Pensare al plurale, pensare la pace: il compito dell’Europa

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    Quali saranno le conseguenze di lungo termine del conflitto tra Russia e Ucraina? Come si ridefiniranno gli equilibri politici interni alla Comunità Europea, nel quadro di mutati equilibri geopolitici globali? L’esplosione del conflitto ha rapidamente polarizzato il dibattito in tutti i paesi europei, consolidando opposte visioni degli eventi in corso. cheFare e il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università di Bergamo hanno deciso di sviluppare, nel quadro di un progetto di Terza Missione, un percorso editoriale che intende interrogare il nostro tempo, analizzando le sfide sociali e culturali che la guerra pone al continente europeo e al suo futuro. Autrici e autori con diversa formazione ed estrazione culturale ragioneranno di istituzioni comunitarie, di equilibri migratori, di geopolitica, di politiche energetiche, di crisi ambientale, di economia, di culture europee. 

    Pensare la pace significa attrezzarsi a pensare a un ordine plurale. L’idea che anima questo contributo è che questo compito competa quasi naturalmente all’Europa e che anzi ne metta in gioco l’identità e il futuro, non solo in termini di prosperità economica.  

    In un discorso tenuto a 10 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, nel 1955 ad Atene, Albert Camus caratterizzava la civiltà europea come «una civiltà pluralista (…) essa è il luogo della diversità delle opinioni, delle contrapposizioni, dei valori contrastanti e della dialettica che non arriva a una sintesi. (…) Il contributo più importante della nostra civiltà mi sembra sia quel pluralismo che è sempre stato il fondamento della nozione di libertà europea»1A. Camus, Il futuro della civiltà europea, tr. it., Castelvecchi, Roma 2012, p. 15.. All’idea di Europa Camus associa la nozione di misura: «la misura non è il rifiuto della contrapposizione, né la soluzione della contraddizione»; essa è «il riconoscimento della contraddizione e la decisione di assumerla, qualunque cosa accada»2Ibidem, p. 20.. 

    Pochi anni prima, il federalista svizzero Denis De Rougemont, riflettendo sul mondo diviso di Yalta, aveva sostenuto tesi simili: «dalla religione, dalla cultura e dalla morale europea proviene l’idea della contraddizione, del tormento fecondo, del conflitto creatore. (…) Invece, all’inizio dei due nuovi imperi sta forse l’idea della unificazione dell’uomo, della eliminazione delle antitesi e del trionfo dell’organizzazione bene congegnata, senza storia e senza dramma»3D. de Rougemont, in Aa.Vv., Spirito europeo, tr. it., Ed. Comunità, Milano 1950, pp. 184-185. . E ancora più esplicitamente: «l’europeo conosce quindi il valore essenziale degli antagonisti, dell’opposizione creatrice, mentre l’americano e il russo sovietico considerano l’esistenza di una opposizione come indice di cattivo funzionamento, che deve essere decisamente o brutalmente eliminato, per giungere all’unanimità, all’omogeneità»4Ibidem, p. 186.. L’uomo europeo è insomma «l’uomo della contraddizione, l’uomo dialettico per eccellenza». 

    Questa dimensione di pluralità, intessuta di differenze che non vanno alla resa dei conti, è proprio il tratto identitario europeo, tale in un senso un po’ paradossale, in quanto elemento di «identificazione non-identificante»5P. Rossi, L’identità dell’Europa, Il Mulino, Bologna 2007, p. 55; J. Derrida, Oggi l’Europa, Garzanti, Milano 1991. . Su queste basi, sarebbe contraddittoria la pretesa di ridurre l’Europa a una sua «rappresentazione dominante: in quanto essa è unità di un molteplice, significa piuttosto individuare il luogo concettuale in cui i molti lati diversi di questa molteplicità possono riconoscere se stessi come tali, ovvero riconoscersi nella propria specificità e nella propria ragion d’essere»6F. Biasutti, Riflessioni filosofiche sui fondamenti dell’idea di Europa, in C. de Luzenberger-M.L. Pelosi (a cura di), L’idea di Europa, Loffredo, Napoli 2011, p. 25.. Anche i tratti politici dell’unità europea, sintetizzati da Paolo Prodi7P. Prodi, Identità storica e Costituzione dell’Unione europea, in Il Mulino, 6/2004, p. 616. nella centralità del patto politico, nella divisione del potere, nell’importanza dei diritti soggettivi come limite della politica, nella presenza di un doppio ordine di norme (etiche e giuridico-positive) non coincidenti ma in dialettica tra di loro, compongono le regole di uno spazio pubblico-istituzionale che rende possibile la coesistenza e la cooperazione di parti plurali. Insomma, e in sintesi, l’Europa non è e non può essere una comunità di natura etnica, ma una costruzione progettuale, volta al futuro, «un’avventura»8Z. Bauman, L’Europa è un’avventura, Laterza, Roma-Bari 2006..

