Per cominciare, siamo corpi umani che incontrano il corpo della città. Lo abbiamo sempre saputo, lo abbiamo verificato con particolare cogenza in questi due anni nei quali la pandemia ci ha costretto, separato, isolato (Pasqui 2022).
Ogni corpo, se assumiamo una prospettiva spinoziana, è una trama, un insieme estremamente complesso di corpi che si compongono secondo relazioni plurime (Deleuze 2016). Il corpo umano è organizzato secondo relazioni variabili e mutevoli, attraversato da miriadi di altri corpi. I batteri che abitano il nostro corpo, che con esso si compongono, pesano quanto il nostro cervello. Il virus che ci ha cambiato la vita è solo un altro corpo che scompone le relazioni essenziali del nostro. Un cattivo incontro, insomma.
Ma anche la città è un insieme di corpi: edifici, spazi aperti, strade e piazze, infrastrutture, servizi tecnologici, piante, animali, aria pulita e polveri sottili, reti e informazioni. Corpi che si compongono variamente tra loro e con i nostri, corpi più o meno malleabili, più o meno porosi: ancora una volta, buoni incontri e cattivi incontri.
Pubblichiamo un estratto da Città viva, il terzo volume di tre della serie Futuri urbani, un progetto curato da Criticity, edito da Contrabbandiera e promosso da ISIA Firenze.
Ed è così che abitiamo lo spazio urbano: incontrando altri corpi – che talora fanno resistenza, talora offrono prese – componendo il nostro corpo nel suo ingombro, nella sua strozzatura, nella sua pluralità, con i corpi urbani (Pasqui 2008). Se l’incontro sarà buono, la nostra potenza sarà accresciuta; se sarà cattivo, essa sarà diminuita.
Come pensare dunque il progetto dello spazio urbano, e in particolare degli spazi di condivisione, dentro una prospettiva di questa natura? Come immaginare in particolare l’agire del progetto se intendiamo innanzitutto rendere possibili i buoni incontri? Quanto possiamo fare per rendere più facili i buoni incontri, fermo restando che non tutto dipende da noi e che l’incontro cattivo, l’inciampo, la violenza, il virus, la catastrofe, sono sempre possibili e in generale imprevedibili?
Ciò che propongo di pensare, in questo breve contributo, è che sia necessario innanzitutto partire dai corpi, e immaginare un’azione progettuale che non ostruisca, non inibisca le possibilità di buoni incontri, che sia in grado di aprire alle relazioni con gli altri esseri viventi, umani e non umani, e con i corpi materiali della città, secondo una prospettiva non tecnocratica.
Corpi
Siamo corpi che interagiscono con altri corpi. Ciò è vero anche nell’incontro, nelle pratiche di interazione sociale che caratterizzano lo stare in pubblico. Le relazioni in pubblico, per dirla con Erving Goffmann, sono parte integrante della vita urbana, di quella «vita quotidiana come rappresentazione» che è il modo in cui abitiamo i luoghi e le relazioni sociali e spaziali, i «rituali dell’interazione» che li connotano e li costituiscono (Goffman 1959, 1963, 1967).
Si tratta dunque innanzitutto di scoprire come accade il nostro stare nello spazio urbano, in pubblico, di fronte ad altre e ad altri. Dobbiamo descrivere e forse anche immaginare i nostri modi ordinari e quotidiani di incontrarci e convivere nello spazio urbano. Per farlo, scelgo la prospettiva della meditazione sul corpo, perché solo pensandoci a partire dal nostro corpo possiamo comprendere l’interazione continua tra noi, gli altri e le cose.
Due sono state le fonti di ispirazione per questa riflessione: la rilettura del volume di Jacques Derrida Toccare. Jean-Luc Nancy (2005) e la meditazione intorno al volume di Cristina Bianchetti Corpi tra spazio e progetto (2020). Il testo di Derrida, lungo, spesso difficile e barocco, rappresenta però, in un corpo a corpo con l’intero lavoro di Nancy, una straordinaria e potente meditazione sul tatto e sul toccare e sul toccarsi nella tradizione occidentale, da Aristotele alla fenomenologia e oltre. Derrida, rileggendo l’intera opera di Nancy, sottolinea come il tatto costituisca un luogo straordinario per pensare la relazione tra corpo e mondo, ma anche per mettere alla prova il privilegio della vista e dello sguardo teoretico nella tradizione occidentale.
