Qual è il ruolo dei dati nella nostra società? Quale vorremmo che fosse? Quale potrebbe essere? Una peculiare e tragica sincronia mi permette di fare un’ipotesi importante, su cui attivarci tutti, come una civiltà.
Mi è tornato il cancro, proprio durante l’ascesa del COVID19.
Chi mi conosce sa quanto il collegamento tra dati e malattia sia importante per la mia vita.
Visualizziamo insieme cosa vuol dire, durante questa sincronia.
A un congelamento iniziale (hai il cancro, devi operarti, ci saranno delle conseguenze) se ne sovrappone un altro, potentissimo: il virus.
Di punto in bianco la mia vita viene immediatamente invasa di dati e grafici.
Sia quelli della neoplasia, sia quelli della pandemia. Con la differenza che quelli della seconda soverchiano i primi.
Sono dappertutto. Numero di infetti, morti, guariti. Curve esponenziali, logistiche, attenuate. Ecosistemi di pallini che da bianchi si contagiano diventando rossi, per poi, si spera, tornare bianchi, o almeno verdi. Sui giornali, sui post dei social network, nelle televisioni in ogni angolo delle case, del bar, della hall dell’ospedale, nella camera del reparto.
Sono dati violentissimi, ovviamente anche utilizzati anche strumentalmente per dare forza a questa o quell’altra filosofia di intervento sulla pandemia.
I dati e le loro visualizzazioni, ora, sono il terreno del conflitto.
Un conflitto che è altrimenti invisibile: come si può vedere in altro modo il contagio?
Questo, tra l’altro, è un segno dei tempi, che riguarda tutti i problemi complessi del nostro ecosistema, di cui inizieremo ad avere esperienza sistematicamente da qui in poi. Il cambiamento climatico, le migrazioni, la salute globale, la povertà, l’accesso alle opportunità, la pandemia, sono tutte questioni complesse, ubique, globali. Come faccio a “vederle”? Dati, dati, dati, e visualizzazioni.
Dappertutto.
Ho fatto un piccolo esperimento, tenendo conto per una settimana di tutte le visualizzazioni di dati sul COVID19 che sono capitate nel mio campo visivo: sul computer, il cellulare, i monitor, i giornali, i siti web, al bagno, ambientali, da salotto, in cucina, di mattina, sera, notte.
Dovunque.
Sono state 1796. Supponendo un sonno di 8 ore: in 16 ore per 7 giorni, sono una ogni circa 4 minuti. È una invasione completa della mia ecologia del media, della mia infosfera. Davanti a cui scompare tutto. Anche il mio cancro.
Qual è l’effetto di tutte queste rappresentazioni di dati nella nostra ecologia della comunicazione? Nella nostra società? Tra i principali e più potenti è quello della spettacolarizzazione. Letteralmente: il rendere spettatore.
L’attuale modello di governo dei dati è estrattivo.
Questo modello prevede che i dati e le informazioni vengano estratti dalle persone e dal loro ambiente, elaborati e rappresentati in qualche modo utile per prendere delle decisioni che corrispondano ad una qualche forma di intervento. A volte, come in questi giorni, l’intervento stesso consiste nel somministrare visualizzazioni di dati, al fine di ottenere qualche scopo (compliance, awareness, conoscenza…).
Il modello estrattivo corrisponde a un preciso modello epistemologico, che non è messo in discussione nemmeno da leggi avanzate come il GDPR, che, anzi, spiega come devono essere fatti e gestiti i “pozzi di petrolio”.
A questo modello corrisponde il fenomeno della spettacolarizzazione del dato. Il dato, una volta estratto, esce dalla sensibilità, conoscenza ed agency dei data-subjects. Riappare eventualmente solo all’altro estremo del condotto, sotto forma di prodotto da fruire. La persona può solo essere spettatore: cosa posso fare d’altro se non subire i numeri e le loro rappresentazioni? Cosa posso fare d’altro se non atterrirmi, e poi – speriamo – gioire del loro cambiamento di colore: bianco, rosso, bianco di nuovo?
In quanto spettatore, vengo trattato come un bambino, a cui infliggere la storia morale del dato, per tentare di ottenere compliance.
Quali alternative ci sono? Diverse. Proprio di queste ci occuperemo nell’evoluzione del nostro centro di ricerca, HER She Loves Data.
