Non si chiude certo qui la riflessione sui festival di teatro. Anche se la stagione estiva ha già fatto il giro di boa agostano: i festival di giugno e luglio salutano, con il loro bagaglio di recensioni e con le solite polemicucce per il solito scandaletto del nudino visto da qualche parte.
Le manifestazioni continuano, fino all’autunno, marciano a ritmo serrato come giostre inarrestabili. Tutti, chi più chi meno, alla ricerca di un senso, di una motivazione profonda che possa dar valore alle kermesse festivaliere.
Intanto Renato Quaglia, uno dei grandi manager dello spettacolo emersi negli ultimi venti anni in Italia, pubblica un libro, dal titolo emblematico di “Bravi, ma basta!” (edizioni Puntoorg), in cui attacca: «la promessa alla città, esplicita o metaforica che fosse stata – dice a Mario Brandolin che lo intervista sul “Messaggero Veneto” del 5 agosto – formulata da enti, istituzioni, produttori culturali per dare avvio al proprio progetto, grazie al quale la città sarebbe migliorata, quella promessa si è smarrita, il lavoro culturale si è aziendalizzato, reso autosufficiente, sempre meno capace di collaborare, isolato, autoreferenziale, concentrato sulla propria sopravvivenza».
Parole pesanti, eppure calibrate, che inquadrano piuttosto bene la situazione.
Insomma, le città peggiorano ma i Festival sopravvivono. L’impressione che se ne riceve è quella di un tirare a campare, rinnovando stancamente gli slogan o le motivazioni iniziali, tra guizzi, trovate estemporanee e ostinati tentativi di radicamento. Serpeggia, però, una diffusa domanda, che mal si cela dietro i risultati – anche confortanti – in termini di presenze e proposte.
La domanda resta aperta, e si fa ogni momento più pressante: “Che senso ha?”.
Se è vero, come è vero, che la “promessa” cui fa riferimento Renato Quaglia è stata disattesa, viene da chiedersi, ulteriormente, se il “tradimento” perpetrato sia tutto a carico delle amministrazioni, dei politici, del pubblico distratto, o se forse anche gli organizzatori, i teatranti insomma, non abbiano tirato i remi in barca, non si siano accontentati, non abbiano dato per scontato che quel “radicamento” avrebbe dato frutti.
Ho cercato, allora, di girare la domanda ad alcuni operatori. Impossibile, è ovvio, raggiungerli tutti. Ma qualcosa sta emergendo.
Edoardo Donatini è direttore del festival Contemporanea di Prato, da anni un appuntamento imperdibile per capire le tendenze e le tensioni in atto sulla scena italiana e internazionale. «Il senso – ci dice – è la questione che ci stiamo ponendo tutti. Anche per questo a Prato, a fine settembre, inizieremo un seminario studio, una riflessione sulla funzione culturale dei festival che, storicamente, ne ha accompagnato lo sviluppo. Il Festival, ogni festival, per sua natura è sempre “in bilico”, in trasformazione, soprattutto per quella parte che guarda al futuro, alle intuizioni degli artisti: sono scommesse, insomma, e non conferme, quelle che si devono cercare. Ma i Festival sono territorio di “scorribande”: oggi tutto è definito festival. E la domanda che ci dobbiamo porre, allora, è se la definizione deve rimanere tale, se basta come titolo, o se non dobbiamo ripensare il senso. Forse il senso venuto meno, mentre la funzione si è espansa. Per quel che riguarda il teatro, poi, dovremmo mettere in discussione l’intero sistema. Eppure quell’intuizione iniziale profonda, quel cercare qualcosa di elevato dal punto di vista culturale e artistico, per me resta valida. Non in contrapposizione ma con un appoggio popolare vasto. Si tratta di pensare a una Festa attiva, di alto livello qualitativo: a un avamposto del sistema, a un luogo esposto nella relazione tra pubblico e nuovo pensiero Un festival deve mantenere la capacità di produrre pensiero alto. La comunità non è fatta da persone insensibili o stupide, ma da gente pronta ad ascoltare. Il problema allora, è riallacciare il dialogo, il pensare insieme, la curiosità di vedere qualcosa di nuovo. Invece troppo spesso si è proceduto in una direzione per cui anche i Festival si sono trasformati in luogo del consenso e, sempre più, di intrattenimento. Penso ai Festival “curatoriali”, che sono indiscutibili se fatti bene, ma rischiano di essere “oggetti” che puoi trasportare ovunque. Invece i Festival stanno nella comunità: non si tratta allora di abbassare il livello ma far crescere la comunità»
Chi ha scelto di dedicarsi radicalmente al confronto con la propria comunità di riferimento è il piccolo e coraggioso festival Nessuno Resti Fuori di Matera. Lontano dai riflettori e dagli scintillanti programmi della futura Capitale Europea della Cultura, il Festival, creato da Nadia Casamassima e Andrea Santantonio con il Gruppo IAC è giunto al terzo anno di vita: e ogni edizione ha cambiato quartiere di riferimento, puntando sempre alle periferie della città lucana, ritrovando e rinnovando climi, atmosfere, persone, problemi. Agendo al confine tra memoria e innovazione, aprendosi alla pratica della accoglienza, coinvolgendo rifugiati e richiedenti asilo, il Festival ha davvero mostrato grande sensibilità e si pone come punto di riferimento nella ricerca di quel “senso” da tutti invocato.