Il lavoro di Bianchetti, invece, mi è servito a collocare una riflessione sul tatto e sui corpi ingaggiati nello spazio urbano con il pensiero critico del progetto, sospettando di qualsiasi riduzione della complessità dei nessi tra cose e discorsi.
Nella discussione architettonica e urbanistica sul rapporto tra pandemia e spazio urbano non sono mancati riferimenti alla questione del corpo. Tuttavia, come Bianchetti mostra efficacemente, dobbiamo dotarci di un più ricco pensiero del corpo e del suo rapporto con lo spazio urbano, un pensiero che sia in grado di cogliere le flessioni e la complessità della dimensione del toccare. Solo questo pensiero ci può accompagnare efficacemente nel pensare la pandemia come una forma di vita che ci costringe e insieme ci svincola da forme precostituite del progetto.
Come scrive Bianchetti:
Il discorso urbanistico, il progetto urbanistico, possono riformularsi a partire dall’attenzione al corpo? Si può sostituire l’attenzione al luogo con quella al luogo del corpo? Ed è vantaggioso che lo si faccia? Quali implicazioni si darebbero sulla regolazione del territorio, sui principali temi urbani e il loro trattamento? Ho cercato di individuare i modi con i quali già si è dato in forme dirette o indirette un rapporto tra corpo, progetto e spazio. Modi in cui già il corpo è stato quel tramite delicatissimo tra il progetto e la trasformazione dello spazio. Modi che rimandano al trattamento amministrativo, alla riduzione a codici, a processi di spoliazione, a quadri normativi, alle azioni che “toccano” il corpo con l’incorporeo del senso, e, congiuntamente, con il corporeo del suolo e dello spazio, delle sue morfologie, delle sue dotazioni fisiche, infrastrutturali, delle sue economie. (Bianchetti 2020, p. 108)
I corpi, insomma, accadono sempre nelle trame che li assemblano ad altri, nella ventura e sventura degli incontri, ma anche nelle regole e nelle istituzioni che ne definiscono le condizioni di movimento e stasi, le possibilità e i limiti. Il progetto della città, nelle flessioni dell’urbanistica e dell’architettura, è in prima istanza un insieme di dispositivi che agiscono sui corpi, sulle loro potenzialità di incontro, che possono dare forza o mutilare, aprire o chiudere possibilità.
Ogni progetto urbano rappresenta una forma di razionalizzazione e organizzazione dell’esperienza; tuttavia, tanto più tale progetto assume il corpo come ambito da controllare, governare, “sanificare”, tanto più esso limita le possibili aperture all’evento, all’inaudito, alla sorpresa, che rappresentano quanto di più straordinario lo spazio urbano possa garantire.
Sinestesie: toccare (la città)
Come accade questo incontro carnale tra il corpo e la città? Esso, in prima istanza, è un incontro sensoriale e, come la pandemia ci ha insegnato (Pasqui 2022), è il tatto che innanzitutto disegna la nostra relazione con lo spazio.
Non è il caso di sottolineare come la tradizione occidentale si sia costituita a partire da un privilegio della vista, sensibile e soprasensibile, come senso primo, della “teoria” come visione. Basterebbe richiamare l’inizio della Metafisica, laddove Aristotele scrive che gli uomini «amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e più di tutte amano la sensazione della vista» (Met., 980a). La vista è da sempre considerata il senso principe, strumento e insieme metafora della conoscenza che pone a distanza, che “tocca” con lo sguardo senza sfioramenti. Eppure, come lo stesso Aristotele non manca di riconoscere, il tatto ha una sua natura primigenia, perché è il senso con il quale ci facciamo largo in uno spazio circostante, costruiamo una mappa dei possibili percorsi, delle prese e delle resistenze. Ma anche perché il tatto mette in gioco una relazione biunivoca tra corpo e mondo: toccare è essere toccato. Ciò accade sia in forma diretta, sulla pelle, sia in forma mediata, attraverso un corpo che intermedia. Che accade dunque quando facciamo pratica della città? Quale senso, quali sensi mettiamo al lavoro? In quale rapporto di reciprocità, in quale congiunzione/disgiunzione tra il nostro corpo, il “corpo proprio” della tradizione fenomenologica, e la “carne del mondo”? Come “tocchiamo” la città e come ci facciamo attraversare da essa?
