Quali luoghi restano per le donne?

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    Circa un mese fa, ho avuto la fortuna di frequentare per tre intere giornate lo spazio in via della Lungara 19, già Palazzo del Buon Pastore, in cui ha sede la Casa Internazionale delle donne. Non ho mai abitato a Roma, ma quelle visite mi hanno restituito molto del senso e della peculiarità del luogo. Per chi non ci fosse mai stato, la casa sorge poco lontano dal lungotevere Farnesina, incastonata tra il fiume, Trastevere e il carcere di Regina Coeli; sovrastata dalle terrazze e dai pini marittimi del Gianicolo. Sono, per capirci gli squarci di orizzonte romano che aprono “la grande bellezza”, e che ne accompagnano le vicende.

    La toponomastica dei diritti si snoda così per via san Francesco di Sales, una stradina lastricata che sale verso il colle e che la mattina è inondata di sole, e racconta molto di quel pezzo di Roma. Due spazi differenti, quello del carcere e della Casa delle Donne, che restituiscono, -assieme all’Accademia dei Lincei, all’American University John Cabot e a Palazzo Corsini, che si incontrano poco dopo- una geografia della città suggestiva. Il blocco, non a caso, viene circoscritto da via della Penitenza, a rimarcare la relazione tra giustizia e porzione di città. Tutto intorno, un perimetro di B&B e affittacamere, che sfociano in negozietti di pasta tricolore, sugo piccante essiccato e cucchiai di legno con strofinacci incorporati.

    Il palazzo storicamente è stato reclusorio carmelitano per laiche, poi monastero “a lungo luogo esemplare della subalternità femminile all’ordine sociale e simbolico della Controriforma”, per alcuni momenti anche struttura di reclusione.

    I gruppi femministi iniziarono la trattativa nel 1983 (storicamente i movimenti avevano collocato la sede in via del Governo Vecchio) e solo nel 1985 ottennero l’assegnazione e le chiavi dell’immobile, gestito dal Centro Femminista Separatista (che racchiudeva 12 differenti gruppi, ora saliti ad oltre 30). La vicenda dello stabile segue alterne fortune, e si risolve formalmente solo nel 2001, quando l’allora giunta Veltroni assegna al Consorzio Casa internazionale delle donne la gestione formale della struttura.

    Appena varcato il portone, c’è un divanetto: durante la mia visita c’era una donna che stava allattando; altre telefonavano; sullo sfondo una parete ricoperta da epigrafi di tutte le donne morte negli ultimi 4 anni per mano maschile, uccise da partner, “fidanzatini”, padri o patrigni. L’impatto è stato suggestivo, ma la nota drammatica viene subito stemperata dal corridoio sovrastato da scritte: sono tutte le associazioni, che in oltre trent’anni di storia, hanno trovato dimora nei corridoi del palazzo, ex convento convertito a spazio di socialità.

    Ci sono associazioni che si occupano di diritti e di tutela legale, gruppi di ascolto, associazioni di donne migranti, di meditazione, di yoga, l’associazione donne capoverdiane, consultori, spazio anti-violenza ma anche gruppi che si occupano della salute, del benessere e della socialità. Al secondo piano ci sono le sale, e in fondo ai corridoi, la sala “Carla Lonzi” per le assemblee e le riunioni. All’ultimo piano c’è la foresteria “l’Orsa maggiore”, e oltre il giardino il caffè “luna e l’altra”. Quello che colpisce, passando le ore in quegli ambienti, sotto la magnolia gigante, nel giardino/orto o nelle molte salette, è il viavai di donne di ogni età e provenienza che entra ed esce da quelle stanze. Vuoi per la mostra sulla storia del movimento, vuoi per chiedere un parere, o per bere un caffè.

    Nei corridoi si trova una copia firmata da Lonzi, Accardi e Banotti del manifesto di “Rivolta femminile” datato 1970, la manifestazione nazionale antifascista del 28 novembre 1971, le fotografie dei gruppi di autocoscienza, i pollici e indici uniti a formare vagine in aria, e a fianco spazi per neofite del dialogo e dell’ascolto. Nella casa c’è spazio per tutte, e si può ritrovare quel filo ininterrotto di riflessione che parte da Franca Viola e arriva prima alla legge n°66 del 1996, frutto di quasi trent’anni di battaglie, che sposta la violenza sessuale dal capitolato dei reati contro la morale a quelli contro la persona. Quel fil rouge che continua fino alla recente legge sul femminicidio, anche se il femminismo dei diritti è oggi più forte quasi sulla carta che nella prassi. Quel patrimonio culturale, e quegli spazi, sono oggi messi in discussione da un’intimazione di sfratto ad opera del Comune di Roma, che richiede il pagamento entro 30 giorni di quasi 800000 euro. Edda Billi, la presidente onoraria dell’AFFI, ha ricordato come quella sia realmente la casa delle donne, che è stata occupata, difesa, e tutelata ha evidenziato come la casa “sono 30 anni che lavoriamo gratuitamente per la città, e siamo in credito con questo comune, e in credito con questa città, per tutte le attività che facciamo e le facciamo gratis.

    È vero che dal punto di vista economico abbiamo un debito, e che nel corso degli anni questo debito ammonta a 830000 euro, ma questo debito c’è perché abbiamo preferito pagare gli stipendi a 40 donne che non avevano lavoro, abbiamo preferito pagare la luce, abbiamo preferito continuare a fornire servizi gratuiti per la città, e ad essere la Casa del femminismo, perché il femminismo è la rivoluzione più grande dopo il cristianesimo, non riuscire a capire cosa sia una casa in centro di Roma, in cui tutte le donne, dove per tutte intendo tutte, dove passano dalle 30000 alle 40000 donne l’anno, ecco non viene capito che noi non siamo in debito, ma siamo in credito”. Si tratta di un caso indicativo a livello nazionale ed internazionale, un luogo che rappresenta un tassello importante della storia italiana, e che offre, tutt’oggi, uno spazio d’ascolto per tutte. Allo stesso tempo, questo dibattito solleva una questione centrale sul diritto alla città e a come la rete e le strutture sociali della città si intersecano con le spinte dei capitali che stanno trasformando le destinazioni d’uso degli spazi, soprattutto se suggestivi e affascinante.

