Guarda dove metti i piedi: la soluzione secondo George Monbiot è sottoterra

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    “Monbiot ha quel dono particolarmente fastidioso, la capacità di indicare in modo lucido quelle cose che le persone, disperatamente, non vorrebbero che fossero vere”. 

    Questa l’efficace sintesi con cui Henry Dimbleby, membro del Dipartimento per l’Ambiente, l’Alimentazione e gli Affari Rurali del Governo inglese e promotore della nuova strategia alimentare nazionale del Regno Unito, ci lascia un’istantanea di George Monbiot.

    Columnist del “Guardian” e saggista specializzato in divulgazione scientifica su questioni ambientali e politiche legate al sistema del cibo, Monbiot negli ultimi anni è diventato un personaggio pubblico molto popolare, non solo per le pubblicazioni di successo tradotte in tutto il mondo ma anche per le sue posizioni sostenute attraverso una costante presenza su piattaforme come Ted, youtube, podcast e social network

    Monbiot, quando lo scopri, capisci che è ovunque. Ma non è da oggi che lo studioso e attivista britannico smuove le acque del dibattito sull’Antropocene offrendoci un punto di vista non solo lucido e argomentato ma anche denso di una visione di futuro. Già nel 2003 scriveva sul suo blog:

    Riponiamo la nostra fiducia nella tecnologia. In un’epoca in cui la scienza è autorevole come una divinità, e altrettanto imperscrutabile, guardiamo ai suoi prodotti come la gente del medioevo guardava alla divina provvidenza. In qualche modo “loro” produrranno e installeranno dei dispositivi – le turbine eoliche o i pannelli solari o gli sbarramenti di marea – che risolveranno i nostri problemi assicurandoci che non sia necessario apportare modifiche al modo in cui viviamo.

    Ma l’ampia diffusione di queste tecnologie non avverrà fino a quando l’aumento dei prezzi del petrolio non assicurerà che la transizione diventi un imperativo commerciale, e a quel punto sarà troppo tardi. (…) Se lasciamo che sia il mercato a governare la nostra politica, siamo finiti. Solo se prendiamo il controllo delle nostre vite economiche, e richiediamo e creiamo i mezzi con cui ridurre il nostro consumo di energia, riusciremo a prevenire la catastrofe che il nostro sé razionale può comprendere (traduzione dall’originale di Medusa newsletter)

    Vent’anni dopo questa dichiarazione, si può dire che Monbiot, nella sempre meno ristretta bolla dell’ambientalismo, sia una delle voci più autorevoli sui big issue degli impatti e delle crisi del sistema agroalimentare.

    Il suo corposo lavoro Il futuro è sottoterra. Un’indagine per sfamare il mondo senza divorare il pianeta (Mondadori, 2022) si colloca tra i numerosi saggi attivisti sul tema del cibo pubblicati negli ultimi anni, tra cui quelli del molto noto Michael Pollan. La differenza sostanziale tra Monbiot e Pollan, fatte salve questioni di stile (il fascino della scrittura di Pollan è probabilmente ineguagliabile), è la collocazione temporale; Monbiot parla in un momento in cui la consapevolezza della crisi antropogenica e la necessità di soluzioni tecnologiche radicali (come ad esempio la fermentazione batterica per la coltivazione di cibi in laboratorio) è assai più diffusa dei tempi in cui Pollan con il suo primo saggio sul cibo si approcciava al problema alimentare appellandosi alla massima di sua nonna «Non mangiare nulla che la tua bis-bis-bisnonna non avrebbe riconosciuto come cibo». 

    Il tone of voice di Monbiot quindi è ancora più sbilanciato verso l’attivismo e l’accelerazione tecnologica rispetto a quello di Pollan (che pure non si è mai negato di esprimere delle chiare call to action.)

