Carla Lonzi: ridefinire il concetto di lavoro culturale femminista

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    “La” clitoride invece di “il” clitoride. L’autocoscienza. Il lavoro improduttivo come diritto. La donna come grande oppresso della società patriarcale. L’impossibilità di un confronto con gli uomini: “Comunichiamo solo con donne”. La presa di coscienza e di distanza dall’oggettificazione sessuale. Insieme a Valerie Solanas e al suo SCUM Manifesto, Carla Lonzi resta la pensatrice femminista più citata all’interno dei movimenti di ultima generazione quando si tratta di sottolineare l’urgenza di una decostruzione radicale e senza compromessi della società patriarcale e dei suoi meccanismi di potere. Studiare Lonzi è uno step necessario per poter decostruire e stravolgere il sistema di potere. A determinare la sua produzione culturale è il concetto di “contestazione”, così come la continua sperimentazione e reinvenzione delle forme espressive tradizionali, nel mondo dell’arte e in quello della critica femminista. Nell’arco di un decennio, Lonzi produce vere e proprie pietre miliari del femminismo italiano: Sputiamo su Hegel (1970), in cui decostruisce la dialettica servo-padrone, La donna clitoridea e la donna vaginale (1970), sul nesso tra sessualità e cultura patriarcale, e Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978). Il pensiero di Lonzi, per cui la presa di coscienza della donna si esprime attraverso il pensiero sessuato e non solo attraverso l’identità di genere, ha plasmato il lavoro e le battaglie delle generazioni femministe successive. Eppure, nonostante il lessico sia rimasto all’incirca lo stesso, sono passati più di cinquant’anni, come se della nostra oppressione fosse impossibile tanto liberarsi quanto parlarne in termini più specifici. Il problema è cosa fare oggi con l’eredità del suo lavoro.

    Partiamo dal pensiero come strumento politico. In un’ottica lonziana, il lavoro culturale è innanzitutto la denuncia dell’indifferenza delle istituzioni e del mondo culturale rispetto alle donne, l’affermazione dell’urgenza di costituire nuovi movimenti sociali in grado di mettere al centro un soggetto nuovo: la donna. Affinché il lavoro culturale sia etico per una donna deve essere preceduto da una precisa scelta di campo, strenuamente oppositiva. Come fa Rivolta Femminile, bisogna esporsi contro tutte le scuole e le correnti di pensiero precedenti, colpevoli di aver escluso tutta la controparte femminile. Gli uomini non possono più essere gli interlocutori di riferimento. Sono le donne a dover ripartire in autonomia, costituendosi soggetto e cercando riconoscimento le une fra le altre, un riconoscimento spaventoso e incontestabile perché opposto al privilegio maschile e dettato allo stesso modo, però, dal concetto di merito.

    Il lavoro culturale è innanzitutto la denuncia dell’indifferenza delle istituzioni e del mondo culturale rispetto alle donne

    In questo processo ritroviamo un’importante contraddizione: una donna deve essere giudicata fra pari, ma, al tempo stesso, ha bisogno che sia riconosciuto il suo valore, proprio quello che la rende eccezionale, non allo stesso livello di tutte le altre. Se per Lonzi “il biglietto d’ingresso per entrare nel mondo maschile e per superare tutte le prove di idoneità nel momento culturale è stato la dialettica”, anche per noi altre donne il punto di arrivo deve essere lo stesso spazio (maschile) istituzionalizzato, per quanto alienante, disumanizzante, frutto e motivo di una serie di norme inaggirabili senza conseguenze sociali. Sembra superfluo sottolinearlo, ma è il contesto a determinare la centralità del lavoro di Lonzi: i suoi modi innovativi di vivere e di scrivere si situano nella cornice di una protesta sociale di massa e nel pieno emergere del dibattito femminista in Italia, a cui partecipano donne di tutte le estrazioni sociali, spesso impegnate anche in conflitti interni al movimento. Nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, quando inizia a delinearsi l’ipotesi di un’analogia fra il lavoro culturale e tutte le altre professioni, più logoranti e più pratiche, per le donne accedere al lavoro produttivo senza lo spettro del lavoro di cura è abbastanza utopistico da rendere il diritto all’improduttività l’equivalente di un pranzo a sei portate a qualcuno digiuno da giorni. Negli anni Settanta, persino nell’urbanissima Milano, parlare di ingresso nel lavoro culturale per le donne è tanto rivoluzionario quanto annunciare che esiste la masturbazione femminile.

