dove sono le masse mancanti? (1993), On Interobjectivity (1996), The Berlin key or how to do words with things (2000) e che porteranno all’epilogo del 2005, con la mostra “Making things public. Atmospheres of democracy” (2005). Sviluppata assieme all’artista Peter Weibel e allestita presso lo ZKM di Karlsruhe, presenta al pubblico una selezione di progetti di artisti, designer, ma anche sociologi o scienziati, che entrano nel merito del dibattito socio-politico andando a rispondere alla domanda: “Come sarebbe una democrazia fatta attraverso gli oggetti?”.

    Pubblichiamo un estratto da Socio-Social-Design (Corraini) di Matteo Moretti

    Oggetti che in quanto mediatori, ma anche portatori e attivatori di valori, diventano la base sulla quale articolare le questioni politiche e sociali, assimilabili al concetto di res in res publica, “cose” attraverso e sulle quali discutere, confrontarsi e contribuire al dibattito politico. Al netto delle caratteristiche specifiche, i progetti presentati da Latour e Weibel condividono la forte dimensione sociale e politica: mostrano come una certa attitudine del design possa concretamente contribuire al processo democratico. Sotto questa lente, gli oggetti assumono un nuovo ruolo, non più relegati a quello di semplici output di un processo progettuale, quanto invece veri e propri dispositivi sociali in grado di dare inizio a nuovi processi di riflessione e di sviluppo all’interno delle comunità.

    Attraverso l’esplicitazione della natura politica degli oggetti (e del design), Latour mostra il ruolo visibile e invisibile, tangibile e intangibile degli artefatti, in grado di articolare quelli che chiama matters of concern, controversie sociali sulle quali non esiste una posizione netta e definita, quanto invece una continua rinegoziazione tra le parti in gioco, in cui ogni elemento può essere rimesso in discussione verso una possibile fattualizzazione, risultante dalle tensioni in atto all’interno del dibattito che articola.

    Latour individua infatti nei matters of fact [dati di fatto] tutte quelle questioni sociali, culturali e politiche ritenute condivise e consolidate. A ben guardare, soprattutto su una scala temporale molto ampia, diventa evidente come queste non siano altro che il frutto di continue e periodiche rielaborazioni e mediazioni, verso una loro apparente cristallizzazione, in realtà solamente temporanea. Consideriamo ad esempio il concetto di famiglia, come questo si sia sedimentato nei precedenti decenni fino ad assumere una condizione fattuale, consolidata, almeno fino a qualche anno fa. Un concetto che ora viene rimesso fortemente in discussione da un dibattito animato tra le posizioni dei movimenti civili per i pari diritti e opportunità e tra quelle dei movimenti cristiano/cattolici e conservatori. Diventa evidente la difficoltà di giungere a delle condizioni fattuali che durino per sempre, soprattutto su temi così centrali e complessi.

    Si consideri il tema, un matter of concern antico quanto l’uomo, la questione migratoria. Ha animato, e anima, il dibattito sin dai primi anni della costituzione dell’Unione Europea, attraverso una discussione che ha portato nel 1995 alla definizione del trattato di Schengen, che introduce concetti come l’esternalizzazione dei confini, il paese di primo ingresso, o quello di libera circolazione. Un trattato che dopo vent’anni dalla sua costituzione viene rimesso in discussione attraverso un dibattito scatenato alla luce degli ultimi fenomeni migratori, culminati nel 2015 con la cosiddetta emergenza migranti. Una migrazione protagonista di una mediatizzazione senza precedenti, caratterizzata da una fortissima strumentalizzazione politica, che ha contribuito e sta contribuendo alla ridefinizione degli equilibri democratici europei.

    La questione migratoria è infatti tra i più significativi matters of concern sui quali la società europea si stia confrontando, e sui quali non solo politici e attivisti, ma anche artisti, designer, scienziati o singoli cittadini stanno prendendo parte, contribuendo attivamente al dibattito attraverso le rispettive pratiche.

    Un processo analogo a quello che ha dato vita a Design for Migration, la piattaforma online che raccoglie e rimette a disposizione di un pubblico più ampio le pratiche di design più significative emerse finora.

    Forme di attivismo, progetti innovativi, non solo per le modalità, ma per le dinamiche che attivano, per la circolarità che incorporano così come per l’efficacia con cui stimolano riflessioni, facilitano l’apertura di dibattiti e generano nuove forme di convivenza e relazione. Progetti spesso nati in maniera spontanea, in seguito a necessità personali, o su spinta della comunità.

    C’è un’emergenza, e non è quella legata alla migrazione, ma quella legata alla sua percezione (Duffy, 2018), e servono le risposte di tutti, ognuno coi propri mezzi, anche con quelli del design, affinchè le paure connesse possano essere disinnescate o perlomeno attenuate.

    Servono esperienze che aiutino a ridefinire la percezione dei fenomeni quotidiani su scala più ampia, attraverso i fatti, che aiutino a ridurre quello scollamento, ormai quasi un baratro, tra la realtà e la sua percezione.

    Sia chiaro, le paure sono legittime, tutti ne abbiamo, attraversiamo anni di grande incertezza, per non dire pessimismo, verso il futuro. Le esperienze di cui abbiamo bisogno ricostruiscono e rafforzano il tessuto sociale, intervengono sulle relazioni, sul riavvicinamento e sulla scoperta dell’altro, facilitano l’incontro, il confronto, anche passando attraverso tensioni e conflitti, se necessario.

    Serve mettersi in gioco e ascoltarsi, non è più possibile pensare di essere nel giusto, ignorando o sminuendo le necessità e le paure degli altri, che in questo caso non sono i migranti, ma le persone con cui siamo cresciuti, con cui abbiamo condiviso spazi, e vita, e che magari la pensano diversamente da noi.

    Note