    L’affitto richiesto dal Comune di Roma è di 4000 euro al mese, una cifra che non tiene conto del bilanciamento con i servizi materialmente erogati dal consorzio, né tantomeno del patrimonio culturale immateriale che una casa delle donne produce. Colpisce la strana sincronia tra questa vicenda edilizia e il forte dibattito in corso sulle molestie, sulla difficoltà di parlare, denunciare, trovare ascolto. Colpisce perché è come se quel lavoro culturale sedimentato in oltre cinquant’anni di storia del movimento femminista italiano stesse scolorendo, nelle pratiche discorsive e in quelle politiche, salvo piccole sacche di resistenza, rappresentate dal femminismo storico da una parte e dal giovane movimento di “non una di meno”.

    Nel dibattito odierno -che dal caso Weinstein arriva al locale caso Brizzi- quelle categorie e quegli spazi sembrano utili in controluce, poiché aiutano e aiuterebbero a diradare le nebbie, ad alleviare la solitudine delle vittime. Stupisce la resistenza, nella comunicazione mediatica intasata dal racconto delle molestie, ad usare quel patrimonio di discorsi e di senso. Quei casi, quelle donne, quelle vittime vengono collocate in una dimensione a-temporale, che ha il chiaro effetto di stemperare la logica patriarcale ben disvelata dal movimento cinquant’anni prima. In una sorta di distopia binaria, le due posizioni che emergono sono, al contempo: la convinzione che esista realmente una parità acquisita, e che quelle battaglie abbiano ottenuto tutto quello che potevano ottenere, debellando il patriarcato; dall’altra parte, nessuna eredità, nessuna categoria, solo casi singoli affiancati a comporre una massa numerica, non una collettivizzazione delle problematiche. Così, al problema economico e di gestione degli spazi, si somma quello culturale.

    Come mai una delle più grandi rivoluzioni del secolo scorso non trova dignità di senso tra i saperi condivisi? Come mai quell’eredità ha smesso di essere trasmessa, di fare genealogia di un sapere (e di un potere) differente? Ancora una volta, si ha l’impressione che quello che si è sottratto sia lo spazio e il piano politico, e che siano rimasti, in solitaria, i corpi, le vite, e i simulacri giuridici, incapaci di fornire fino in fondo una dimensione di senso. Tra le molte ragioni per cui la legge n°66 ha tardato trent’anni per essere approvata, c’era l’idea forte nel dibattito femminista che il diritto fosse uno strumento di produzione e riproduzione del sistema patriarcale, di certo non la struttura più adatta per gestire un tema complesso come quello delle violenze –spesso domestiche- e delle loro sfumature.

    Oggi il diritto viene brandito come arma apotropaica, come soluzione, come strumento (prima mediatico, poi di efficacia giuridica) nelle aule. Ecco, io credo che più che di diritto cogente, ci sia in questo momento bisogno di una cultura dei diritti, e di spazi delle metropoli per lo scambio e la produzione culturale degli stessi. Che ci sia bisogno di una riappropriazione politica e culturale di quelle pratiche, per restituire valore e senso a quelle parole, a quelle battaglie, a quelle donne, a quei luoghi, come la Casa internazionale delle donne.

    Quel patrimonio materiale e immateriale che trova dimora in via della Lungara 19 è difficilmente quantificabile in termini di morosità, senza scadere nella stucchevole retorica della concessione, ma quel valore diventa prezioso se si riporta alla luce il senso politico, la rivoluzione culturale che alberga sotto la magnolia gigante. Perché i costi sociali, i danni futuri dell’assenza di uno spazio pluralista di condivisione, sono solo difficilmente immaginabili. La capacità di queste donne di tramandare saperi, di condividere strategie, di resistere allo svuotamento lento delle conquiste delle battaglie (si pensi solamente alla vicenda dell’obiezione di coscienza) ci chiede di domandarci di chi sia la città e quali diritti possiamo esercitare sugli spazi pubblici e di condivisione.

    Quali luoghi restano per le donne? Mutatis mutandis, quali luoghi e quali presidi rimarranno per i diritti, incapaci di produrre valore di capitale ma solo valore immateriale? Se, come in questo caso, le case private e i luoghi di lavoro sono tra i principali spazi in cui vengono perpetrate violenze e discriminazioni, quali territori rimangono? E quali luoghi improduttivi di valore materiale, potranno trovare spazio nelle città? Riflettere sugli spazi del comune, sugli spazi di scambio immateriale, sugli spazi di tutela e di custodia, sugli spazi di protezione e di cura è un tema paradossalmente centrale, che ci richiede di non dare per scontato quegli aspetti della vita comune che davamo per acquisiti.

    Perché nella sottrazione degli spazi, nella privatizzazione del pubblico, nella demarcazione e frammentazione delle città secondo la linea dei consumi (l’unica che periferizza, che definisce realmente i perimetri dell’esclusione) di fatto, si sottraggono lentamente anche i diritti. Perché lo spazio gratuito è sempre più l’unico spazio realmente libero. E per questo oggi è importante affermare che #lacasasiamotutte. Perché, come affermava il manifesto di “Rivolta Femminile”, “Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà. Nel frattempo, ci vediamo il 25 Novembre, in piazza.

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