    Tuttavia, non riusciamo ad accoglierne il pensiero e il lavoro senza distinzioni binarie, rigide, ironicamente incontestabili. Che Carla Lonzi spicchi come critica d’arte donna in un mondo di critici d’arte uomini stride con la sua affermazione di decostruzione ed è particolarmente interessante in un momento storico in cui l’autorealizzazione personale coincide con la propria professione. In tutte le branche del suo pensiero, il genere definisce la sua identità più di quanto lo faccia la sua professione. Come scrive Maria Luisa Boccia in  L’Io in Rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, Lonzi è innanzitutto una donna: la critica del patriarcato e del sistema maschile passa attraverso una progressiva deculturizzazione. La forza femminile risiede nel non avere nessuna “mitizzazione dei fatti”, nel rifiutare la valutazione storico-artistico-politica tipicamente patriarcale in base al potere. I meccanismi di oppressione devono subire uno smascheramento sistemico: . A caratterizzare Sputiamo su Hegel è l’incitazione a giocare con le categorie della società, a spostare l’asse di tutti i discorsi, insomma, a non sedere mai al tavolo della discussione culturale avendo accettato regole del gioco dettate dagli avversari: i maschi e i potenti.

    Negli anni Settanta, persino nell’urbanissima Milano, parlare di ingresso nel lavoro culturale per le donne è tanto rivoluzionario quanto annunciare che esiste la masturbazione femminile

    Come insegna l’autocoscienza femminista, per decifrare la società e per analizzare il mondo bisogna partire da sé, dalle proprie sensazioni e dall’esperienza che si è in grado di raccontare, come se l’atto stesso di prendere la parola fosse qualcosa di rivoluzionario, di utile alla produzione culturale collettiva. Si parla per connettersi agli altri, performando un ruolo accattivante per il pubblico che si vuole coinvolgere, cercando di agganciare la propria immagine alle istanze che si vogliono perseguire. Ma si può davvero affermare che, al contrario degli uomini, tutte le donne siano pari? Quella di Lonzi e le sue compagne è un’analisi arrabbiata e lucida, operata da donne intelligenti e più istruite della media, in grado di sfogare il loro senso di oppressione attraverso una demistificazione dell’universo patriarcale, gretto, meschino, razionalmente incentrato sul potere. È però anche un’analisi contraddittoria, eseguita da donne che attaccando il mito borghese si impastoiano nelle loro stesse origini, le stesse che permettono loro di ricavare il tempo e l’energia necessarie alla contestazione. Senza voler istituire le Olimpiadi del Privilegio, avrebbe forse senso chiedersi quanto si possa dire rappresentativo un pensiero che si autoproclama universale ma coinvolge una microscopica percentuale della parte in causa. Siamo di fronte a un’analogia di contraddizioni in termini: le pensatrici antagoniste che si comportano esattamente come la classe intellettuale maschile che non tiene conto del genere escluso.