Per Andrea Santantonio: «i festival hanno un senso nella costruzione o ricostruzione di spazi collettivi. Da una parte per la connessione con l’esterno, per continuare ad affermare l’idea di un’umanità unita nel superamento delle barriere di qualsiasi genere, che siano culturali, religiose, sociali, economiche. Dall’altra, per connettere le solitudini all’interno di una stessa comunità, della stessa città, per rinsaldare alleanze tra le persone, tra gli artisti, le scuole, le amministrazioni locali, per creare uno spazio di crescita umana prima di tutto e poi anche formativa, artistica e professionale. Abbiamo necessità di istigare alla partecipazione, che le persone si prendano cura in vario modo di quello che viene costruito, che si riconoscano parte e che desiderino far parte».
Per quel che riguarda il futuro, Santantonio e Casamassima non si fanno prendere dal panico o dalla frenesia dell’appuntamento europeo del 2019: «Nessuno Resti Fuori nasce prima della elezione di Matera a Capitale Europea della Cultura e guarda oltre, proprio perché il suo obiettivo non è quello di celebrare un anno eccezionale, ma di contribuire veramente ad un processo di cambiamento del territorio. Il nostro obiettivo è generare una partecipazione vera agli eventi culturali e artistici, perché crediamo che siano, in questo momento, l’unica pratica per combattere il ritorno di aberrazioni come le disuguaglianze, i razzismi e la povertà. Quando e se giungeremo a un compimento, eventualmente ripartiremo con un altro progetto, diverso, con altri obiettivi. Un festival muore quando diventa un’autocelebrazione, quando perde il suo impatto politico, artistico e culturale».
Sembra in sintonia Francesca D’Ippolito, giovane e instancabile organizzatrice, che opera soprattutto in Puglia e che ha abbracciato la causa del Festival I Teatri della Cupa di Novoli. Per Francesca non bisogna perdere di vista la prospettiva nazionale: «i festival oggi più che mai svolgono una funzione essenziale per il benessere del sistema dello spettacolo dal vivo nazionale, ospitando gli artisti della scena contemporanea e dando spazio all’innovazione dei linguaggi. In un sistema in cui la circuitazione è sempre più ridotta, così come il tempo dedicato alla creazione, molti festival sono diventati uno spazio vocato alla ricerca e alla presentazione di artisti e formazioni che fanno fatica a entrare nelle stagioni dei principali teatri italiani». E a Novoli che succede?
«I teatri della Cupa è nato quattro anni fa in questo piccolo paese, dove dal 2015 i gruppi Factory Compagnia Transadriatica e Principio Attivo Teatro gestiscono una residenza artistica presso il Teatro Comunale. Negli anni a seguire sono stati coinvolti altri Comuni della Valle della Cupa: e l’edizione 2018 si svolge infatti anche a Campi Salentina (città natale di Carmelo Bene), a Trepuzzi e in luoghi suggestivi come l’Abbazia di Santa Maria di Cerrate. Sentiamo la necessità di fare un festival in piccoli paesi del sud per diverse ragioni: in primis poter offrire uno spazio anche alla creatività pugliese che, dopo la fine della bella esperienza del Festival Startup e di Festambiente-Teatro civile Festival, ha perso luoghi dedicati al contemporaneo. Poi di creare spazi reali di confronto attraverso le “assemblee della parola”, momenti di scambio e la possibilità che gli artisti si fermino più giorni per poter reciprocamente assistere agli spettacoli delle altre realtà ospitate. Parallelamente continuiamo a cercare un dialogo con la comunità territoriale, cui dedichiamo durante l’anno il lavoro quotidiano, la programmazione di due stagioni teatrali (prosa e teatro per le giovani generazioni) e i momenti di formazione, interrogandoci continuamente sul rapporto con questa comunità. Pensiamo di coinvolgere maggiormente la comunità territoriale, attivando processi in grado di far sentire partecipi e responsabili i cittadini stessi rispetto ai servizi culturali che vengono loro offerti. Abbiamo chiamato questa quarta edizione R-esistenze imperfette, perché ammettiamo con profonda sincerità che oggi più che mai fare un festival a Sud è un atto politico e poetico di resistenza».