Analizziamone una che potremmo chiamare “esistenziale”, o “ecosistemica”.
In quest’altro modello, i dati non sono “petrolio” da estrarre dalle persone e dall’ambiente. Sono, invece, elementi esistenziali. Ho braccia, gambe, personalità e dati: sono un mio elemento costituente, proprio come la mia fisiologia, psicologia e le nostre relazioni. Sono un elemento aggiuntivo della nostra esistenza, e tramite di essi posso esprimermi, stabilire relazioni, comunicare, esistere.
In quest’altro modello non c’è nessun processo estrattivo. Al contrario, il processi sono completamente generativi: i dati e la computazione si configurano come opportunità di presenza, espressione, interconnessione e partecipazione tra i soggetti, e con l’ecosistema stesso.
Naturalmente l’ecosistema non è abbandonato a sé stesso: uno o più stakeholder ecosistemici investono, regolano e si prendono cura dei soggetti, delle loro culture, istruzione, psicologia e accesso alle opportunità.
Al contrario del modello precedente, non c’è nessun paternalismo: le persone sono considerate come partner, e la scienza si svolge nel bel mezzo della società, con cui collabora attivamente.
Come si trasformerebbe, ad esempio, l’invasione spettacolarizzante dei dati del COVID19 in questo caso?
Sicuramente avrebbe altre ritualità, scansioni spazio-temporali e opportunità per l’uso dei dati per relazionarsi: connettori ecosistemici. In quanto esistente, genero dati. I miei dati sono la mia opportunità per confrontarmi col resto dell’ecosistema, per trovare similitudini e differenze, e, di conseguenza, decidere, essere presente, agire, fermarsi.
Quella che nell’attuale modello è la tragedia diventa la maggiore opportunità.
La coesistenza dell’individuo e dell’ecosistema: modalità di interazione e comunicazione differenti che non necessariamente hanno una sintesi. Le miriadi di microstorie sono nella società, ma la società (e la civiltà, e l’ecosistema, e…) non è detto che riesca a contenerle e a rappresentarle.
Sono modalità, dimensioni differenti, e questa loro differenza è il loro valore. È questa la tragedia, e in quanto tale non ha soluzione: è irriducibile, insemplificabile.
Proprio per questa sua natura irriducibile, la dimensione della tragedia si presta molto ad essere un portale per accedere alla complessità.
Nel 2012, quando ho avuto il mio primo cancro, proprio i dati sono stati l’opportunità per avviare uno spostamento: la cura può avvenire solo se la malattia si posiziona in mezzo alla società con tutti i suoi aspetti esistenziali, compresi i dati.
Ora, nel 2020, questa sincronia tra cancro e COVID19, e i dati individuali e planetari che li riguardano, ci possono fare dono di un altro grande insegnamento: la consapevolezza delle logiche dell’ecosistema e della complessità, e la dimensione della tragedia che le accompagna.
Dopo la tragedia, infatti, viene l’agnizione: il riconoscimento, la trasformazione.
Nella sequenza tra tragedia e agnizione si sposta tutto: dal governare e dall’esercitare potere, all’abitare, al riconoscere e al co-esistere.
Come si fa? Serve cambiare dimensione e strategia. E queste devono dialogare con la scienza e la tecnologia, per portare in essere i nuovi riti dell’abitare.
Questa tragedia è anche la nostra opportunità: è dove dobbiamo cercare la capacità di complessità accessibile che è propria dell’amicizia e della solidarietà, per come costruiremo i nostri nuovi rituali dell’abitare il mondo, capaci di interconnettere esistenzialmente l’essere umano con il resto dell’ecosistema.
I dati e la computazione sono al centro di questa dinamica, nel senso che il dato (il “mio” dato, in particolare) va trattato come una mia componente esistenziale, non come una qualche appendice tecnica-amministrativa. Questo sono diventati i dati per l’essere umano: ci consentono di rappresentarci, relazionarci, interagire nel mondo.
Se c’è una cosa che abbiamo imparato da covid19 è che dati e computazione sono una questione di vita, di esistenza e di sopravvivenza: di poter esistere nel mondo. E di come è possibile farlo: carne, sangue, piscio, dati e computazione. Il discorso sulla privacy e sul controllo è troppo piccolo: tutta questa roba, lì, non c’entra.