Una prima osservazione è che il tatto, nella nostra esperienza del mondo, non funziona mai da solo. Esso accompagna altri sensi, ma più ancora l’orientamento tattile nel mondo è intrecciato con l’orientamento visivo e auditivo. Come ho osservato in passato (Pasqui 2008), la nostra esperienza dello spazio urbano è sempre radicalmente sinestetica. Persino lo sguardo, che tiene a distanza nel processo continuo della messa a fuoco, della costruzione e ricostruzione del primo piano e dello sfondo, accade in un complesso di sensazioni che accompagnano la trama fine dell’esperienza. Nei giorni del primo lockdown, anche lo sguardo dalla mia finestra, dal mio balcone, verso la città e la strada, nella direzione di un cavalcavia percorso da auto sparute, su cui si stagliano i vecchi gasometri, era fatto di silenzio, del suono lancinante dell’autoambulanza, dell’odore delle fioriture nel piccolo giardino sotto casa. Così come la tratta sul filobus 90 a Milano – che per lunghi anni mi ha portato al Politecnico dove lavoro, lungo la circonvallazione – è stata, e resterà, esperienza sinestetica per eccellenza: suoni, odori, contatti, sfregamenti, colpi, luci e ombre, prospettive e punti di vista (Briata, Bricocoli, Bovo 2018). Mi sembra importante assumere la natura sinestetica dell’esperienza per immaginare come anche la condizione del distanziamento ci consegna non a un’anestesia, ma a nuove sinestesie, a nuove pratiche dello spazio che si definiranno a partire da diverse intramature tra sensi e cose, tra corpi e protesi, a nuovi “grafemi corporei”.
Il richiamo alla natura complessa dell’esperienza corporale allude al lavoro di Carlo Sini sui grafemi corporei (Sini 2012). Sini sottolinea con forza la natura originaria delle “percezioni amodali”, primarie rispetto alla distinzione tra i sensi, che è sempre seconda e “analitica”, dunque figlia del linguaggio (Sini 2012, p. 81 e sgg.). Anche il nostro incontro con l’urbano presenta questi tratti amodali e sinestetici, che naturalmente, quando tradotti nella parola, sono necessariamente ricondotti alle distinzioni analitiche tra i sensi. Ripensare l’incontro sensoriale con la città significa dunque immaginare forme inedite di questa trama amodale e sinestetica, ma anche nuove parole per dirla.
Un altro aspetto. Come ho già accennato, abitiamo la città nell’ingombro e nella strozzatura dei nostri corpi. Ingombro, perché ci portiamo dietro il corpo senza potercene mai liberare. Strozzatura, perché il nostro corpo definisce possibilità e limiti dell’incontro, a partire dalla sua “storia naturale”, che è poi la vita di ogni corpo, i suoi incontri, le sue mutazioni. Il nostro corpo è sempre una prospettiva, un punto di vista. L’incontro con la città è dunque e in prima istanza un commercio carnale. Camminare e guardare il muro che delimita lo scalo ferroviario, appena sceso in strada, e intravedere sullo sfondo i grattacieli nei pressi della stazione Garibaldi. Salire e scendere dal tram. Sfiorare le persone sul marciapiede. Sentire l’odore dei gas di scarico, che irritano la gola. Ascoltare il canto degli uccelli, la mattina presto, in piazza Leonardo da Vinci. L’incontro con la città, lo ha insegnato in molti modi la poesia, prima e dopo Baudelaire, è sempre un incontro di un corpo con i corpi altrui, e con il “corpo urbano” nel suo insieme. Consistenze, materiali, forme, ingombri, prese e resistenze. Tutto questo potrà mutare intensità, ma non natura. Consegneremo sempre e comunque il nostro corpo al mondo, per esempio nella forma dell’urbano, della città di pietra e della città degli uomini, perché il corpo non è altro che una piega del mondo, mondo che continuamente si ripiega e di dispiega.
