Quando sento dire «i ponti di Calatrava» o «la stazione di Calatrava», per un istante la mente gioca con l’idea di un toponimo, di quelli suggestivi che raccontano l’origine di un luogo, tipo Malalbergo, Casal Bruciato, Alberlungo… Un posto dove un giorno, in tempi remoti, calò una trava, venne giù un edificio, o un ponte. Verrebbe da dire: nomen omenper Santiago Calatrava, architetto nato a Valencia nel 1951, uno dei più famosi e pagati al mondo. Da un po’ di anni a questa parte, in molti paesi, le sue ardite, gigantesche, potenti realizzazioni sono al centro di polemiche, richieste di risarcimento e battaglie legali.
Pubblichiamo un estratto del saggio di Wu Ming 1 pubblicato su nuova rivista letteraria
Non tanto per il loro valore estetico, che pochi mettono in discussione, quanto per il costante sforamento dei tempi e dei budget, per l’esplosione di supernove di debito pubblico ovunque apra un cantiere griffato Calatrava, e per l’indifferenza al contesto in cui l’opera andrà a inserirsi. Indifferenza leggibile nella scelta dei materiali, spesso inadeguati alla destinazione d’uso e alle condizioni climatiche, e nella sottovalutazione di altri aspetti legati all’utilizzo quotidiano. Ne derivano situazioni sgradevoli e talvolta pericolose, oltre a costi di manutenzione molto elevati. Valencia, Bilbao, Venezia, Roma e New York sono alcune delle città dove il nome di Calatrava innesca reazioni a catena di proteste e lamentele. A Valencia, città natale dell’archistar, il grande complesso chiamato «Ciutat de les Arts i les Ciències» è costato 94 milioni di euro. Al termine dei lavori ci si è resi conto che il museo della scienza non aveva uscite d’emergenza né ascensori per i disabili. Nel teatro lirico, ben 150 posti a sedere avevano la visuale ostruita. A Bilbao, Calatrava ha firmato l’aeroporto (ispirato a una colomba che spiega le ali) e lo Zubizuri, un ponte pedonale di vetro. Ad aeroporto finito, ci si è subito accorti che mancava un’area dedicata agli arrivi.
Dopo aver recuperato i propri bagagli, i viaggiatori si ritrovavano direttamente in strada, in una città fredda e piovosa. Il Comune ha dovuto rimediare mettendo una vetrata, per garantire un minimo di riparo. Quanto al ponte, il fondo di vetro è scivoloso, dal 1997 decine di persone sono cadute fratturandosi un braccio o una gamba e hanno fatto causa al Comune, che ha dovuto posare un tappeto di gomma. «È brutto», ha dichiarato il sindaco Ibon Areso, «ma non possiamo continuare a risarcire la gente che cade e si fa male». Ma un giorno il vento ha sollevato il tappeto, facendo cadere altre persone. E i gradini di vetro continuano a rompersi, e rimpiazzarli è costoso.Il ponte Zubizuri potrebbe essere gemellato con il Ponte della Costituzione a Venezia, anch’esso coi gradini di vetro, anch’esso sdrucciolevole, anch’esso pieno di crepe e di rattoppi.
Il preventivo iniziale era di 6 milioni e 700mila euro, ma si è gonfiato fino a superare gli 11 milioni. Inaugurato nel settembre 2008 alla presenza di Giorgio Napolitano, ogni giorno ci passano sopra più di ventimila persone, molte coi trolley, e tu-tum tu-tum, tu-tum tu-tum, il vetro si rompe. Ogni sostituzione di gradino costa al Comune 4500 euro. Se è vero che dall’apertura al 2012 se ne sono rotti 8-9 all’anno, non c’è da stupirsi che, da un po’ di tempo a questa parte, si ricorra a gradini di metallo. E così, pian piano il ponte cambia aspetto. Ai quasi 200mila euro spesi per i gradini rotti vanno sommate le abnormi spese di gestione ordinaria: nel quadriennio preso in esame, sono partiti più di 800mila euro. Solo il mantenimento della geometria tensionale dell’arco richiede 150mila euro all’anno.
