La tragedia urbana di Civita. Sappiamo ancora abitare una città?

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    Molte storie si intrecciano tra le pagine del nuovo libro di Giovanni Attili, Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni, da poco uscito per Quodlibet con una prefazione di Giorgio Agamben. Vi compaiono innanzitutto le storie immemori del tufo e dell’argilla, che affondano le loro radici fuori dal tempo storico e che non cessano tuttavia di operare ai giorni nostri, nella costanza dei fenomeni erosivi o nel fragore di frane e terremoti; su quegli strati di mondo indagati dalla geologia si innestano poi le vicende delle donne e degli uomini che da quella materia friabile hanno ricavato “un nido di falchi” (p. 151) in cui metter su casa, e che dal neolitico almeno hanno incessantemente curato, costruito, mantenuto, coltivato – in una parola, abitato – quella terra “madre e matrigna” su cui si erge Civita, consegnandola con un ultimo slancio affannato al presente.

    Queste storie umane, a loro volta, si mostrano al lettore nella loro intrinseca pluralità, e narrano dell’avvicendarsi di società umane irriducibili sulla superficie di uno stesso luogo, in cui neppure il nome permane immutato: Civita appunto, città in senso generico, che cede il passo alla specificazione con cui la conosciamo oggi, “di Bagnoregio”.

    Ma andiamo con ordine. Il libro si articola in tre parti, tre atti di un’unica tragedia urbana. Il primo ci introduce alla storia di Civita e del suo territorio, al destino di morte inscritto nella sua conformazione geomorfologica ed esacerbato dal tramonto della civiltà contadina; il secondo ce la mostra diventare “terra d’adozione” per nuove comunità e figure sociali, che prolungano la vita del paese e allo stesso tempo ne trasformano profondamente i connotati umani; il terzo, infine, ci porta nella “terra di spettacolo” di un paese diventato “borgo”, nuovamente “scoperto” da una moltitudine di visitatori e dalle strategie di marketing dell’industria culturale, mercificato e consumato nella forma dell’attrazione turistica.

    È una storia complessa e drammatica quella che si dipana attraverso queste tre fasi, unica per l’eccezionalità dei personaggi che la popolano e per la condizione particolare dell’abitato, ma al tempo stesso così simile a tante altre storie che ci provengono da quella fitta costellazione di paesi dell’Italia Centrale (e non solo) da apparire in qualche modo una nostra storia comune, dalla quale non sono totalmente esclusi nemmeno i destini dei più noti centri storici delle nostre città d’arte.

    Storia unica ed esemplare al tempo stesso quella che Attili ci racconta, arricchita di un vastissimo apparato iconografico che ne costituisce una componente essenziale e nient’affatto ancillare. Attraverso una minuziosa ricostruzione storica e d’archivio, affiancata dalle testimonianze tratte dalla viva voce di diverse generazioni di civitonici, l’autore ci introduce dunque alla parabola di un territorio martoriato da crolli continui, che sarebbe stato da lungo tempo destinato all’abbandono se non fosse stato per il pervicace attaccamento alla terra della sua antica popolazione.

    Accediamo così a quella “molteplicità di atti territorializzanti” attraverso cui la comunità insediata è stata in grado di dare forma e mantenere nel tempo il proprio abitato: vediamo i contadini curare i versanti, riparare le proprie case, difendere i propri simboli.

    Accediamo così a quella “molteplicità di atti territorializzanti” (p. 30) attraverso cui la comunità insediata è stata in grado di dare forma e mantenere nel tempo il proprio abitato: vediamo i contadini curare i versanti, riparare le proprie case, difendere i propri simboli (guai se dopo la processione il Cristo restasse a Bagnoregio!) e resistere all’abbandono delle istituzioni civiche, progressivamente migrate nella contrada vicina assieme alla maggioranza degli abitanti.

    Ma il tempo circolare della società contadina, al cui ritmo i civitionici hanno abitato la loro città, con l’avvento dell’industrializzazione viene spezzato dalla logica lineare dello sviluppo: la freccia del tempo indica senza appello la vittoria della civiltà industriale, che strappa i contadini alle campagne e li trasforma in operai, sottraendo alla terra quella cura incessante e minuta di cui essa ha bisogno per mantenersi viva. I poderi vengono abbandonati, i versanti inselvatichiscono, le case si svuotano, i solai crollano, e le piogge incessantemente lavano e scavano l’argilla sotto alla piattaforma di tufo di Civita.