Lo spazio urbano e le protesi
In questi mesi, quando usciamo di casa, indossiamo una mascherina che ci copre la bocca e il naso. Cos’è questa mascherina? Dispositivo di autoimmunizzazione, essa è in prima istanza un filtro. Una pellicola che ci separa e insieme ci unisce al corpo del mondo, al corpo urbano, per esempio mettendo a fuoco – e portando in primo piano – l’atto del respirare, normalmente fungente sullo sfondo della nostra coscienza attiva. Tuttavia, pensandoci bene, già da molto, già da sempre, il nostro corpo è un corpo protetto da protesi, da filtri. Pelle di animale o tunica. Armatura. Cappello, sciarpa, vestiti, scarpe. Guanti. Ma anche occhiali, apparecchi per l’udito, ora persino lo smartphone che, inquadrando un monumento su cui è collocato un microchip, contorna l’opera e apre un file che la presenta, filtro magico tra l’occhio e la cosa. Internet of things. Siamo già da sempre in un rapporto mediato con il corpo urbano, con il corpo del mondo: mediato dalle protesi, che da sempre ci connotano come animali tecnologici, che ci proteggono e ci isolano, almeno parzialmente, dai pericoli dell’incontro con altri corpi. Un incontro, una compenetrazione, come spiega Spinoza, e con lui Deleuze, che può essere buona o cattiva (Deleuze 2007). Respiriamo gas velenosi? Un cattivo incontro. Camminiamo in una radura di un grande parco metropolitano, magari a piedi nudi? Un buon incontro.
La centralità delle protesi è strettamente connessa alla natura dell’urbano come sistema socio-tecnico, come trama di linguaggi, tecnologie, corpi e discorsi (Amin, Thrift 2016). Lo abbiamo visto nei tempi del distanziamento sociale dovuto alla pandemia. Quali e quante nuove protesi dovremo indossare? Come si medierà la relazione con i corpi e con le cose? Lavorare, anche progettualmente, sulle protesi per restare in grado di “sentire”; cartografare i nuovi incontri, buoni o cattivi che siano; mappare le condizioni di possibilità e i limiti della prossimità: ecco quel che certo si farà, si dovrà fare.
Siamo dunque a chiederci: come stare a distanza? Qual è la “buona distanza”? Si tratta di un tema connaturato all’urbano, che è da sempre, fin dalla sua origine, luogo della mescolanza e del meticciato. Luogo “bastardo”, nel quale, tuttavia, forme e pratiche del distanziamento e del confinamento istituiscono la trama stessa dello spazio. Dividendo ad esempio la città dei ricchi da quella dei poveri; la città dello scambio da quella della produzione; la città del consumo da quella del riposo; la città del movimento da quella della stasi. Ma che distanziamento è quello senza contatto? Che contatto è quello senza contagio? Nancy, nel suo bel libro La città lontana, scriveva che se la città «non capta se stessa sotto un’identità, si lascia toccare da percorsi, tracce, abbozzi», in lei «ci si sfiora, si passa vicinissimo, ci si tocca e ci si allontana: una sola ed unica movenza». Tutto ciò che appare nella città «lo si tocca senza toccare, si è toccati». Se c’è contatto di contagio, «è il contagio della lontananza, la comunicazione disseminata» (Nancy 2002, pp. 53-59). Distanziamento e contatto, contatto e contagio vanno dunque pensati insieme, nelle loro reciproche relazioni. Il nostro mondo urbano dovrà dunque ri-attivare nuove danze del fare distanza, nuovi avvicinamenti e allontanamenti. Siamo chiamati a un’inedita attenzione al corpo nella sua distanza costitutiva.
Senza mai dimenticare che la città è anche il luogo, per molte e per molti, della disuguaglianza, delle ingiustizie, delle difficoltà di accesso allo spazio pubblico, ai servizi, alla stessa bellezza.
