Chi governa la supply chain?

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    Nel gennaio 2013 alcuni test del DNA rivelarono la presenza di carne di cavallo e di maiale in lasagne e hamburger surgelati indicati come di pura carne bovina, venduti in Gran Bretagna. L’indagine compiuta nella supply chain alimentare condusse i regolatori dai punti vendita Ikea nella Repubblica Ceca (stiamo parlando di polpette svedesi) a macelli in Romania. Un’inchiesta francese su una società romena esportatrice di carne di cavallo, e come tale regolarmente attestata sull’etichetta, portò a un centro di commercio di carni con sede a Cipro, di proprietà di una holding delle Isole Vergini britanniche, che aveva rietichettato la carne prima di immetterla sul mercato UE.

    Adesso siamo a Londra, nell’aprile 2013, durante la spesa rapida delle mattine feriali. I genitori si fermano da Tesco e Sainsbury’s a rifornirsi di Aptamil, un affidabile latte in polvere prodotto dalla francese Danone: nulla, assente dagli scaffali. Mesi prima, commercianti cinesi avevano acquistato all’ingrosso quanto più Aptamil avevano potuto per rivenderlo al doppio del prezzo su Taobao (la eBay cinese) alle madri loro connazionali preoccupate della scarsa qualità del latte in polvere di produzione nazionale (che aveva causato la morte per avvelenamento di almeno una decina di bambini). Le farmacie e i negozi di alimentari del Regno Unito furono costretti a razionare le scorte di Aptamil.

    Pubblichiamo un estratto da Connectography di Parag Khanna

    Il 24 aprile 2013 i piani superiori del Rana Plaza, un edificio comprendente una fabbrica di abbigliamento e un condominio nel quartiere di Savar a Dacca, in Bangladesh, cedettero, trascinando con sé l’intera struttura. Quando la ricerca dei superstiti fu ufficialmente sospesa, un mese dopo, 1.127 furono dichiarati morti: il più grave incidente per cedimento strutturale della storia. Se l’edilizia scadente, il management corrotto, le scarse normative e le reazioni caotiche sono tipiche del settore industriale del Bangladesh, l’inedita gravità della tragedia e il calibro dei clienti della fabbrica – Primark, H&M, Zara, fra gli altri – portò per settimane i riflettori dei media sul caso.

    Nell’agosto 2014 si scoprì che nei ristoranti cinesi di alcune catene occidentali di fast food, come McDonald’s e KFC, era stata servita carne di manzo e di pollo scaduta da anni. La carne era stata venduta da Shanghai Husi Food, una sussidiaria del maggior fornitore di quelle catene, OSI Group, con sede negli USA, e certificata dalle autorità cinesi. Chi era responsabile della svista, i ristoranti di proprietà straniera, i grossisti locali di carne o i regolatori della Repubblica Popolare?

    Ciascuno di questi quattro episodi risalenti al 2013 e al 2014 ha fatto scalpore e ha avuto implicazioni drammatiche per la sicurezza alimentare, la salute dei bambini, i diritti dei lavoratori tessili e l’immagine di grandi marchi societari. Tutti loro sono esempi di supply chain complesse, opache e mal governate, che si estendono a diversi continenti e rivelano un mutamento da transazioni che devono essere approvate al momento del passaggio di un confine a connessioni già approvate in partenza che penetrano i confini invisibilmente. Se la supply chain governa il mondo, chi governa la supply chain?

    Le infrastrutture sono in larga misura come Internet, aperte all’uso di tutti. Le supply chain, al contrario, sono come Intranet, reti di collaboratori. Nel complesso, è più semplice far rispettare gli standard nelle reti Intranet che in Internet.

    L’espressione “economia globale interconnessa” è diventata un cliché. Diamo per scontato che la nostra frutta e la nostra verdura arrivino via nave dall’America Latina, che il nostro iPhone sia stato assemblato in Cina e che lo help desk della nostra compagnia telefonica abbia sede in India o nelle Filippine. Se l’e-commerce finisce per espellere dal mercato i tradizionali mediatori e venditori al dettaglio, l’altissima complessità dei processi di produzione e distribuzione di molti prodotti di alta tecnologia ha fatto sì che il numero di transazioni necessarie all’ultimazione di un prodotto finito sia quasi raddoppiata rispetto a prima. Per questo, come le nostre preoccupazioni sulle supply chain si infittiscono, così anche la nostra dipendenza da esse continua a crescere.

