We need money! Il crowdfunding secondo Fanny&Alexander

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    Nel 2013, nelle pagine di uno dei più famosi fumetti targati Walt Disney, Zio Paperone (l’oltreoceanico Uncle Scrooge) era stato aggiornato dai nipotini rispetto a una nuova una pratica di raccolta di denaro organizzata dal basso. “Ti iscrivi a un sito e spieghi il progetto per cui stai cercando un finanziamento e chi vuole ti manda un aiutino. Si chiama CROWDFUNDING!”. Questo era bastato a fare brillare gli occhi dello Zio accumulatore di denaro ed aprirgli nuove e sconosciute prospettive di guadagno. Uncle Scrooge è stato il protagonista di uno studio in preparazione di Discorso Verde, quarta tappa del percorso dedicato alle forme del discorso pubblico ideato da Fanny&Alexander. L’economia è l’ambito tematico in cui si sta muovendo la compagnia ravennate, un passato teatrale lungo due decenni e un prossimo debutto a Milano al festival di Olinda Da vicino nessuno è normale il prossimo 15 giugno con We need money!

    CHIARA_ We need money! sarà la tappa conclusiva del progetto Discorsi, quello che originariamente doveva intitolarsi Discorso verde, il discorso sull’economia, e che viene dopo gli studi Scrooge e Kriminal Tango. L’emergenza economica del nostro gruppo e quella che coinvolge (quasi) l’intera macchina della produzione teatrale nel nostro paese sono entrate a piè pari in questa nostra ricerca che assume una forma sopra alle righe, mescolando pratiche teatrali che abbiamo consolidato nel tempo a strumenti economici che abbiamo adottato per l’occasione. We need money! è infatti strettamente collegato a un crowdfunding, ospitato dalla piattaforma DeRev, che sarà lanciato il 14 giugno, un giorno prima del debutto milanese dello spettacolo, e che stabilirà in un certo senso la forma futura (e costantemente in fieri) della perfomance. Un’assemblea di azionisti (gli azionisti dello spettacolo, alias donatori del crowdfunding) è convocata in un teatro per discutere le linee guida di un paradossale crowdfunding che permette a chi dona qualcosa di procacciarsi come ricompensa una quota dell’opera teatrale che è ne oggetto. Attraverso il crowdfunding un donatore può acquistare perfino l’essere parte dello spettacolo, attraverso la partecipazione al laboratorio Siamo uomini o azionisti?, che tecnicamente si configura come reward o ricompensa, e che condurremo nei giorni precedenti al debutto e in seguito precederà ogni data della tournée.

    Ma qual è in definitiva l’obiettivo del crowdfunding se lo spettacolo è stato già prodotto?

    La raccolta si configura come una ricerca di denari per mettere in scena un processo, fino allo spettacolo che chiuderà la campagna e che sarà in scena a Roma al Teatro India poco prima di Natale. Lo spettacolo sarà sempre in metamorfosi infatti, e questo dispositivo è forse in primo luogo per noi un collettore di materiali drammaturgici che vengono direttamente dalla collettività. L’idea infatti, che naturalmente ha natura paradossale, è di poter costruire e mettere in scena a poco a poco il crowdfunding stesso, i contenuti che verranno raccolti a titolo di ricompensa appunto, dediche, canzoni, testimonianze segrete, obiezioni, spunti dialettici che verranno direttamente dal pubblico. E che, come è ovvio, decideranno via via il procedere dello spettacolo e ne determineranno la forma finale. Presidente del nostro consiglio di azionisti sarà Scrooge, incarnato da Marco Cavalcoli, che con l’aiuto di due vallette (Consuelo Battiston e io stessa) dovrà gestire in tempo quasi reale le richieste del pubblico e assegnare le ricompense ai donatori-spettatori. Ma i fantasmi della sua storia (che è poi Il canto di Natale di Dickens) non tarderanno a venire a interrogarlo… La storia di Scrooge in fondo è, non dimentichiamolo, la storia di un uomo incapace di compassione che è assalito dai fantasmi della sua coscienza.