    È la rottura del rapporto con la campagna che segna, più ancora delle “commozioni del suolo” (p. 25), il principale rischio mortale per Civita, che via via si svuota al suono delle lontane sirene di Agnelli (“quello delle macchine” che “ha cominciato a richiamà tutti i contadini” (p. 59)), con l’apertura di stabilimenti industriali nella vicina valle del Tevere e con la realizzazione delle case popolari IACP a Bagnoregio.

    È il progresso che condanna Civita. Ma se si può piangere una società che tramonta, vale a poco rimpiangerla: era un mondo in cui la vita umana poteva avere meno valore di quella di un asino (p. 40), fatto di gente che per sua stessa ammissione “non conosceva il meglio” (p. 55), e quella “contentezza di misura” (p. 54) di cui poteva accontentarsi era in fondo arte della sopravvivenza. L’età del pane (p. 60), insomma, era anche l’età della miseria.

    È in questo quadro che prende lentamente piede un’altra storia, più recente e forse meno eroica, ma che certo è quella lungo la cui strada, alla fine, ci troviamo noi. Prende avvio tra le righe di un romanzo americano minore degli anni ’50, in cui viene riportato un invito di Bernard Berenson a compiere una deviazione dalla strada tra Montefiascone e Viterbo. Il celebre storico dell’arte, con un tocco di mistero, suggerisce di prendere una via secondaria, e, alla fine della strada, di fermarsi e guardare. È così che verrà “scoperta” Civita dai nuovi sguardi di una modernità colonizzatrice, ed è così che prenderanno avvio la sua storia recente e lo stesso intrico di concatenazioni causali che porta anche l’autore a narrarcela.

    A troneggiare su questa nuova scena, è senza dubbio la figura di Astra Zarina, profuga lettone formatasi architetto negli Stati Uniti. Durante un viaggio in Italia, Astra segue il consiglio di Berenson e si innamora di Civita, ma al contrario di molti di quelli che seguiranno le sue orme, non si limiterà a rimirarla come un oggetto estetico, persa nelle lontananze brumose dal belvedere di Mercatello. Astra si insedia nel paese, ne fa la sua casa, e nel farlo instaura un nuovo rapporto con la comunità civitonica, contribuendo a rinnovarla profondamente e a farle rivivere un nuovo slancio progettuale che la salvi dall’oblio della storia.

    Astra lavora sull’esistente, sulle pietre e sugli uomini, ritrasforma “le rovine in case” (p. 133) ed attinge al serbatoio di saperi custoditi dai civitonici per infondere loro nuova vita, portando ogni anno i suoi studenti a vivere e a lavorare con gli abitanti del borgo, rianimando le antiche feste, tentando di riannodare Civita alle valli che la circondano. Non solo ha “la lungimiranza di immaginare il valore e la potenzialità del restauro di molte case” (p. 132), ma è anche e soprattutto in grado di riattivare collettivamente quella “competenza di edificare” che forse sola allude – come suggerisce Françoise Choay – alla riconquista di una capacità di abitare tra gli specchi ammutoliti del patrimonio.

    Al netto di come finirà la storia (ma finiscono mai davvero queste storie?), quello di Astra sarà uno degli ultimi tentativi di arrestare i processi paralleli di museificazione e mercificazione che investiranno il borgo, nella consapevolezza che gli speculatori immobiliari “cercheranno di preservare le forme architettoniche di Civita” pur nella “devastazione della vita quotidiana del borgo” (p. 134).

    Ed infatti Astra non è la sola a “scoprire” Civita. Dopo di lei arriveranno in molti e diversi, più e meno ricchi, più e meno estranei alla vita del paese, certamente espressione di forme di vita radicalmente altre da quelle che fino a pochi anni prima attraversavano a piedi o a dorso d’asino la valle dei calanchi. Sono i “naufraghi dello sviluppo” (p.162), un ceto urbano che vede in Civita la possibilità di affrancarsi dal caos delle città, il cui apporto alla vita del borgo è ambivalente.

    Se da un lato si può leggere in loro degli “anacoreti del weekend” (p.165), interessati alla vita in un’isola medievale sospesa sul mare delle campagne circostanti, non più viste come terra da lavorare ma come paesaggio da contemplare, è tuttavia grazie a loro che si apriranno per Civita le porte di “un nuovo ciclo vitale” (p. 161), o che saranno archiviati progetti altamente impattanti e invasivi come quello che avrebbe voluto trasformare d’imperio il borgo in “una nuova Silicon Valley” (p. 173).