    È ora di riprenderci il controllo del sistema alimentare globale, di rovesciare i lobbisti delle multinazionali e i gruppi d’interesse che lo dominano. È ora di creare un’agricoltura nuova, ricca, produttiva e idealmente biologica, non più dipendente dal bestiame, che coltivi cibo economico, sano e disponibile per tutti. È ora di sviluppare una cucina nuova e rivoluzionaria, basata su alimenti prodotti senza agricoltura. È ora di liberare vaste aree del pianeta dal nostro impatto devastante, invertirne la disbiosi, ripristinarne i sistemi viventi, accrescere la nostra stessa prosperità e le nostre prospettive di sopravvivenza.

    Il futuro è sottoterra è un testo che nonostante la sua natura divulgativa si può tranquillamente definire enciclopedico. I temi trattati sono infatti moltissimi: il sistema produttivo agroalimentare, quello distributivo, l’economia circolare, la crisi idrica e del suolo, gli impatti dell’allevamento, diete e abitudini alimentari, obesità e malnutrizione, l’eco–agrologia e le soluzioni di produzione sostenibile, l’agricoltura urbana, le disuguaglianze di accesso al cibo, le nuove tecniche di coltivazione del cibo in laboratorio.

    Esattamente come gli aspetti del sistema eco-agro-alimentare non sono osservabili da un solo punto di vista senza tralasciare degli aspetti cruciali, anche Il futuro è sottoterra è un testo–prisma con moltissime facce e angolature, da cui l’autore ci propone osservare il complesso e caleidoscopico sistema del cibo.

    Complessità, sine qua non
    La narrativa della sostenibilità è diventata un ombrello concettuale che sta sopra molteplici livelli del discorso pubblico: quello scientifico, politico, del marketing, e quello economico. Si tratta di una cornice concettuale e normativa, più che un tema identificabile in sé; un frame, più che il contenuto al suo interno, che – alle luce degli impatti antropici sugli ecosistemi – è ormai imprescindibile per inquadrare problemi e soluzioni ad ampio spettro che tengano conto dell’interazione complessa tra sistemi economici, sociali, ambientali e politici.

    Il punto fondamentale dell’approccio sostenibile allo sviluppo, per come è stato delineato ormai quasi 15 anni fa dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, è che ci stimola a una visione olistica, qualunque sia il livello del nostro discorso (scientifico, politico, narrativo, etico). In questo senso, come già dal 2015 spiega Jeffrey Sachs, la sostenibilità intesa secondo gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, non è solo un mezzo per interpretare il mondo, ma è anche una visione etica e normativa del mondo stesso, un modo per trovare soluzioni efficaci per una società più giusta.

    Il lavoro di Monbiot si inserisce in questo ampio solco tematico, per cui non si può parlare di sostenibilità senza calare il concetto nella dimensione globale che caratterizza le nostre società; “sostenibilità globale”, quindi, non solo nel senso di una maggiore resilienza a cui devono tendere i nostri sistemi economici, ambientali, sociali e politici ormai pienamente globalizzati, ma anche nel senso del corretto approccio metodologico o normativo da tenere a monte: un approccio globale, appunto; interconnesso, o in altre parole, sistemico.

    George Monbiot sostiene che l’unico framework che possa darci una visione anche solo approssimativamente esatta delle interrelazioni di cui dobbiamo tenere conto quando si parla di sostenibilità sia quello sistemico, o della complessità.

    Secondo un approccio sistemico di fatto non esistono singole emergenze e soluzioni semplici a singoli problemi complessi: non un’emergenza climatica, non una della biodiversità, non una della qualità dell’aria, non un’emergenza dei suoli, ma un complessa rete di policrisi – sia nel senso originario del termine che si deve a Edgar Morin in riferimento alla crisi climatica, sia nel senso oggi più discusso e in voga rimesso in auge dal celebre economista Adam Tooze – che tocca tutto lo spettro del mondo vivente.

    Qualsiasi campo che riveste un’importanza cruciale per l’essere umano è assimilabile a un sistema complesso (il cervello umano, il corpo umano, la società, gli ecosistemi, l’atmosfera, gli oceani, il sistema finanziario, il sistema del cibo). Un sistema complesso genera caratteristiche che non sono prevedibili studiandone le parti isolate. Monbiot ce lo “dimostra” empiricamente nel primo capitolo del suo libro scavando una porzione di terreno e spiegandoci le infinite parti dell’ecosistema del suolo, in un solo metro quadro di terreno osservato a occhio nudo.