Non mancano, infatti, i problemi, primo tra tutti il ritardo dei finanziamenti da parte degli Enti pubblici locali, ma si avverte anche, come sottolinea Francesca D’Ippolito, «la disattenzione del Ministero Beni e Attività Culturali, che non riconosce per la seconda volta un’impresa di produzione come Factory e in generale di una società che sempre meno tutela i lavoratori dello spettacolo e il valore della cultura. Una maggiore attenzione da parte delle Istituzioni locali, regionali e nazionali potrebbe contrastare la precarietà del nostro mestiere e garantire una progettazione contrassegnata da un respiro più ampio».
Già, la precarietà. Quanti programmi di Festival sono fatti all’ultimo minuto, all’ultimo secondo, per aspettare disperatamente la conferma o l’arrivo dei finanziamenti? Che programmazioni sul futuro può garantire un festival italiano? Quanti sono i programmatori che sanno già cosa produrranno o coprodurranno nel 2020? Quattro? Cinque?
Sembra un ossimoro: ad accostare teatro e futuro, si va poco lontano. C’è una difficolta congenita: il teatro è arte dell’assoluto presente, del famoso e retorico “qui e ora”. Semmai guarda al passato, con struggimento o meno. E nei confronti del futuro non nasconde un certo compito imbarazzo. Il dato evidente, che salta agli occhi, per i nostri Festival, è che il futuro non è mai veramente garantito. Non si sa mai cosa sarà l’anno prossimo. Un festival può chiudere dalla sera alla mattina, con un semplice tratto di penna dell’Assessore capriccioso. È possibile? È credibile?
Oltra alla “estemporaneità” della politica, non si può negare che il problema sentito da tutti sia quello dei sostegni economici. I capitali privati latitano, quelli pubblici tardano.
Per quanto si stia, faticosamente, stabilendo una triennalità di finanziamenti, e una tempistica più certa e solerte, appare chiaro che i veri protagonisti del teatro, quelli cioè che ci mettono la faccia, che vanno in scena sera dopo sera, vivono nella più totale precarietà. Tra ritardi, dilazioni, mancati pagamenti, davvero “del doman non v’è certezza” è diventata l’unica certezza di tanti attori e attrici: la maggior parte ancorché non tutti, non riescono a programmare oltre la mezza giornata. E dunque troppo spesso, come dice Francesca D’Ippolito, i Festival diventano lo spazio aperto, il canale d’accesso, e dunque l’unica strada percorribile per un giovane (o meno giovane) artista. A che dobbiamo tanto sbandamento? L’insicurezza e la precarietà sono parte del gioco, dai Comici dell’Arte in poi, la Fame ha sempre accompagnato la Fama. Però qui si esagera.
Ma non solo: troppo spesso i Festival sono aziende a “conduzione familiare”, legati alle persone, alla buona volontà del singolo o del gruppo, e non all’effettivo radicamento dell’istituzione-festival. E troppo spesso, anche i festival più blasonati, nel bene e nel male, risentono di questa “personalizzazione”: direzioni artistiche ultra-trentennali, alla fin fine, non fanno bene a nessuno. Basteranno queste domande diffuse a cambiare le cose? Certo che no.
Quel che appare però pregnante è il rinnovato impegno, la rinforzata voglia di restituire forza, identità, senso, a quelle cose strane chiamate Festival. E magari, attraverso i festival anche alle città, ai territori. Alla gente. Il teatro è pronto a rimboccarsi le maniche, a ripartire, se serve, da zero. Vuole provarci. E non c’è più tempo da perdere. Come scriveva Bernard Dort nel 1966: «Il momento della scelta non potrà essere ulteriormente differito: una scelta tra sicurezza relativa e l’insicurezza, tra la consacrazione e la contestazione. È venuto il tempo in cui, per fedeltà a se stessi, i nostri “nuovi teatri” decidano di mettere se stessi in discussione». Basta sostituire “nuovi teatri” con festival, e il senso diventa chiaro.
Immagine di copertina: Festival Nessuno Resti Fuori, Laboratorio Corp Citoyen, ph. Luca Centola