Sulle periferie si è detto e scritto molto. Non sono mancati, nel tempo, tentativi di avviare politiche pubbliche soprattutto orientate ad affrontare i problemi del degrado ambientale e architettonico. Di recente sono state investite risorse importanti con il “Piano Periferie”.
Il limite di questo approccio, in sintesi, è rintracciabile nella omologazione delle soluzioni immaginate e nella mancanza di criteri di priorità e di confronto fra aree urbane di diversa scala. Lo sviluppo urbano sostenuto da politiche che negano un principio generale – l’agenda urbana va predisposta dalle autonomie locali con la partecipazione consapevole dei cittadini – ha generato soluzioni posticce e di breve respiro.
Un piano sulle periferie non può essere separato da una visione della città contemporanea, delle trasformazioni in atto dettate dal calo demografico e dall’immigrazione, della necessità di ripensare le funzioni dei centri storici, della esigenza di riconfigurare la presenza di attività produttive anche all’interno delle aree urbane, della ridefinizione del rapporto fra città e campagna, del consumo di suolo, della mobilità, dello sviluppo di una economia sostenibile. Insomma non si può intervenire sulle periferie senza un pensiero lungo sulle città. Riconoscere che l’Agenda urbana è compito specifico dei Comuni non è quindi una “rivendicazione” ma una imprescindibile esigenza di governo del territorio.
La migliore stagione delle politiche urbane si può rintracciare nei programmi europei noti come URBAN con cui le città hanno allestito progetti di senso, di lungo periodo, sottoposti ad una verifica di fattibilità economica ma anche sociale. Le periferie non sono tutte uguali. Soprattutto si differenziano con riferimento alle città di cui sono parte. Le periferie delle grandi aree metropolitane hanno la dimensione di vere e proprie città medie e sono distanti e distinte dai centri storici a differenza delle periferie di aree urbane di dimensione demografica più contenuta.
In tutta Europa le grandi periferie delle aree metropolitane hanno caratteristiche simili: sono cresciute negli anni, sono popolate da etnie diverse, sono luoghi di privazione dal punto di vista sociale e culturale, sono diventate spesso ghetti, luoghi perduti e abbandonati perché discriminati e segregati, ambiti in cui la dispersione scolastica e la povertà educativa hanno generato fenomeni di razzismo e di delinquenza, luoghi elettivi per la disoccupazione e la precarietà.
Il modello di governance delle città metropolitane, in Italia, ha indebolito le capacità delle pubbliche istituzioni di corrispondere alla domanda di servizi essenziali, ha omologato i poteri municipali senza alcuna considerazione delle specificità dei luoghi, ha contribuito a consolidare separatezza e discriminazione, ha favorito lo sviluppo di processi identitari fondati sulla contrapposizione piuttosto che sulla integrazione. Più che scrivere una nuova “Carta sulle periferie”, ci soffermiamo su due aspetti.
Il primo riguarda il modello di governance delle città metropolitane. Un tema che dovrà essere ripreso nella nuova legislatura ripensando le riforme di questi ultimi anni. Immaginare che ci sia un Sindaco di una città metropolitana, ed un apparato amministrativo, in grado di coordinare le politiche territoriali di aree vaste che comprendono centinaia di Comuni piccoli e medi, è semplicemente impossibile.
Le città metropolitane, dal punto di vista amministrativo, sono quindi ingovernabili. In questo contesto si inserisce il modello di governance dei grandi Comuni come Roma, Milano, Torino o Napoli. In questi casi il tema centrale è il modello di decentramento amministrativo, il ruolo dei Municipi o Circoscrizioni, le funzioni ad essi assegnati, le risorse, il personale.
Anche in questo caso, rivisitare le scelte di questi anni senza rincorrere un modello che si applichi meccanicamente alle città di maggiori dimensioni demografiche, appare una scelta ineludibile e saggia. Inaugurare una fase in cui, con pochi principi generali, si definisce un modello di governance che tiene conto delle specificità delle singole grandi città, potrebbe consentire di valorizzare le capacità di autogoverno delle istituzioni locali e responsabilizzarle sul piano delle scelte amministrative. Una sorta di regime pattizio che non mortifica le istanze locali senza per questo rifugiarsi in modelli istituzionali “fai da te”.
Il secondo riguarda il ruolo dell’Europa in questo specifico ambito. È auspicabile che il tema dell’”Agenda urbana”, dopo il Patto sottoscritto ad Amsterdam nel 2016, trovi sempre più spazio nelle politiche europee, nel rispetto del principio fondamentale dell’autonomia progettuale delle città.