    Il suolo potrebbe essere il più complesso dei sistemi viventi. Eppure lo trattiamo come sporcizia. La maggior parte di noi percepisce il suolo come un substrato morto e passivo: una tabula rasa che realizza il suo scopo e il suo potenziale soltanto quando su di esso crescono colture. Ma comprenderlo è fondamentale per rispondere a uno dei massimi interrogativi che abbiamo di fronte: come nutrirci in un mondo i cui sistemi naturali e umani mutano a velocità sorprendente, come farlo senza distruggere le basi della nostra sussistenza e come proteggere il resto della vita sulla Terra, garantendo la nostra stessa sopravvivenza. Il futuro sta sottoterra.

    Il cibo come un sistema complesso (a rischio)
    Il sistema alimentare globale è probabilmente il sistema complesso autorganizzato che ci mostra come siamo effettivamente inseriti in una catena in cui gli anelli sono legati: la salute del suolo, quella delle piante e degli animali che mangiamo, la nostra cultura dell’alimentazione, e infine la salute e l’equo approvvigionamento di cibo tra la popolazione.

    La sostenibilità di ambiente, società, economia e politica è quindi vincolata in modo stringente al sistema eco-agro-alimentare, la cui sopravvivenza è a sua volta correlata ad altri sistemi complessi come i sistemi finanziari, i modelli di governance e dalla loro interazione.

    Ma in particolar modo, secondo Monbiot, la resilienza del food system è vincolata alla salute del suolo: il futuro – ancora – è sottoterra.

    Monbiot ci parla di un sistema alimentare globale (che comprende le fasi di coltivazione, commercio, trasformazione, distribuzione) sottoposto a tensioni simili a quelle che hanno colpito il sistema finanziario globale poco prima del 2008, e che sta progressivamente perdendo i sei elementi di resilienza sistemica: la diversità, che garantisce una maggiore capacità di adattamento e di gestione dei rischi in presenza di cambiamenti o problemi; l’asincronia, che implica che le diverse parti del sistema si muovano in modo indipendente l’una dall’altra, riducendo così la diffusione dei rischi; la ridondanza, ovvero la presenza di elementi in eccesso rispetto alle necessità effettive del sistema, in modo da garantire la sua continuità in caso di problemi; la modularità, che prevede la suddivisione del sistema in parti interconnesse ma autonome, in modo da evitare che i problemi si propaghino all’intero sistema; i dispositivi di arresto, che rappresentano meccanismi di regolazione in grado di limitare i danni in caso di situazioni di crisi; i sistemi di backup, che garantiscono la continuità del sistema in caso di problemi, grazie alla presenza di soluzioni alternative.

    Esistono molti importanti fattori esogeni che concorrono all’instabilità del sistema del cibo: sicurezza alimentare e nutrizione continuano a essere sotto pressione a causa dell’aggravarsi di conflitti, pandemie, condizioni climatiche estreme e shock economici. Questi fattori, combinati con l’alto costo degli alimenti sani e nutrienti e l’aumento delle disuguaglianze rispetto al loro accesso, creano ulteriori sfide per garantire un’adeguata alimentazione per tutta la popolazione, di cui fra tutte sfamare il mondo, senza distruggere il pianeta e il sistema del cibo stesso. La mancanza di questi elementi di resilienza rende infatti il sistema alimentare globale vulnerabile a una vasta gamma di rischi, tra cui quelli ambientali, economici e sociali.

    Perché proprio il sistema agroalimentare
    Nel corso dell’ultimo secolo, i progressi scientifici e le innovazioni introdotte nei sistemi produttivi forniti dalla cosiddetta Rivoluzione Verde hanno concorso a innescare radicali cambiamenti socioeconomici, favorito il benessere umano e l’aspettativa di vita, portando all’aumento e all’invecchiamento della popolazione. Nonostante il fatto che la popolazione anziana sia in aumento rispetto al passato, ciò ha portato a una riduzione del tasso di crescita demografico mondiale, soprattutto nei paesi sviluppati. Tuttavia, secondo le Nazioni Unite, in alcune regioni, come l’Africa e l’Asia, la popolazione continuerà ad aumentare e si prevede che entro il 2050 raggiungerà tra i 10 e gli 11 miliardi di persone complessivamente.