    Tracciatura e gestione di una supply chain richiedono grande attenzione. La fabbrica di abbigliamento del Rana Plaza era l’epicentro di sei diversi livelli di fornitura, senza che nessuno potesse non solo coordinarli, ma nemmeno individuarli complessivamente. Per assicurarsi che le migliaia di uniformi che acquistano ogni anno siano fabbri- cate in modo sostenibile, amministratori e delegazioni studentesche degli United World Colleges (K-12) di Singapore visitano ogni anno i laboratori di produzione nella Malesia interna, dei quali controllano la compatibilità con i codici di condotta dell’agenzia World Responsible Accredited Production. Per quanto riguarda il 2014, tutti gli abiti indossati nei college erano di polietilene tereftalato riciclato al 100 per cento da bottiglie e cuciti in laboratori eticamente responsabili.

    Un tempo si pensava alle supply chain come a concorrenti in una gara al ribasso; oggi è chiaro che esse sono il modo in cui tanti paesi contano di arrivare in alto

    Non possiamo influenzare ciò a cui non siamo connessi. Come ha documentato Paul Midler nel suo libro inchiesta Poorly Made in China, le imprese cinesi di Stato non sono legate ad alcuna market accountability che imponga loro alti standard etici: l’unico obiettivo è il taglio dei costi. Ne sono testimonianza il latte in polvere contaminato che abbiamo visto prima e gli orsetti di peluche i cui occhi potevano staccarsi e soffocare i bambini, che la Mattel è stata costretta a ritirare dal mercato. I rapporti di fiducia tra direttori di impianti di produzione si estendono al di là dell’anello successivo della supply chain, senza parlare della platea cinese o di quella globale dei consumatori. Erano cinesi, non di altre parti del mondo, i 6.000 bambini avvelenati dalla melamina del latte in polvere. Nessuna sorpresa, dunque, che parecchi cinesi preferiscano addirittura il cibo dei fast food americani a quello che trovano nel negozio sotto casa, fritto in olio ricavato dai rifiuti, o che la Mars, che ha sede in Virginia, abbia aperto in Cina il suo maggior centro per i controlli di sicurezza alimentare. Più le supply chain si internazionalizzano, più aumentano gli standard.

    Le aziende non connesse alle supply chain internazionali sono svincolate dall’etica della governance della distribuzione, sempre più centrale nel discorso pubblico. Solo le supply chain globali, infatti, e soprattutto quelle che fanno capo ad aziende con sede nei paesi occidentali, più ricchi e liberali, devono confrontarsi con la pressione dei consumatori, che in certi casi può imporsi là dove le normative statali non arrivano. La produzione tessile del Bangladesh e l’occupazione che essa ha creato non si sarebbero sviluppate senza la distribuzione delle sue merci in Occidente, e il caso del Rana Plaza sarebbe stato notato appena dai consumatori se non fosse stato legato ai grandi brand dell’abbigliamento. Le nuove normative bengalesi sull’edilizia, in fase di stesura, sono state affidate non ad autorità locali, ma a un consorzio che comprende settanta società europee la cui reputazione dipende dalla capacità di evitare che si ripeta un disastro simile. Allo stesso modo, un’impresa in franchising può risultare più responsabile se deve rispettare regole imposte dalla casa madre. McDonald’s ha più capacità di condurre ispezioni interne, e più incentivi a proteggere il proprio brand, di qualsiasi governo impegnato a controllare i suoi ristoranti. Ugualmente, le imprese locali che in Africa occidentale impiegano lavoro infantile nella raccolta del cacao non possono permettersi di alzare i salari o costruire scuole come fa la Nestlé.

    Un tempo si pensava alle supply chain come a concorrenti in una gara al ribasso; oggi è chiaro che esse sono il modo in cui tanti paesi contano di arrivare in alto. Persino Cina e India hanno dovuto aprirsi all’investimento estero per attirarle, e dunque per stimolare riforme e generare il capitale necessario alla diffusione dello sviluppo. Come hanno mostrato i premi Nobel Robert Solow e Edmund Phelps, la presenza di imprese straniere in un paese determina un miglioramento delle sue condizioni salariali, favorisce l’ingresso di nuove tecnologie e migliora competenze e produttività dei lavoratori. Le supply chain iniettano dinamismo e capitalizzano le risorse umane del paese che le ospita: trasformano in parole le tessere del suo Scarabeo.

