In molti hanno fatto notare che troppo spesso ricorriamo a metafore militari e in generale all’uso di parole derivate dal linguaggio bellico. Poi magari le facciamo scivolare in luoghi lontani dalla guerra, ma, quando la matrice è quella, un nemico resta, dichiarato ovvero implicito. Così è per “presidio”: da arroccamento difensivo armato a figura di difesa della democrazia, fino all’organizzazione che difende un cibo fuori dai circuiti commerciali. Nelle orecchie di noi tutti ci sono poi naturalmente i “presidi socio-sanitari”, che nel nostro immaginario sono servizi che si avvicinano agli abitanti che ne hanno bisogno. Chiediamoci: quand’è che parliamo non di scuola ma di “presidio scolastico”?
Forse chi sta, per così dire, in prima linea, affronta più coraggiosamente l’ignoranza, la malattia, la solitudine, il disagio e molti -ismi? Nel lavoro sul campo non hanno vita più breve le posizioni ideologiche, messe a dura prova dallo stare dentro alle esperienze, tra paranoie e moralismi? Veniamo ad esempio spesso posti di fronte a una scelta: presidio poliziesco o presidio naturale? Comando e controllo da un lato, vivacità urbana e sociale dall’altro; telecamere di sorveglianza versus animazione territoriale; chiudere a chiave recinti contro incoraggiare flussi di persone. Ma a ben pensarci è un falso dilemma, perché le strategie (ancora una parola in divisa mimetica) non si escludono affatto: non perché un luogo brulica di vita il servizio d’ordine pubblico viene sospeso.