    Tutti questi fattori porteranno inevitabilmente a un aumento della domanda di cibo e la risposta dei sistemi di produzione dovrà essere efficace e resiliente, sia nel soddisfare le esigenze globali di cibo sicuro e nutriente, sia nel definire dei confini che la produzione alimentare non deve superare, in modo da ridurre il rischio di cambiamenti irreversibili per la Terra.

    E’ ben noto infatti che la produzione alimentare ha un impatto significativo sull’ambiente. Secondo i dati, rappresenta il 26% delle emissioni globali di gas serra e utilizza il 70% dei prelievi globali di acqua dolce. Inoltre, il 78% dell’eutrofizzazione dell’oceano e delle acque dolci è causato dall’agricoltura. La biomassa di mammiferi non umani è costituita per il 94% dal bestiame, mentre il bestiame avicolo costituisce il 71% della biomassa di uccelli. L’agricoltura minaccia ventiquattromila delle ventottomila specie note a rischio imminente di estinzione.

    A monte di queste cruciali questioni, tuttavia, c’è un interrogativo basilare su cui Monbiot ci porta con insistenza e che riguarda il sistema alimentare nel suo complesso e la sua capacità di resilienza: il sistema eco–agro–alimentare sarà capace di reggere a shock importanti?

     

    Insicurezza alimentare (ovvero come accedere a cibo sano)
    Per provare a rispondere dobbiamo fare un passo indietro, aiutandoci con i dati forniti da Monbiot.
    Fino al 2014, il numero di persone affette da fame in modo cronico era in diminuzione, tanto che sembrava plausibile il raggiungimento del secondo importante obiettivo delle Nazioni Unite entro il 2030. Poi la tendenza si è invertita, arrivando ai dati odierni di circa 828 milioni di malnutriti cronici nel 2021, più o meno 14 volte la popolazione dell’Italia, dove l’insicurezza alimentare grave riguardava circa 1 milione e 200 mila persone, ovvero il 2% della popolazione mondiale. Il Report annuale della FAO non lascia alcun dubbio sul fatto che stiamo facendo passi indietro negli sforzi per porre fine alla fame e all’insicurezza alimentare e sull’evidenza che a ormai soli 7 anni dal 2030 la distanza per raggiungere molti degli OSS aumenta progressivamente.

    Ma nonostante questo, la produzione alimentare globale non accenna a diminuire, superando di molto la crescita demografica, e, se ragioniamo in termini di chilocalorie pro capite, il sistema Europeo già nel 2019 forniva quasi 3400 chilocalorie al giorno.

    Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO) (2021) https://www.fao.org/faostat/en/#data/FBS

    Quindi dove finisce questo esubero produttivo, se non diventa cibo per le persone? Perlopiù è destinato alla nutrizione degli animali da allevamento e alla produzione di biocarburante.

    Nonostante il tasso di crescita della popolazione umana sia in calo, il numero di animali da fattoria in tutto il mondo sta aumentando rapidamente. In effetti, se la tendenza attuale continuerà, entro il 2050, il peso aggiuntivo degli animali da fattoria supererà di gran lunga quello degli esseri umani sulla Terra. Questa situazione – spiega Monbiot – è in gran parte spiegabile dalla Legge di Bennett, secondo la quale il consumo di proteine e grassi aumenta con il reddito. Attualmente, la media globale di consumo di carne è di circa 43kg all’anno, ma in alcune parti del mondo, come il Regno Unito, questa cifra è molto più alta.

    Mentre i paesi più ricchi hanno visto una stabilizzazione o addirittura una diminuzione del consumo di carne, il resto del mondo si sta avvicinando rapidamente. Il numero di animali da allevamento in tutto il mondo sta aumentando in modo significativo, e le previsioni dell’ONU indicano che il consumo di carne nel mondo sarà del 120% superiore a quello del 2000 entro il 2050.