    We need money! è accompagnato da un trailer che ha come protagonista proprio Marco Cavalcoli nelle vesti di Uncle Scrooge. Il suo slogan recita “Si dice che l’arte non ha prezzo… Da oggi ce l’ha”. Sembra che spettatori e attori smettano i loro panni per vestirsi di un abito che li trasforma in tutto e per tutto in soggetti economici, in cui la capacità di erogare e maneggiare denaro diventa la caratteristica predominante sulle altre.

    La chiave comunicativa del nostro crowdfunding è coerentemente cinica, in omaggio all’ethos del nostro avatar, Scrooge, l’uomo senza compassione “che odia tutti e che tutti odiano” e dunque ci stiamo divertendo a ribaltare le consuete prospettive che adottiamo nei confronti del lavoro artistico. Oltre ai riferimenti letterari, abbiamo voluto dare valenza drammaturgica a tutte le strategie possibili che oggi si escogitano per la sopravvivenza quotidiana della propria pratica, con allusioni più o meno trasversali ai tagli dei finanziamenti, al nuovo regolamento ministeriale e alle sue derive surreali, alla giungla dei bandi, alla ricerca disperata degli sponsor e, naturalmente, a tutta la serie di crowdfunding che stanno nascendo anche vicinissimo a noi, con esiti e qualità differenti.

    All’interno della campagna, provocazioni come “l’arte possiamo svenderla a prezzo di discount”, “comprate l’arte a 10 euro”, oppure le regole del crowdfunding spiegate da una bambina di cinque anni debitamente istruita da Scrooge (che comparirà nel prossimo video, quello del lancio) saranno forme volutamente urtanti e bieche che, però, ci servono a sollevare un discorso sul nostro tempo. Anche il laboratorio itinerante che abbiamo lanciato è un’occasione di incontro provocatoria: si offre un laboratorio di cinque giorni a chiunque, senza richiesta di competenze speciali. Pagando 50 euro lo spettatore si conquista l’upgrade ad azionista e dopo un breve training di due giorni accede ad alcune scene dello spettacolo.

    Essere azionista ha dunque a che fare letteralmente con la possibilità di compiere un’azione nello spettacolo, ma per compierla devi pagare e obbedire rigorosamente ad alcuni ordini che provengono da un misterioso Sistema, il dispositivo dell’eterodirezione su cui stiamo lavorando da anni. È ovvio che ad ogni passo che si compie in un terreno così minato si è sempre sull’orlo di un precipizio, ed è proprio questo che volevamo indagare. Non è ancora iniziato nulla e già su Facebook sono arrivati commenti obliqui sull’idea di uno sfruttamento possibile da parte nostra delle persone che staranno al gioco, tra cui vi sono naturalmente anche attori, ad esempio. Temi come il lavoro, la libertà, la disperazione, i diritti, il collasso delle utopie, la sopravvivenza, l’indipendenza, il conflitto di interessi – che ormai poi sono tra gli argomenti più gettonati nel nostro pezzettino di mondo (reale e virtuale) – sono temi giustamente delicati ed è proprio una risposta davvero molteplice – divertita o disgustata, costruttiva o disillusa, generalista o specialistica entusiastica o inferocita – quella a cui andiamo incontro e che ci aspettiamo di trovare.

    In un progetto di crowdfunding teatrale (o in generale artistico) il pubblico, gli spettatori sono visti non nella veste di semplici “fruitori” dell’opera d’arte, ma in quanto possibili complici e investitori in quella che è anche una avventura economica. Nello spettacolo We need money! un piccolo investimento economico permette a chiunque di agire direttamente sulla scena, oppure si potrà incidere sullo sviluppo narrativo (e persino sulla struttura drammaturgica) prenotando e inserendo a pagamento nel plot, un proprio contributo, un’invenzione o un’idea. Tutto però ha un prezzo e questo prezzo è proporzionale alla natura e alla misura dell’intervento che si vorrà proporre all’interno dello spettacolo.