Sospettare della smart city
Attenzione, però. Questa osservazione della natura radicalmente tecnologica dei nostri corpi, questo riconoscimento delle protesi che da sempre l’essere umano ha utilizzato per incontrare il mondo, non ha nulla a che vedere con la logica della smart city, con l’idea di una città nella quale la salute, il benessere, le relazioni sociali, dipendono in forma esclusiva da tecnologie che sono prodotte nella logica del mercato.
Non si tratta di demonizzare le tecnologie smart. Si tratta di comprendere le condizioni d’uso e le forme di potere intramate in queste tecnologie. Internet delle cose che connette in rete qualsiasi oggetto dotato di chip (dai pali della luce al frigorifero, dai monumenti ai mezzi di trasporto pubblici e privati); energie rinnovabili che permettono di ridurre drasticamente l’inquinamento atmosferico; città cablate fatte di materiali trasparenti e puliti, che quasi galleggiano in aria, connesse attraverso invisibili fili di informazione e di energia; mezzi di trasporto veloci e a impatto zero: questo immaginario “pulito” è naturalmente affascinante, ma per me anche inquietante.
Propongo di sospettare di questa retorica smart. Tanto più che smart cities è anche il nome di un grande business, che coinvolge le multinazionali ICT in prima fila nella produzione di nuovi programmi, sensori, apparecchi.
Tuttavia, la riflessione e le pratiche urbanistiche non possono ignorare i cambiamenti che alcune tecnologie stanno generando negli spazi urbani: dal controllo in tempo reale della congestione attraverso strumenti elettronici alla costruzione di edifici “intelligenti” in grado di limitare i consumi; dalle griglie elettroniche per il controllo dei consumi energetici a una nuova generazione di sistemi informativi territoriali.
Si tratta di valutare con attenzione le conseguenze di queste innovazioni tecnologiche sull’organizzazione dello spazio urbano e sull’accrescimento degli standard di qualità urbana e ambientale e più in generale di abitabilità dello spazio. Più ancora, responsabilità del discorso urbanistico, insieme ad altri, è assumere il tema delle smart cities come un’occasione, attraverso l’utilizzo di tecnologie innovative, per ripensare gli spazi urbani e la vita quotidiana, da una prospettiva che non sia esclusivamente privatistica o di mercato e che si faccia carico di una domanda di giustizia sociale.
Per andare in questa direzione suggerisco di fare quanto propongono Ash Amin e Nigel Thrift: guardare lo spazio urbano e le relazioni sociali «con gli occhi della città» (Amin, Thrift 2016). Cosa significa? Significa interpretare l’urbano come un campo interrelato di tecnologie, oggetti (naturali e sociali), pratiche, relazioni sociali. In questa prospettiva, tecnologie e oggetti sono presi entro specifiche pratiche, intramati in reti di significati, assimilati entro dispositivi di sapere e di potere. Solo osservando in questo modo possiamo comprendere la natura e il senso dell’essere e progettare città.