    Il paradosso del potere delle multinazionali sta nel fatto che la crescita della loro autonomia corrisponde a una crescita del loro ruolo di fornitori di servizi

    Il fatto che nei paesi più deboli gran parte delle infrastrutture (dagli impianti di produzione all’edilizia abitativa) e dell’accesso ai mercati sia dovuto a imprese private ha determinato una nuova dinamica tra capitale e lavoro, tra governi e mercati. Questo non significa, però, che ci stiamo orientando verso un mondo privatizzato nel quale coloro che hanno raggiunto il benessere sono del tutto insensibili al bene pubblico: piuttosto, siamo davanti all’opportunità per gli Stati di fare tesoro di questi modelli per estendere il benessere a tutti coloro che ne sono rimasti esclusi. L’Edelman Trust Barometer, una ricerca annuale condotta dall’agenzia di pubbliche relazioni Edelman, indica un deciso declino nella fiducia verso le istituzioni pubbliche in Occidente e un altrettanto deciso aumento della fiducia globale nel business. Gli intervistati sostengono di volere una nuova modalità di governance in cui i leader del settore pubblico e di quello privato siano più responsabili nei confronti dei cittadini – soprattutto in virtù di una maggiore efficienza nell’impegno verso occupazione e welfare. Ma via via che gli Stati sono sempre più legati alle decisioni delle grandi corporation la distinzione fra pubblico e privato, fra cliente e cittadino, perde di significato. Quando dalla cittadinanza nazionale si ottengono pochi benefici, la cittadinanza di una supply chain può risultare ben più utile.

    Far entrare una supply chain è la via più rapida per uscire dalla stagnazione. Tant’è che la corsa al treno della globalizzazione non trova più opposizione in nessun attivista o ONG con un minimo di serietà. I codici di condotta e i programmi di certificazione sono d’aiuto nel monitoraggio delle manifatture, della produzione di legname e delle miniere di diamanti, ma di certo non possono esse- re un sostituto degli investimenti esteri, con la loro capacità di mettere a frutto risorse naturali e generare occupazione. Persino nei mercati segnati da una più grave incidenza di abusi sul lavoro agenzie quali Business for Social Responsibility o Human Rights Watch non invocano il boicottaggio della produzione, ma si rimboccano le maniche e lavorano fianco a fianco con le imprese per il miglioramento degli standard lavorativi e l’adozione di tecnologie più sicure. Malgrado non siano nate come un sistema di giustizia, le supply chain sono diventate un vettore cruciale di estensione dei diritti.

    È così che le supply chain si sono trasformate in un circuito di appartenenza. Molte multinazionali sono arrivate a inquadrare i propri fornitori come un’estensione di loro stesse, il che significa che le loro strategie sono passate dall’esclusivo interesse degli azionisti alla responsabilità nei confronti degli stakeholder locali. I loro dipendenti si sentono obbligati nei confronti del quartier generale all’estero, come pure degli investitori di ogni altra parte del mondo, che molto spesso contribuiscono al loro benessere assai più di quanto non facciano i governi locali. Laddove una tale evoluzione progressiva non si è verificata, le imprese manifatturiere e minerarie hanno subito severe perdite di bilancio dovute a scioperi e hanno dovuto imparare che la cura della supply chain e di tutti coloro che ne fanno parte è un salutare investimento a lungo termine. Con l’espansione delle interdipendenze fra le supply chain emerge anche la vera cittadinanza multinazionale.

    Il paradosso del potere delle multinazionali sta nel fatto che la crescita della loro autonomia corrisponde a una crescita del loro ruolo di fornitori di servizi. La gestione delle supply chain è salita, con questo, in cima all’agenda dei consigli di amministrazione, e l’allargamento della sfera d’interesse societaria è vista come un’opportunità di mutamento del modello produttivo. Operatori della logistica come Li & Fung e colossi dei beni di consumo come Unilever hanno modificato i loro modelli di business e i meccanismi di vendita per includere i miliardi di persone che sono collocati alla “base della piramide”.

    Essi sono l’esempio di un clamoroso passaggio di scala verso un modello di impresa sociale che lavora con il packaging, la distribuzione e la vendita per smistare fino all’ultimo miglio sistemi fognari, cemento, reti antizanzare e nutraceutici. Se attualmente esistono più persone che possiedono un telefono cellulare di quelle che hanno uno spazzolino, è chiaro che le supply chain possono procurare a tutti i beni indispensabili.

    Note