    La vera crisi quindi non riguarda la crescita demografica, ma la crescita del numero di animali da allevamento, e questo è un problema che secondo Monbiot deve essere affrontato urgentemente.

    È necessario fornire nutrimento a questi animali. Attualmente, quasi la metà delle calorie prodotte dai coltivatori vengono impiegate nell’allevamento del bestiame. La richiesta di cibo per gli animali è stata in gran parte soddisfatta con l’importazione di soia dal Sud America, il cui sviluppo ha causato gravi danni alle foreste pluviali, alle zone umide e alle savane. A causa del consumo elevato di carne nel Regno Unito, la dieta richiede quasi 24 milioni di ettari di terreno, ma la superficie coltivata è solo di 17,5 milioni di ettari. In altre parole, la quantità di terreno necessaria per nutrire il Regno Unito è 1,4 volte superiore alla superficie coltivata, e se ogni paese dovesse avere lo stesso rapporto tra consumo e produzione, sarebbe necessario un pianeta della grandezza di Mercurio per nutrire l’intero mondo.

    Standardizzazione delle diete, standardizzazione dell’agricoltura.
    Un altro pilastro del discorso di Monbiot sul cibo è la relazione tra abitudini di consumo globali, sistema produttivo degli alimenti e catene mondiali del valore.

    Le diete occidentali – spiega Monbiot – si sono progressivamente spostate verso una standardizzazione, causata perlopiù alla fonte dall’omologazione della produzione agricola verso meno coltivazioni sempre più dipendenti dall’uso di pesticidi e fertilizzanti per l’aumento della produttività.

    Una delle conseguenze maggiori della standardizzazione delle diete, è che l’ambiente in cui viviamo è sempre più obesogenico, caratterizzato dalla diffusione di alimenti di scarsa qualità e alta densità calorica e dalla sedentarietà diffusa.

    La convergenza verso una “Dieta Standard Globale” è stata uno dei cambiamenti culturali più rapidi nella storia umana. Questo fenomeno, iniziato nei paesi ricchi negli Anni ’60, si è rapidamente diffuso in tutto il mondo, superando le differenze di luogo e cultura. Nonostante la vasta gamma di cibi a disposizione, le diete globali sono diventate sempre più uniformi, con una riduzione della diversità su scala mondiale. Tale uniformità della dieta non ha certo contribuito all’abbassamento dei livelli di malnutrizione: in tutto il mondo, a oggi, ci sono 149,2 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni che soffrono di ritardo di crescita, mentre 45,4 milioni di loro sono affetti da malnutrizione acuta e 38,9 milioni sono in sovrappeso. Allo stesso tempo, oltre il 40% degli uomini e delle donne in tutto il mondo è considerato sovrappeso o obeso.

    Crisi dei suoli e alternative possibili
    Secondo Monbiot, anche se riuscissimo a risolvere tutte le crisi del sistema agroalimentare, il nostro maltrattamento del suolo, per cui non esiste un trattato di regolamentazione globale, rappresenterebbe comunque una grave minaccia per la sicurezza alimentare.

    Sembra, insomma, che stiamo lasciando alla casualità la sopravvivenza dell’ecosistema dal quale otteniamo il 99% delle nostre calorie.

    Se le condizioni attuali e future dei suoli e dell’agricoltura sono allarmanti, per trovare soluzioni che permettano la sostenibilità e la rigenerazione di suoli ed ecosistemi, George Monbiot se ne è andato in giro per l’Inghilterra a cercare esempi di pratiche di gestione virtuose.

    Nel capitolo intitolato “Fertilità”, Monbiot ci fa conoscere Iain Tolhurst, gestore di una azienda orticola che ha iniziato la sua attività su un terreno povero e ghiaioso. Tolhurst ha gradualmente migliorato la qualità del suolo e ha ottenuto rese comparabili a quelle dell’orticoltura convenzionale, utilizzando strategie di gestione organica, come l’impiego di predatori naturali per il controllo dei parassiti tramite aiuole di fiori ai margini dei campi. Tolhurst ha inoltre ridotto la perdita di nutrienti utilizzando colture di sovescio, che fungono da fonte di nutrimento per le colture successive. Come miglioramento del suolo, utilizza scaglie di legno compostate e coltiva una vasta gamma di verdure.