Quanto al fondo scivoloso, a Venezia passa più gente che a Bilbao, quindi ci sono più cadute e più richieste di risarcimento: si parla di ben 5mila pratiche. Per consentire l’attraversamento ai disabili, il Comune ha avuto l’idea di impiantare su un lato del ponte una «ovovia», costata quasi due milioni di euro e non ancora entrata in funzione. Un primo processo alla Corte dei conti si è concluso con l’assoluzione di Calatrava e dei tre dirigenti dei lavori pubblici del Comune che si sono avvicendati alla direzione del cantiere. L’accusa aveva chiesto la condanna dell’archistar a risarcire 3,8 milioni di danni erariali causati da errori nel progetto. Il dispositivo della sentenza dice che l’architetto non ha colpe. Il procuratore ha annunciato il ricorso in appello.A Roma, il preventivo per la Città dello Sport di Tor Vergata era di 60 milioni di euro. A marzo 2015 ne risultano già spesi più di 200 (iva esclusa) e si dice che per finirla ne servirebbero altri 400. La copertura reticolare, già realizzata e alta 75 metri, ha richiesto più acciaio di tutta la Tour Eiffel. Con ogni probabilità, l’opera resterà incompiuta, un gigantesco relitto di proprietà dello Stato, gravante sulle spalle di tutti i cittadini.
A New York, la nuova stazione ferroviaria del World Trade Center ha già stabilito il record di sforamento dei preventivi: le spese supereranno i 4 miliardi di dollari. Inoltre, i materiali scelti sollevano perplessità e l’edificio ha un aspetto diversissimo da quello annunciato: doveva ricordare (indovinate un po’) una colomba che spiega le ali, invece – come ha scritto il giornalista del New York Times Michael Kimmelman – sembra «uno stegosauro kitsch». Sia chiaro: non è tutta colpa di Calatrava: in questi scempi hanno messo le mani in tanti. Tuttavia, parafrasando Alain Badiou, potremmo chiederci: di cos’è il nome Calatrava? Seguendo le controversie che circondano le opere dell’archistar, possiamo gettare luce su alcuni topoi dell’ideologia dominante e, al tempo stesso, capire meglio i rapporti tra politica, media e capitale finanziario, plasticamente evidenti nel sistema degli appalti e subappalti per le cosiddette «Grandi Opere».
Qual è, in Italia, la madre di tutte le Grandi Opere, la «metaopera» che le collega, la torta più grande intorno a cui si affollano general contractors, appaltatori, politici, intermediari, subappaltatori, amministratori locali, cosche mafiose, cooperative mostruose, sub-subappaltatori, smaltitori abusivi, suonatori di pifferi e grancasse, agitatori di manganelli, sparatori di candelotti lacrimogeni ad altezza d’uomo? È l’Alta Velocità Ferroviaria. Quella che Ivan Cicconi, tra i più grandi esperti di appalti pubblici del nostro paese, ha definito: «il futuro di Tangentopoli diventato storia» e «furto legalizzato di beni pubblici». Estrapolo dal testo di Cicconi Il libro nero dell’alta velocità (Koinè, Roma 2011): «Con il modello TAV si realizza la combinazione perversa fra la privatizzazione della committenza pubblica e la finzione del finanziamento privato, con il risultato di realizzare opere di pessima qualità a costi più alti, e di propiziare la produzione di debiti futuri […] La catena perversa è sempre la stessa: il committente pubblico affida in “concessione” la progettazione, costruzione e gestione dell’opera pubblica ad una società di diritto privato (SpA), ma con capitale tutto pubblico. [A carico dello stato] rimane il rischio della “gestione” e dunque del cosiddetto project-financing […] La SpA pubblica [es. TAV SpA] serve per garantire al contraente generale [es. Fiat], che è il soggetto privato vero e proprio, il pagamento per intero e subito del costo della progettazione e della costruzione, mentre mantiene per sé (e cioè al pubblico) il rischio della gestione (ovvero i debiti futuri)». È, su una scala di operazioni mai vista prima, l’applicazione del vecchio principio «Privatizzare i profitti, socializzare le perdite». A proposito di «rischio della gestione», vale la pena elencare qualche fatto:
1) a parte la Tokyo-Osaka e la Parigi-Lione, tutte le linee AV del mondo sono in perdita (non lo dico io ma la UIC, Union Internazionale des Chemins de Fer);
2) già nel 2012 il presidente delle ferrovie tedesche Rudiger Grobe ha annunciato che la Germania avrebbe rallentato le corse dei suoi treni iperveloci, gli Ice, perché l’AV è troppo costosa: «Per la Germania la velocità di 250 chilometri all’ora è più che sufficiente, tanto più che le tratte dove gli Ice possono raggiungere i 300 all’ora sono solo due: Colonia-Francoforte e Norimberga-Ingolstadt»;
3) in Italia i passeggeri dell’Alta Velocità sono il 5% dell’utenza ferroviaria giornaliera;
4) il restante 95% è composto in gran parte da pendolari costretti a viaggiare su treni sovraffollati e fatiscenti, con sempre meno corse e sempre più ritardi e disservizi; basti dire che da soli, i pendolari sulla Roma-Viterbo sono quasi il doppio di tutti i viaggiatori delle Frecce Trenitalia e di Italo sulla dorsale Napoli – Torino;
5) l’80% dei viaggi in treno avviene tra comuni della stessa provincia;
6) la distanza media percorsa in treno è 24 chilometri.