Possibilità: versatile, flessibile, ambiguo
Come immaginare dunque spazi aperti al possibile, che non ingabbino e irreggimentino il corpo? L’impressione è che la mossa più rilevante stia in un diverso pensiero progettuale dello spazio pubblico. Il primo tentativo consiste nell’immaginare lo spazio pubblico come uno spazio che corrisponda all’istanza e all’ingiunzione della pluralità delle forme di vita (Pasqui 2018), a uno spazio flessibile. Se vogliamo corrispondere a questa istanza, dovremmo pensare allo spazio pubblico come a un luogo aperto a molti usi diversi, a imprevedibili possibilità. Il concetto di “apertura”, intesa anche come disponibilità alla sorpresa, all’accidente, all’evento imprevisto, presenta tuttavia differenti flessioni. Uno spazio “aperto” potrebbe essere in prima istanza inteso come versatile: un oggetto è versatile se lo puoi usare in tanti modi, se si presta, in virtù della sua conformazione, delle sue prestazioni e della sua struttura, a usi diversi. Uno spazio “versatile” consente solo alcune possibilità d’uso, ma ovviamente ne esclude altre. D’altra parte, uno spazio aperto può anche essere “vago”, indefinito, nel senso appunto di non prefigurare in maniera stringente alcun uso, in ragione dell’assenza di caratteri compiuti e progettati. Vaghezza e versatilità rappresentano potenzialmente istanze contraddittorie. Per essere versatile, uno spazio potrebbe avere la necessità di essere molto disegnato e progettato; mentre uno spazio può essere vago anche nel momento in cui viene debolmente progettato, o non viene progettato affatto. Qual è l’equilibrio che il progettista deve saper trovare giocando tra versatilità e vaghezza, lasciando spazio a quell’apertura che favorisce la libertà e l’innovatività delle pratiche? Come interpretare questa istanza progettuale sapendo che il corpo ha comunque bisogno di prese e resistenze, per far danzare la propria capacità di abitare lo spazio urbano? Come lo scarto continuo tra vaghezza e versatilità, tra sospensione e modificazione attiva attraverso il progetto permette di dare corpo – letteralmente – a quell’apertura in base alla quale si dà una convivenza possibile? Per me la convivenza va pensata nel senso del cum, di quella che Carlo Sini ha chiamato «aggregazione compossibile» (Sini, Pasqui 2020). Questa è un’indicazione che mi sembra di poter dare, ma che naturalmente richiede di essere filtrata nelle pratiche operative del progetto. La seconda osservazione che vorrei fare riguarda il rapporto fra il processo che Nancy chiama «oikonomizzazione» del mondo e dell’urbano (Nancy, 2003). Nella tradizione greca, penso alla lettura proposta da Hannah Arendt, lo spazio pubblico urbano è lo spazio del politico. La casa, l’oikos, è lo spazio dell’economico. Oggi questa dicotomia, che è alla radice di una delle interpretazioni più resistenti del pensiero politico occidentale, è saltata completamente e io credo che per tanti aspetti sia irrecuperabile. Nell’oikonomizzazione dello spazio tutto diventa parte di un processo di mercificazione. Dall’altra parte questi processi, che sono di natura globale, ci consegnano anche ritorni nostalgici alle microcomunità, attraverso processi che anni fa Roberto Esposito aveva chiamato di «auto-immunizzazione». Sto tra i miei simili, mi costruiscono spazi che autogoverno sulla base di principi identitari forti, di valori condivisi da cui gli altri sono esclusi. Dentro questa logica troviamo drammaticamente anche le piccole patrie, i piccoli gruppi, le piccole lobby che spesso si danno una loro storia, una narrazione atta a definire un interno e un esterno. Gruppi che si costruiscono un’identità passata che magari non c’è, ma che serve a dividere sulla base di presunti principi e valori condivisi entre nous.
Come stare insieme
Come imparare dunque a stare insieme in uno spazio urbano capace di farsi carico della pluralità delle forme di vita? Penso sia necessario immaginare uno spazio del “con-tatto”: un con-tatto che tenga a distanza, e che insieme leghi, unisca, relazioni. Come pensare, in altre parole, la spaziatura? Come è noto, è un tema che ha attraversato tutta la riflessione ontologica di Jean-Luc Nancy, in particolare la meditazione sul cum in Essere singolare plurale (Nancy 1996). Questo mi sembra il nodo più importante, e insieme più critico: come rendere visibile lo spazio del cum, la spaziatura come compresenza e comparizione nella città delle differenze? Quanto questa comunicazione a distanza, nello spazio aperto e nei luoghi collettivi, può diventare promessa di un con-vivere, di una condivisione che non condivide altro se non la stessa spaziatura, lo stesso distanziamento? Suggerisco che quel che accade e che potrà ancora accadere nei nostri incontri nello spazio aperto, sul marciapiede, nelle strade, nelle piazze, nei giardini e nei parchi possa non essere assunto solo in forma difettiva e privativa. Fare esperienza del vivere insieme, assumere il “con” come una conquista e un privilegio, imparare a ridurre le distanze, entro l’incommensurabile e ineliminabile iato che ci separa e ci unisce.