    La riduzione degli sprechi alimentari e il trasporto di cibo su lunghe distanze sono altrettanto cruciali. Monbiot nota che la distribuzione del cibo avanzato ai banchi alimentari può essere solo una soluzione locale al problema degli sprechi, poiché il trasporto su lunghe distanze ne renderebbe insostenibile l’impiego. Secondo l’autore, solo una dieta a base di piante potrebbe ridurre drasticamente lo spreco alimentare.

    L’agricoltura urbana è una soluzione valida per la produzione di cibo a livello locale, ma come evidenzia Monbiot, può fornire solo una frazione del cibo che consumiamo a causa della limitata disponibilità di spazio.

    Secondo Monbiot, è necessario avere una migliore comprensione della fertilità del suolo (o dell’agroecologia) e utilizzarla per aiutare gli agricoltori a sviluppare strategie di gestione che migliorino la fertilità del suolo in modo naturale e sostenibile.

    Nei capitoli centrali del libro, Monbiot esamina i vantaggi del sistema di coltivazione senza lavorazione del suolo (no-till), ma anche i problemi associati, come l’uso di erbicidi. Descrive un sistema agricolo alternativo basato su rotazioni colturali con leguminose e cereali (in gran parte varietà antiche) e il pascolo di pecore o bovini.

    Inoltre, Monbiot sostiene che le colture di cereali perenni offrono molti vantaggi rispetto alle annuali, poiché possono crescere ed essere raccolte per diversi anni e hanno radici profonde. Tuttavia, ammette che poche colture di cereali perenni sono state sufficientemente studiate per essere coltivate su larga scala.

    Un piccolo pancake per l’uomo, ma un salto gigantesco per l’umanità.

    Mentre in Italia nel 2023 siamo impegnati a levare scudi ideologici contro il “grande reset” della carne coltivata e il Governo si adopera ad approvare una bozza di legge che ne vieta la produzione e la commercializzazione, sono già passati 3 anni buoni da che Monbiot ha assaggiato il suo famoso pancake fermentato negli studi dell’allora start-up Solar Food e ha acceso il dibattito pubblico britannico sul tema dei cibi coltivati in laboratorio.

    Famoso il pancake di Solar Food, perché Monbiot ne parla anche in una recente conferenza Ted e ne riprende la storia in uno dei capitoli del libro probabilmente più avvincenti per i meno avvezzi all’agroecologia e all’ecologia del suolo.

    Solar Foods è un’azienda finlandese che ha sviluppato una tecnologia di fermentazione avanzata per trasformare l’acqua e l’anidride carbonica in una farina proteica utilizzando batteri. Questa tecnologia innovativa si basa sull’uso di un reattore in grado di creare le condizioni ideali per la crescita dei batteri, che utilizzano l’idrogeno derivato dall’acqua come fonte di energia. Il loro obiettivo, come di molte altre aziende già da anni impegnate nello sviluppo di cibo coltivato in laboratorio, è di produrre alimenti in un modo sostenibile, che non richieda l’utilizzo di terreni coltivabili e che sia poco impattante sull’ambiente.

    Durante una visita al laboratorio dell’azienda, Monbiot si fece cucinare un pancake con la farina “batterica” della Solar Food.

    Se non l’avessi visto cuocere, non avrei creduto che al pancake non fossero state aggiunte le uova. E avrei trovato ancora più difficile da accettare che l’ingrediente principale fossero i corpi essiccati di batteri. Aveva un gusto ricco, pastoso e appagante: proprio come i pancake che mangiavo un tempo. È un piccolo pancake per l’uomo, ma un salto gigantesco per l’umanità. Rappresenta, a mio avviso, l’inizio della fine di gran parte dell’agricoltura. In quella sottile frittella sono avvolte le nostre migliori speranze di ripristinare il pianeta vivente. Il motivo è che questo metodo di produzione del cibo riduce in misura sorprendente l’impatto ambientale più grave di tutti: il nostro uso della terra. È qui che sta il potenziale per una trasformazione radicale del nostro rapporto con il mondo vivente e per il recupero della salute del pianeta.