Che legame c’è tra l’architettura di Calatrava e l’Alta Velocità ferroviaria in Italia? La stazione AV Mediopadana sorge, bianchissima, all’estrema periferia nordest di Reggio Emilia, in località Mancasale. Compare proprio a ridosso dell’autostrada A1, venendo da Bologna è sulla destra e subito prima degli ormai celebri due ponti, firmati anch’essi da Calatrava, ovviamente bianchissimi, simili ad arpe abbandonate (mi viene sempre in mente Alan Stivell), costati 46 milioni di euro. La struttura della stazione è in vetro, acciaio e calcestruzzo.
Rappresenta un movimento di onde, una sequenza di 457 onde lunga 483 metri. Le onde dovrebbero simboleggiare i corpi dei passeggeri in movimento, ma i viaggiatori ci vedono una fisarmonica gigante, un drago che dorme o un serpente che striscia. Era il luglio 2002 quando una delibera del Comune di Reggio Emilia diede il via libera alla costruzione di una stazione AV «il cui costo (escluso il parcheggio della stazione) non dovrà superare i 38,8 milioni di euro». L’anno prima, il costo era stimato intorno ai 15 milioni.
Cos’era successo nel frattempo? Semplice: il progetto era stato affidato a Calatrava. I lavori vennero affidati al CEPAV Uno, consorzio controllato al 50% da ENI, già contraente generale per i lavori dell’Alta Velocità Milano-Bologna. Nel 2007 CEPAV uscì di scena e venne indetto un nuovo bando di gara, vinto dal consorzio Cimolai. Nel frattempo, i costi si erano gonfiati a dismisura. Alla data dell’inaugurazione, 8 giugno 2013, per costruire la Mediopadana si erano spesi 79 milioni di euro parcheggio escluso (tutti soldi pubblici, come spiegato da Cicconi), ma i lavori erano ancora in corso – e lo sono a tutt’oggi, quasi due anni dopo. Quel giorno, alla cerimonia presenziano Romano Prodi, Pierluigi Bersani, il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi e l’ex-sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio, ovvero l’uomo che sostituirà Lupi al dicastero dopo lo scandalo Incalza (corruzione e Grandi Opere,pensa un po’). La retorica è densa, si usano espressioni come «il biglietto da visita di Reggio verso il mondo», «il segno che l’Italia ce la può fare» ecc. All’esterno, nel mentre, si svolge una contestazione. Una settantina di manifestanti con megafoni e striscioni rilascia alla stampa dichiarazioni come: «È una stazione per ricchi. A Reggio sappiamo bene i problemi che noi pendolari abbiamo ogni giorno […] E ora prepariamoci: qui intorno alla stazione inizierà la speculazione edilizia».Per tutto il 2014, sui giornali locali e nazionali escono articoli sulle magagne della Mediopadana: la usa poca gente, ci piove dentro, d’inverno soffia una bora gelida, d’estate sotto quel vetro si annega nell’afa, non c’è un bar né un’edicola (poi un bar lo apriranno), è collegata male con la città, è infestata dai ratti, gli ascensori sono troppo stretti per le barelle e non consentono il pronto soccorso (verranno ricostruiti interamente), le scale mobili sono solo in salita, e via così. Si parla di «un gigante che stenta a decollare», di «stazione in mezzo al nulla», si usa l’abusata metafora della cattedrale nel deserto. Ma di punto in bianco, con l’inizio del 2015 (l’anno del grande baraccone Expo a Milano), il tono degli articoli cambia. Soprattutto sulla stampa locale, la stazione è descritta come un grande successo.