    Le assurde e surreali contrapposizioni che escono dall’impostazione di We need money e dal crowdfunding che ne sta all’origine sono molte e ribaltano assunti che abbiamo dato per scontato fino ad ora. La modalità di partecipazione/contribuzione dal basso oscura il finanziamento dell’arte “dall’alto” (che di fatto è ai suoi minimi storici); lo spettatore cambia notevolmente fisionomia divenendo attore non solo dello spettacolo, ma del meccanismo che regola lo spettacolo. Continuando su una strada surreale, chi finanzia lo spettacolo attraverso il crowdfunding potrebbe dunque diventare un azionista del prodotto finale e accaparrarsi una fetta dei guadagni. Quanto c’è di futuribile in questo scenario?

    Mi viene in mente un’immagine che abbiamo convocato nel nostro libro sul progetto intorno al Mago di Oz, nella tavola intitolata alla voce Attesa, e cioè la Zattera della Medusa di Théodore Géricault. Nel dipinto si ritrae un gruppo di naufraghi superstiti della regata francese Méduse arenatasi a causa della negligenza del comandante. Il quadro rappresenta il momento in cui, dopo giorni e giorni di deriva, i sopravvissuti scorgono una nave, la Argus, giungere a salvarli. La zattera è ritratta senz’altro nel momento in cui la rovina può dirsi completa, ma l’impressione che si ricava soprattutto da quei corpi è di una smisurata e solidale protensione verso il fuori, verso di noi che guardiamo, una strana condivisione collettiva dell’intuizione della salvezza – la Argus che avanza all’orizzonte – per quanto del tutto incerto sia che la nave rilevi o meno la loro presenza. La didascalia sulla cornice recita: L’unico eroe in questa toccante storia è l’umanità.

    Se parti dalla metafora di uno stato disperato – il debito, la crisi di tutto un sistema – oppure, più in piccolo, se parti dall’idea che deve essere convocata una piccola comunità per poter finanziare un progetto che non ha più in assoluto gli strumenti sufficienti per prodursi (parlo del finanziamento pubblico, delle produzioni, sempre più rare e vincolate a logiche quantitative difficili da sostenere per una compagnia indipendente, di una circuitazione ormai più che residuale, perfino dell’impossibilità dei festival, ormai, di produrre), cosa può rimanere da condividere, da spartirsi ancora? La partecipazione è un concetto tutto da ripensare in uno spettacolo che assume come pratica ispiratrice quella del crowdfunding.

    Se il crowdfunding diventa il motore di una narrazione e la metafora di una condizione occorre davvero riuscire a guardarsi attraverso la sua superficie specchiante: cosa rimane di noi? Partecipare è prendere una parte, termine tecnico dei copioni teatrali: e allora quale sarà davvero la nostra parte? Quella che sapremo prenderci, che vorremo prenderci, che avrà ancora senso prenderci in questo orizzonte desolante che non lascia intravedere nessuna Argus che venga a ripescarci? In quale progetto possiamo credere come artisti, come spettatori? Chi è l’altro che viene a teatro a vedermi, che io vado a vedere a teatro e che disperata vitalità ci lega? Che relazione economica si può istituire tra il consumatore e l’opera d’arte, tra uno spettacolo e il suo valore, tra impresa, azione, attore, azionista, comunità, community? Impegno o engagement? Compassione o empatia? Quale, in primis, il valore che si può dare alle parole?

    Il denaro è uno strano incubatore di pulsioni, passioni, vizi, corruzioni, desideri, pudori, vergogna, violenze, tabù, sopraffazioni, fragilità. È insomma una cartina di tornasole attraverso cui si possono riconsiderare alcune cose. In un crowdfunding, ad esempio a volte è difficilissimo chiedere denaro, ci si vergogna a non darlo, ci esaspera chi ce lo chiede, ci annoia addirittura, ci alletta magari qualche ricompensa, lo diamo per solidarietà, per educazione, per passione, perché non si può far diversamente, non lo diamo perché non ne abbiamo, perché non ci crediamo, non vogliamo, non possiamo…