All’interno di questo contesto, in una visione unitaria del governo del territorio, si potrebbe iscrivere una nuova politica per le periferie delle grandi aree urbane, strettamente connesse con l’Agenda urbana. Se il quadro che emerge a livello europeo si compone delle stesse dinamiche sociali, economiche e culturali che connotano le grandi periferie urbane, allora ha senso che ci siano misure adeguate e coordinate per costruire una comune strategia con cui affrontare le grandi problematiche connesse con lo sviluppo urbano nei punti di maggiore criticità. Ma il tema delle grandi periferie interroga anche il ruolo che possono giocare le politiche culturali e sociali per favorire l’integrazione, la coesione sociale, il ripristino della legalità, il superamento della povertà educativa e della dispersione scolastica. Se il tema della riqualificazione di parti consistenti delle grandi città rimane un obiettivo da perseguire per garantire servizi essenziali e qualità della vita nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti i cittadini, è altrettanto importante considerare gli elementi che connotano la convivenza civile, il senso di appartenenza ad una comunità, la necessità di ricostruire quel capitale di fiducia che è alla base di un possibile progresso di aree oggi degradate.
In questo contesto assumono valore, soprattutto se inserite in un quadro organico di politiche attive per le grandi periferie, iniziative che favoriscono processi di aggregazione sociale e restituiscono reputazione a luoghi e cittadini collocati ai margini. A questo scopo potrebbe tornare utile persino una competizione fra grandi quartieri periferici d’Europa. Se si pensa all’esperienza della “competizione” per la Capitale Europea della Cultura o del Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa, si ritrovano tutti quegli elementi che possono concorrere a creare coesione sociale, fiducia nel futuro, riscoperta del senso di appartenenza ad una comunità, sviluppo a base culturale e così via.
In un recente incontro promosso in collaborazione con il VI Municipio di Roma (Tor Bella Monaca) e l’Associazione 999Contemporary, in cui sono state interessate le Municipalità di San Salvario (Torino), Via Padova (Milano), Libertà (Bari), Quartieri Spagnoli e Scampia (Napoli), San Berillo (Catania), ZEN (Palermo) insieme ad alcune strutture del Terzo settore che operano da anni in questi stessi quartieri, abbiamo ragionato sulla possibilità che l’Europa possa promuovere una nuova competizione, aperta alle grandi città, per premiare ogni anno il “Quartiere Culturale Europeo”.
Una competizione per valorizzare programmi di innovazione sociale e culturale e favorire un confronto fra esperienze virtuose generate da una sussidiarietà circolare. Una simile iniziativa potrebbe favorire un processo identitario virtuoso, potrebbe aiutare le aree periferiche ad uscire dall’isolamento, potrebbe restituire fiducia e reputazione, potrebbe generare una rete europea fra quartieri periferici così come è avvenuto per le Città che, nel tempo, hanno ricevuto l’ambito titolo di Capitale Europea della Cultura. Gli stessi Stati membri potrebbero, come è avvenuto in Italia, in Gran Bretagna ed in altri paesi, istituire competizioni a livello nazionale sulle orme di quella europea. Anche il Premio, collegato con il riconoscimento, potrebbe avere un valore quasi simbolico (per le Capitali Europee il premio è di 1,5 milioni di euro), impegnando gli Stati a sostenere la realizzazione dei programmi presentati dai singoli quartieri.
L’adesione convinta dei partecipanti a Tor Bella Monaca è un buon inizio. Era la prima volta che amministratori municipali e organizzazioni del Terzo settore si incontravano. È certo una iniziativa parziale. Altre ne seguiranno già nelle prossime settimane e, a marzo, l’invito sarà esteso ad alcuni quartieri periferici delle città di Madrid, Barcellona, Parigi, Marsiglia, Berlino e Monaco. Non è la panacea di tutti i mali ma avrebbe un grande valore simbolico. Nel recente rapporto dell’Unesco Re-shaping Cultural Policies, dedicato alle politiche attive per il patrimonio culturale materiale e immateriale come motore di sviluppo urbano sostenibile, creativo e intelligente, si ricorda un principio essenziale dello sviluppo culturalmente sostenibile: assicurare l’equità nei confronti dei gruppi più vulnerabili della società, attuando strategie mirate per superare lo svantaggio nell’accesso alla partecipazione culturale.
Si può costruire “dal basso” una rete europea per immaginare un futuro migliore per le periferie delle grandi aree urbane, partendo dalle esperienze concrete, dalle persone. Si può costruire un nuovo equilibrio fra le persone e l’ambiente urbano. E’ anche così che può maturare a livello nazionale ed europeo una nuova politica per le città e per le grandi periferie urbane.