Si parla di una «straordinaria affluenza», addirittura di un «boom». I dati sono sempre forniti e commentati dal Comune di Reggio Emilia. Sulla Gazzetta di Reggio del 26 febbraio si legge: «Tra due mesi parte l’Expo a Milano e da Reggio Emilia basterà meno di un’ora per raggiungere la pensilina creata direttamente nel quartiere dell’Esposizione Universale. Tutto questo, come già noto, grazie agli 11 treni “speciali” ad alta velocità – senza cambiare a Milano – programmati in vista dell’evento di richiamo internazionale. Su Reggio, quindi, si concentrerà un numero altissimo di traffico passeggeri alla stazione Mediopadana di Mancasale, che dovrà necessariamente essere rafforzata perché già prossima alla saturazione». Prossima alla saturazione? Addirittura? Sì, a quanto pare è un trionfo. La crescita, ci assicura il Comune, è tumultuosa: «I modenesi vengono a Reggio per andare a Milano, mentre i parmigiani per andare a Roma.
Per chi arriva da Mantova, invece, il risparmio in termini di tempo è addirittura di due ore all’andata e due ore al ritorno. L’alternativa sarebbe infatti andare alla stazione di Mantova e cambiare a Bologna». A sentire il dirigente comunale David Zilioli, a fare le spese del boom della Mediopadana sarebbe anche la stazione AV di Bologna: «Percorrendo sempre l’autostrada, da Casalecchio servono circa 40 minuti per arrivare alla stazione di Calatrava. Per andare alla stazione centrale di Bologna, invece, servono in media 35 minuti. Con una differenza che fa propendere per la nostra stazione: il traffico autostradale dà maggiore garanzia di scorrevolezza rispetto al traffico cittadino, eliminando una serie di variabili, come ad esempio i semafori, che possono essere fondamentali per perdere il treno. Inoltre i parcheggi dell’Av di Bologna non sono comodi: uno è a 600 metri e un altro a 1,2 chilometri».
Riassumo: per usare la Mediopadana la gente arriva in macchina da Parma, Modena, Mantova e Bologna. Migliaia di auto alla settimana. E magari quelli che gongolano dando un tale annuncio sono gli stessi che l’alta velocità è necessaria per togliere traffico dalle strade. Io questo boom non me l’aspettavo. Nel 2014, a bordo di treni diretti a Milano, ho attraversato più volte e a orari diversi la Mediopadana, e l’ho vista sempre vuota. Continuo a leggere. I viaggiatori giornalieri dichiarati sono 1500. Su ogni treno salgono in media 48 persone. Non proprio una marea di gente, per una stazione kolossal «prossima alla saturazione». Tanto più che due anni fa se ne prevedevano 2750 sin nei primi giorni.
Come mai oggi si parla di «successo» dichiarandone molti di meno? «Quelle cifre sopra i 2mila utenti erano da intendersi con la stazione a pieno regime, e per questo ci vorranno da cinque a dieci anni». Così, nel luglio 2014, metteva le mani avanti Zilioli interpellato dal Fatto Quotidiano. Sei mesi dopo, la stessa persona parla di boom e di curve che «crescono in maniera esponenziale».Di poca utilità anche lo strombazzo: «Italo raddoppia le corse». L’aumento delle corse non implica redditività. Al momento Italo – o meglio, NTV – ha debiti per 781 milioni di euro, dei quali 660 con le banche. Soltanto nel biennio 2012-2014 ha perso circa 159 milioni di euro e nel primo trimestre del 2014 il capitale sociale si è ridotto di un terzo. Montezemolo seems to have an invisible touch / He reaches in and grabs right hold of your heart / He seems to have an invisible touch, yeah / He takes control and slowly tears the company apart.
Sto scrivendo un libro sulle lotte No Tav e questa storia del repentino boom della Mediopadana mi interessa non poco. Incuriosito, cerco foto e video a testimonianza del tripudio di passeggeri, immagini della stazione non dico affollata ma almeno moderatamente viva in un normale giorno infrasettimanale. Non ne trovo nemmeno una. Sai che c’è? Vado a vedere di persona.
Estratto dal reportage pubblicato su nuova rivista letteraria, continua qui (da pagina 37). Grazie alla disponbilità di Edizioni Alegre