    Chi deve prendere la parola, oggi, quando si parla di oppressione delle donne e di lavoro culturale femminile? E soprattutto, in che modo? Prendiamo i romanzi. Un caso letterario come Ragazza donna altro di Bernardine Evaristo, tradotto da Martina Testa e pubblicato da SUR, risulta emblematico. Il romanzo vede protagoniste femministe militanti afrodiscendenti “combattute tra la volontà di offrire alle proprie figlie una vita migliore o più emancipata o il bisogno di rivendicare e proteggere origini e tradizioni; ma sono anche donne smarrite nel proprio corpo, che rifiutano il proprio genere e che lottano per ottenere il diritto a diventare qualcun altro”. Il livello di complessità sociale e politica è però lo stesso degli anni Settanta: donne giovani e meno giovani che trovano se stesse stabilendo un contatto più autentico e più intimo con la loro femminilità -in ramificazioni che intrecciano la maternità all’arte, la disamina del privilegio all’amore lesbico- e con le altre donne.

    Poco importa che vi siano stratificazione di età, condizioni culturale ed etnia: tutte le voci narranti si stagliano sui loro ricordi con un tono di voce soffuso, emanando sensibilità e proponendo la cura come metodo di lotta permanente all’iperattività extra-produttiva maschilista e patriarcale. Sono femminili nel senso più tradizionale del termine: accudenti, sensibili, materne. Il metodo stesso della narrazione riflette la migliore tradizione lonziana: il racconto di sé-un sé consapevole, gentile, acculturato e intrinsecamente buono- serve a delineare lo specchio della società circostante. L’essere donna si costituisce in un io e la rettitudine morale -che si vuole tipicamente femminile- funziona come metro di paragone con gli altri, maschi bianchi, che non prendono parola.

    La soggettività serve per giungere all’universale: le vicende personali delle protagoniste vengono appaiate con la disperazione, la miseria e l’ingiustizia subite da migliaia di altre persone (fra cui gli altri personaggi), con cui a volte è possibile scorgere qualcosa in comune, come il colore della pelle, a volte no. Se Ragazza donna altro non presta particolare spazio alle trama -corale, in versi, la versione femminista di alcuni elenchi di Bret Easton Ellis- e a quello che succede alle sue personagge, il profilo di Amma Yaz e le altre da un lato e l’accoglienza del romanzo dall’altro dicono molto, invece, sullo stato di salute della riflessione sul femminismo intersezionale.

    Il pensiero e la lotta rimangono però sempre interni al movimento. Nel romanzo, Amma, madre lesbica poliamorosa, autrice teatrale e femminista militante, è ossessionata dal pensiero di essere politicamente “pura”. Attenta a non svendersi al patriarcale e crudele mercato teatrale, non esce mai dal personaggio: la sua attività artistica e privata sopravvive all’interno di un milieu di progressisti sessualmente interessanti e di bell’aspetto, una bolla di anime affini. Ma la soggettività porta le stesse contraddizioni delle opere di Lonzi.

    Lonzi è innanzitutto una donna: la critica del patriarcato e del sistema maschile passa attraverso una progressiva deculturizzazione

    Nella misura in cui Amma si innalza sopra la mediocrità, si stanzia con decisione sopra tutte noi, rendendo impossibile un’identificazione sincera, fuori dal personaggio pubblico che siamo costrette a costruire per avere relazioni con le altre, specie con altre donne e soprattutto con donne che vorremmo sentire simili a noi. Bisogna pretendere purezza da sé e dalle altre, in modo che alla violenza del patriarcato si possa rispondere con la fiducia, un po’ dolente, nei rapporti fra donne, che però non sono esenti dalle stesse meccaniche di competizione, sopraffazione e dominio.

    Eppure a rendere interessante Carla Lonzi sono proprio le sue contraddizioni. L’amore/odio per le compagne di pensiero e di lotta: Carla Accardi, l’unica “personaggia” a prendere la parola in Autoritratto, la “Ester” del suo diario, che co-fonda Rivolta femminile per favorire una società senza patriarcato né oppressione, però poi è competitiva, aggressiva e prova lo stesso piacere di un uomo davanti alla soggezione dell’amica. Lonzi l’accusa di compromissione col patriarcato, ma non riesce a svicolare dal senso di inferiorità e dall’ammirazione che Accardi le suscita.  Il rapporto con Pietro Consagra: la famiglia è il caposaldo dell’ordine patriarcale e “la liberazione della donna non consiste nel raggiungere l’indipendenza economica ma nel demolire l’istituzione matrimoniale”, ma sono proprio la concretezza della professione e della posizione sociale ed economica del marito a garantirle la possibilità di studiare la dimensione simbolica del femminile. Lonzi descrive le difficoltà del’amore eterosessuale e proclama l’incomunicabilità fra i generi, ma Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra (1980) sembra dipingere, piuttosto, la straziante fine di un rapporto d’amore ventennale.    