    Qualunque sia il giudizio che si vorrà darne – e l’autore è abile nel lasciare questo compito ai suoi lettori – può essere interessante notare come alcuni di questi nuovi abitanti abbiano molto a che fare con quello stesso ceto industriale che, con i richiami delle sirene della fabbrica, aveva contribuito a svuotare il borgo.

    I naufraghi dello sviluppo sono infatti, in una certa misura, anche i suoi padroni, o quantomeno i suoi figli ingrati: in quell’angolo di mondo, in cui “tornare a vivere nel medioevo” (p. 159), “dentro a una favola” e “fuori dal tempo e dallo spazio” (p.143), essi trovano quella tranquillità che nel loro luogo d’origine, la Torino degli anni ’70, veniva loro contestata proprio dalla lotta operaia (emblematiche in questo senso le testimonianze di p. 152 e p. 158). Questa ambiguità traspare candidamente dalle loro stesse testimonianze: “noi, in fondo, eravamo un po’ dei colonialisti” (p. 166). E tuttavia, assieme all’estraneità, c’è anche gratitudine in paese: assieme al diavolo, con loro sono arrivati anche i soldi (p. 154), e con quei soldi i nuovi venuti hanno effettivamente “rabberciato quelle case o che non c’erano, o c’erano soltanto le fondamenta, o ci cadevano addosso” (p. 166).

    Sono forse queste tra le parti più avvincenti del libro, che lungo tutto il suo corso sa conservare la densità del saggio senza mai smettere di farsi leggere come un romanzo. Dopo il tempo dell’adozione, viene infine quello dello spettacolo: nella rincorsa alla distinzione sociale, il rapporto estetico con il territorio si democraticizza, e dopo i “villeggianti eccellenti” (p. 179) viene il turno dei gitanti della domenica.

    Tra rifacimenti in stile che ne conservano l’immagine e set cinematografici che ne amplificano la fama, flussi sempre crescenti di visitatori portano Civita a diventare una sorta di “volano motore” turistico, che “più gira e più prende giri” (p. 257): in dieci anni (dal 2008 al 2018) il numero di turisti che si accalca sul ponte passa da 42.000 a un milione.

    Nel borgo, in cui risiedono stabilmente una manciata di persone, si moltiplicano le attività commerciali e tutto attorno proliferano le attività ricettive, mentre con i proventi del neo-istituito biglietto d’ingresso si pagano i servizi del Comune di Bagnoregio. Ecco dunque che Civita, da territorio in stato di semi-abbandono, diventa nel giro di pochi anni “l’industria più grossa di Bagnoregio” (p. 297), al prezzo però di rischiare di perdere definitivamente la caratteristica da cui pure prende il nome, quella di civitas.

    Trasfigurata da una “epidemia dell’immaginario” (p. 278) nella forma dell’attrazione turistica, Civita si offre ormai ai suoi pochi residenti come un ambiente sempre meno vivibile, e al tempo stesso diviene una vera e propria miniera d’oro per gli abitanti dei paesi circostanti, che da essa estraggono incessantemente ricchezza.

    È una strana giravolta della storia quella per cui un paese, in via di abbandono a causa delle impervie condizioni strutturali e delle pesanti trasformazioni socioeconomiche imposte dalla modernità, si ritrova nell’arco di pochi decenni a divenire il perno economico di un intero territorio. Appaiono così quanto mai profetiche, sebbene forse in un senso diverso da come le intendeva l’anziana che le pronunciava, queste parole che incontriamo nel libro: «guarda, se so’ utile fammi vive, se no portemi via» (p. 44).

    Proprio mentre si poteva immaginare che le piogge e le frane, assieme all’oblio dell’abbandono, stessero ormai compiendo  inesorabilmente il destino della “città che muore”, con un’ultima torsione la modernità che la condannava ha saputo trovare in Civita una nuova utilità, di cui l’estensione dell’industria turistica è la prova materiale.

    Ora però che un’epidemia ben più concreta di quella dell’immaginario scuote il mondo che pensavamo di conoscere, azzerando la mobilità su scala globale e sospendendo temporaneamente la possibilità stessa del turismo come attività principe del tempo libero, torna inaspettatamente attuale interrogarsi di nuovo su un’altra utilità possibile, per Civita come per molti altri luoghi. Per quanti vogliano porsi il problema di questo differente uso dei luoghi, che fuori da ogni nostalgia per un tempo che non tornerà li renda nuovamente abitabili, questo libro costituirà un prezioso compagno di viaggio.

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