    Questa tecnologia potrebbe liberare gran parte della terra attualmente impiegata per la produzione di proteine, sia animali sia vegetali. Il risultato? Possiamo ottenere la maggior parte del nostro cibo senza dipendere dall’agricoltura tradizionale. Questo potrebbe portare a un risparmio di terra senza precedenti, consentendo al pianeta di rigenerarsi e di riprendersi dagli impatti dell’attività umana. La popolazione indigena potrebbe riavere il controllo delle loro terre, contribuendo alla loro riparazione. Questa transizione, per Monbiot, potrebbe essere la nostra migliore speranza per evitare una sesta estinzione di massa.

    Il passaggio a un cibo prodotto dai batteri rappresenterebbe, secondo Monbiot, una vera e propria rivoluzione, non solo nei sistemi di produzione, ma anche nelle abitudini alimentari dei consumatori. Tuttavia, sarebbe (lo è già e il caso italiano lo dimostra) osteggiato dall’industria della carne che ne vedrebbe minacciati i propri interessi.

    Per Monbiot la transizione dalla produzione nel campo alla produzione in fabbrica è un passaggio essenziale per salvare il nostro ambiente e, tuttavia, ci sarebbero alcune criticità non da poco: l’eventuale dipendenza da pochi grandi produttori potrebbe far lievitare i costi di trasporto e renderlo inaccessibile per i paesi più poveri.

    La domanda fondamentale che dovremmo porci a proposito della tecnologia non è: “Quant’è sofisticata?”, bensì: “Chi la possiede?”. Se una tecnologia produttiva ha un basso impatto ambientale e la sua proprietà è distribuita o pubblica, dovremmo essere pronti a adottarla. (…) Occorre costruire un nuovo movimento alimentare e ambientale pronto ad accettare la produzione ad alte rese e basso impatto. Le pratiche che tale movimento dovrebbe favorire spaziano dall’uso del cippato di ramaglie fino alla moltiplicazione di batteri mediante la fermentazione di precisione.

    REGENESIS: George Monbiot calls for the end of (almost all) animal farming

    Perché, in definitiva, è utile leggere Il futuro è sottoterra.

    Monbiot, come divulgatore, rende merito alla non facile missione di parlare a tutti di cibo superando allo stesso tempo le semplificazioni che non tengono conto della ricchezza, della profondità e della complessità dell’argomento.

    Le questioni legate all’alimentazione e all’agricoltura sono infatti spesso limitate alle discussioni sulla disponibilità di suolo, alle calorie per persona e alle tonnellate per ettaro, ignorando invece che il cibo, o meglio i sistemi eco-agro-alimentari, sono al centro di molte altre questioni cruciali, come la nutrizione, la salute, la cultura, il lavoro e lo sviluppo. 

    Se considerato invece da una prospettiva sistemica e olistica, il sistema alimentare appare come un prisma attraverso il quale osservare, comprendere e cambiare la nostra realtà. Il cibo, come “fatto sociale totale”, comprende molteplici dimensioni della conoscenza e della vita delle persone. Pertanto, dovrebbe essere considerato oltre la sua semplice e più comune associazione con “produzione” e “consumo” per includere, invece, riferimenti al suo livello di sostenibilità, valutato in termini di qualità, sicurezza e protezione all’interno di un’ampia prospettiva politica, culturale e simbolica.

    Monbiot ci introduce a questa visione complessa del cibo, lavorando come un gatekeeper tra produzione scientifica e pubblico generalista, e Il futuro è sottoterra arriva da noi con un certo tempismo, proprio quando il dibattito pubblico italiano si accende su questioni per cui il nostro autore farebbe di sicuro delle sconsolate scrollate di testa: l’interpretazione dell’attuale governo di sovranità alimentare, il made in Italy come roccaforte identitaria e la disinformazione diffusa sulla carne coltivata.

     

    Immagine di copertina: Max Saeling su Unsplash

    Note