    A forza di ignorare le contraddizioni, degli aspetti più urticanti e visionari del suo pensiero è rimasto poco o nulla: il tempo è un bastardo, come recita il titolo di un bel romanzo di Jennifer Egan. Come spesso capita per i personaggi pubblici, una personalità complessa e contraddittoria-e per questo interessante- come quella di Lonzi ha finito per essere ridotta a icona aforista nella veste di pensatrice irriducibile, attivista tutta d’un pezzo, sostenitrice del lesbismo politico. Ecco il perfetto campionario della femminista killjoy, da cui trarre al bisogno qualche motivazione inappellabile dell’isteria esagerata delle femministe e del potenziale rivoluzionario di chiunque si dichiari tale. Le ambiguità, l’imperfezione sono errori, devianze da sanzionare: una brava femminista deve coniugare purezza e merito.

    Il lavoro culturale non fa eccezione, come se, a differenza degli uomini che “gratificano le donne per confonderle” e nonostante concetti come classe, etnia, religione e inclinazione personale, essere donna fosse una garanzia nella costruzione di un ordine nuovo, più orizzontale, senza la “rettifica individuale ed emozionale” maschile, nonostante ”l’uguaglianza sia un tentativo ideologico di asservire la donna a più alti livelli”.

    Come spesso capita per i personaggi pubblici, una personalità complessa e contraddittoria-e per questo interessante- come quella di Lonzi ha finito per essere ridotta a icona aforista

    In La classe operaia va in paradiso di Elio Petri Gian Maria Volontè interpreta Lulù, il perfetto prototipo dell’operaio stakanovista imprigionato nell’alienazione di cui parla Marx: i suoi turni abominevoli e senza soste sono scanditi da una perfetta solitudine e dallo scherno dei colleghi più consapevoli dei meccanismi del capitalismo e dell’oppressione di classe. Quando perde un dito nella catena di montaggio ed è costretto a soccombere all’inumanità del lavoro a cottimo, Lulù è costretto a un brusca presa di coscienza e a ridefinire i termini del suo incontro con gli altri, cominciando ad ascoltare gli stessi sindacalisti e intellettuali che prima le maglie del meccanismo alienante gli impedivano di capire. Lungi dal celebrare la coscienza di classe come un processo semplice e indolore, il capolavoro di Petri trae la sua forza dalla rappresentazione delle contraddizioni. Il personaggio di Volontè reagisce al mal di vivere dell’alienazione per presa coscienza personale, soffrendo per la lacerazione delle sue pulsioni. Da un lato vorrebbe essere sicuro e spensierato come i contestatori che gli offrono la loro solidarietà, ad esempio gli studenti, che pure conoscono poco il lavoro di fabbrica, dall’altro non riesce a comunicare e si chiede il senso profondo di quello che fa, è isolato e sacrificabile. Come nel capolavoro di Elio Petri, siamo costrette a inseguire parametri inarrivabili senza avere spazi liberi da norme per poterli ridiscutere. La battaglia politica che La classe operaia va in paradiso vuole supportare è quella di smettere di richiedere solo aumenti salariali, e iniziare a pretendere un miglioramento delle condizioni materiali di lavoro. La nostra potrebbe essere quella di ridefinire il concetto di lavoro culturale femminista, attraversando la presa di coscienza di genere e pensandolo fuori dai canoni ferrei dell’istituzionalizzazione.

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