Non so dire che cosa accadrà alle nostre distanze, ai nostri corpi, al toccare e al toccarsi l’un l’altro, l’un l’altra. Lo sperimenteremo. Certo, quel che ci aspetta fa paura, sembra radicalizzare quel movimento di auto-immunizzazione – di distanziamento – che già le protesi tecnologiche avevano acuito. Ancora peggio, quel che ci accadrà potrebbe, almeno parzialmente, restringere lo spazio del tatto, dell’abbraccio, della carezza, nei confini domestici, sterilizzando la dimensione tattile dell’incontro urbano nello spazio collettivo. Dovremmo dunque immaginare e progettare spazi disponibili a ospitare le giuste distanze, ma anche a veicolare un nuovo avvicinamento, una nuova prossemica che si prende cura della distanza e, proprio in questa distanza, si focalizza sui nostri corpi, sulle loro relazioni e possibilità di incontro. Fare della città il luogo della sperimentazione di una nuova vita in pubblico, che sa rallentare, che mette a fuoco le possibilità dell’avvicinamento, che fa accadere la distanza come promessa di incontro, tocco dello sguardo e del respiro.
Io ho nostalgia della prossimità dei corpi, della folla, della manifestazione, del concerto in piazza o nel parco. Penso però anche alla natura ambivalente di quella folla, di quei corpi. La densità non è sempre scelta, spesso è il marchio della povertà, della fragilità sociale o abitativa. Dunque, affinare lo sguardo, innanzitutto; prestare attenzione ai gesti, ai corpi, alle movenze. Forse oggi possiamo solo impegnarci a una maggiore attenzione, a una cura del corpo, dello spazio e delle loro connessioni; una cura che ci potrebbe consegnare a nuove possibilità anche per ripensare la città post-pandemica.
Lo spazio (del) pubblico
E infine, come pensare in questa prospettiva le possibilità e i limiti dell’azione di progettazione e pianificazione urbana, qui e ora? Come assumere la rinnovata centralità dell’azione pubblica in questo tempo di crisi così simile, eppure così diverso, dalla precedente crisi globale della fine del primo decennio di questo secolo, che ha ridefinito profondamente i tratti e i meccanismi della formazione economico-sociale centrata sul capitalismo globalizzato a trazione finanziaria?
Il primo passo da compiere è il congedo, prima di tutto culturale, dall’idea secondo la quale tutti i problemi della società possano essere risolti senza, se non contro, il pubblico. Se guardiamo in particolare il nostro Paese, il discredito, talora giustificato, associato alle politiche e all’azione pubblica ci consegna un sistema concreto d’azione nel quale gli attori protagonisti (politici, tecnostrutture, burocrazie) mostrano tutta la loro fragilità. L’indebolimento finanziario, organizzativo e cognitivo degli attori pubblici ha enormemente inficiato l’efficacia, oltre che l’efficienza, dell’azione pubblica, vessata anche dalla crescente burocratizzazione del lavoro amministrativo, a sua volta giustificata dalla necessaria lotta alla corruzione.
Abbandonare l’idea secondo la quale l’intervento pubblico sia un problema non è però questione di fioretto in un dibattito culturale. In gioco ci sono gli equilibri di potere a scala planetaria, ci sono pratiche di dominio che hanno acuito profonde disuguaglianze, ci sono rapporti di forza tra classi sociali e crisi di agency per ogni prospettiva radicalmente alternativa, nei singoli stati nazionali e a scala globale. Tutto questo non va mai dimenticato, altrimenti la discussione sul ritorno in campo del pubblico diventa astratta e accademica.
Smarcarsi dal lessico e dall’atmosfera che hanno dominato il discorso pubblico nella congiuntura del compimento della globalizzazione capitalistica è tuttavia solo condizione necessaria. Si tratta a mio avviso anche di pensare la nostra congiuntura dentro un tempo più lungo, tenendo conto di un insieme di variabili, innanzitutto demografiche e tecnologiche, che hanno mutato e che muteranno profondamente i rapporti tra uomini, natura e artefatti a scala planetaria.
Cercare e progettare spazi aperti a dunque nuovi e buoni incontri per tutte e per tutti: ecco un compito difficile ma ineludibile per il mondo a venire.
Riferimenti bibliografici
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