    Occorre pensare che in Italia è vizioso tutto il sistema con cui questo modello di finanziamento si confronta (e infatti è un modello che di fatto viene da uno scenario costituzionalmente differente, l’America, dove, per capirci, chi cerca col crowdfunding gli ingredienti e i consigli per fare una buona insalata di patate e 10 dollari per comperarsi il necessario, può procurarsi invece in un pugno di giorni 44.000 dollari per fabbricasene delle tonnellate!). In Italia dove il sistema è al collasso credo che il crowdfunding da solo non possa costituire un’alternativa ai canali di finanziamento tradizionali, basta pensare che i paesi nei quali funziona meglio sono quelli in cui invece sono presenti altre possibilità di finanziamento e che le progettualità più interessanti sono quelle in cui il crowdfunding è integrato in una strategia di reperimento risorse dall’architettura più complessa.

    Detto questo ci sono progetti, anche molto vicini a noi, nel teatro, che forniscono immagini potenti che travalicano la raccolta materiale di risorse: penso al recente crowdfunding per un libro di Archivio Zeta, in cui ad ogni pagina corrisponde un donatore, colui che l’ha resa possibile; penso al racconto di Fagarazzi e Zuffellato, di un crowdfunding che alla fine non ha raggiunto il suo obiettivo, ma che ha messo in moto una serie di meccanismi sentimentali che parlano del senso e della necessità di una comunità stretta intorno all’opera. Nel nostro caso il crowdfunding è una domanda, il dispositivo generativo di uno spettacolo, un gioco spiraliforme in cui la forma rimanda escherianamente al contenuto, in un continuo e vertiginoso rispecchiamento.

    Nel tempo avete costruito e adottato in molti vostri spettacoli la tecnica dell’eterodirezione, un meccanismo in cui l’attore che sta in scena è diretto (solitamente) attraverso auricolari da figure esterne alla scena che lo guidano nei movimenti e nelle battute. All’interno di We need money! l’eterodirezione diventerà di gruppo. Gli attori/spettatori saranno in un certo senso guidati (e anche “manipolati”) da una mano invisibile, termine che ci porta alla mente l’espressione di Adam Smith. Nel sistema che avete architettato, questa mano invisibile può essere considerata l’ultimo baluardo di decisionalità ad esclusivo appannaggio della compagnia teatrale? L’unica prerogativa che non viene erosa dalla decisionalità dal basso?

    Chissà qual è l’ultimo anello di questo sistema di condizionamenti, se si trova in alto o in basso davvero… Ho la sensazione che nella nuova dimensione corale e abbinato all’idea di un crowdfunding a suo modo eccentrico, il dispositivo dell’eterodirezione ci si rivelerà con nuovi e impressionanti contenuti. Laddove si parla di democrazia delle scelte (anche la donazione dal basso è democratica in certo senso) nello spettacolo si costruisce a poco a poco una sorta di spazio on demand in cui chiunque, semplicemente pagando, può decidere che scena guardare, se lo spettacolo deve continuare o fermarsi, o perfino di fumarsi una sigaretta sulla scena. Si può decidere di ballare con il protagonista e di pronunciare alcune battute che, però, sono “suggerite” da un misterioso Sistema. In una logica in cui sarà lo stesso crowdfunding a dettare le regole drammaturgiche però (e lo sta già facendo) è molto difficile alla fine stabilire se questo Sistema possa coincidere totalmente con l’intenzione registica o se sia qualcosa di bizzarramente capace di scavalcare perfino la decisionalità originaria. Dopotutto la forza osmotica dell’eterodirezione l’abbiamo denunciata fin dalla sua nascita, con “West”, e forse questo spettacolo parla proprio anche di questo, dell’impossibilità di stabilire dove inizia e dove finisce il potere che abbiamo su noi stessi e sulla nostra stessa volontà.

    Il crowdfunding sarà lanciato il prossimo 14 giugno, proseguirà fino a dicembre e sarà legato a nuove date in altre città tra cui Roma in autunno. Complessivamente cosa vi aspettate da questa esperienza che sta per iniziare?

    Prima di tutto di divertirci molto… e poi possibilmente di capire, insieme a chi vorrà condividere il suo pensiero e il suo tempo con noi, qualcosa di più di noi stessi e di questo strano mondo dal cuore selvaggio e incomprensibile che abitiamo.

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