    Su queste premesse, possiamo provare ad accostarci al tema del conflitto russo-ucraino: a riguardo è utile la riflessione, portata avanti già da tempi non sospetti, di Franco Cardini, tanto convinto europeista, quanto scettico “occidentalista”. Per Cardini, quella di Occidente non è una categoria assoluta e statica, e nemmeno un’identità reale, ma “inventata”, e cioè elaborata nel tempo e passata attraverso una serie di spostamenti e di modificazioni di senso. E soprattutto, per Cardini, con Yalta e la Cortina di Ferro, con la divisione cioè tra un mondo libero, occidentale, e uno socialista, orientale, il risultato è stato la sparizione dell’Europa: «NATO e Patto di Varsavia costituivano la protesi militare dell’infausta logica di Yalta che, spezzando l’Europa in due tronconi, la vanificava. Abbiamo tutti sperato che la caduta di Cortina di Ferro e Muro di Berlino (…) avviasse un sia pur lento processo di cancellazione dello spirito di Yalta. Non è stato, non è così. La caduta di quella Cortina, di quel Muro, è servita solo a far sì che l’Occidente dilagasse nell’Europa orientale. Ma quell’Occidente egemonizzato dagli U.S.A. non è Europa, che anzi risulta fagocitata e annullata»9F. Cardini, Europa Europae. Storia, mito, utopia, illusione, Il Cerchio, Rimini 2017, p. 60. . La divisione e la cristallizzazione dei blocchi dilaniano l’Europa, lacerandone l’anima plurale. Già in occasione della crisi irakena del 2003, Rumsfeld aveva proposto la rappresentazione (interessata) di una spaccatura tra la “vecchia Europa” – Francia e Germania, critiche rispetto all’invasione, da una parte – e la “nuova Europa”, con Inghilterra, Polonia e Italia in prima fila, dall’altra. 

    In questa chiave di lettura, è stato profeticamente sostenuto che «l’Oriente eurasiatico privo d’un interlocutore europeo rischia di scontrarsi i nuovo con l’Occidente atlantico (del quale l’Europa è in qualche misura compartecipe, ma rispetto al quale non è affatto identificabile10Ibidem, p. 122. )». Lo stesso ingresso dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale nell’Unione Europea non è stato scevro di ambiguità, posto che questi Paesi – anche comprensibilmente, visto il passato comunista – entravano nell’Europa, ma guardavano oltre-oceano, pensando cioè all’UE come porta di un Occidente politicamente egemonizzato dalla Nato11Ibidem, p. 173: «Il “doppiare” l’ingresso dei nuovi paesi dell’Unione con il loro parallelo ingresso nella NATO perpetua un pesante equivoco e un paralizzante legame».

    Quando sia considerato come fattore di omologazione delle culture, a traino della globalizzazione economica, l’Occidente non può che segnare un «divorzio irreversibile» con l’Europa12Ibidem, pp. 34 e 36.. Lo stesso “modello sociale” europeo non è infatti coincidente con la pianificazione dirigistica, ma nemmeno con il tipo americano di capitalismo: se ne distingue per un’idea essenziale di sviluppo economico governato, secondo una logica di respiro politico che guardi alla sostenibilità ambientale e alla coesione sociale. Entro questo modello di sviluppo, cura dell’ambiente e protezione sociale non sono interventi che seguono a correzione di una fase prioritaria di crescita economica, ma sono oggetto di una cura che deve orientarla nel suo svolgersi. 

    Letta in questa prospettiva, l’attuale crisi rischia di perpetuare l’equivoco di un’Unione Europea che, anziché svolgere il ruolo, che le è quasi naturale, di mediatrice e la sua funzione originaria di pace, finisce a traino. Un ordine pacifico e democratico non può che partire dal riconoscimento del plurale. Questa è la condizione per pensare la pace, accantonando pertanto le narrazioni semplicistiche sulla fine della storia e sulla occidentalizzazione come destino di una globalizzazione omologante, che portano inesorabilmente alla dismisura dell’uno. Ha ragione Ida Dominijanni a denunciare «la militarizzazione del dibattito pubblico»13I. Dominijanni, Il nuovo scontro di civiltà, in https://centroriformastato.it/, 4 marzo 2022. , per cui, «nella retorica monotonale occidentale l’Ucraina è diventata in pochi attimi la trincea della difesa della democrazia tout court, anzi, per dirla con le parole di Joe Biden nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la trincea del conflitto fondamentale del nostro tempo, che sarebbe quello fra democrazia e autocrazia». Tra l’altro, la logica dello scontro di civiltà perpetua, anche dal lato occidentale, l’illusione che la guerra possa ancora giocare la sua antica funzione morfogenetica di identità politiche, resa impossibile – come ha sottolineato Umberto Curi – dalla minaccia nucleare14U. Curi, Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari 1999, p. 75. .  

    Non aiuta a un corretto inquadramento della crisi internazionale e ancor meno alla ricerca di una soluzione il principio – all’occorrenza sbandierato – di auto-determinazione dei popoli, divenuto ormai un arnese, se non inservibile, quanto meno da maneggiare con grande prudenza. Di questo principio va riconosciuto il carattere rimediale, non originario: dal diritto internazionale si trae il principio che a un popolo, sottoposto a dominio coloniale, ad occupazione straniera o a un regime segregazionista, è riconosciuto il diritto di riacquistare lo status di soggetto autonomo ed indipendente. Vi è un legame costitutivo tra l’affermazione di questo principio e il processo di decolonizzazione. Il diritto all’autodeterminazione riguarda i popoli sottoposti al dominio di uno Stato straniero, e non le minoranze etniche che prendono parte democraticamente al Governo dello Stato. Su queste basi, la Corte Suprema Canadese, con la sentenza del 20 agosto 1998, ha negato il diritto all’indipendenza al Québec: la regione non aveva diritto di staccarsi dal Canada poiché viveva in uno stato democratico e i suoi abitanti avevano la possibilità di accedere al governo, consentendo così la rappresentanza al Québec all’interno delle istituzioni statali canadesi. 

    Di quale popolo possiamo parlare al singolare? Una componente etnico-linguistica può essere maggioranza da qualche parte, all’interno del territorio statale, e minoranza in un’altra parte dello stesso. Quale criterio o unità di misura si deve assumere per stabilire l’auto-determinazione? La maggioranza statale? Regionale? Locale? L’affermazione di un’identità singolare del popolo è fatalmente idolatrica. Se si vogliono evitare cortocircuiti logici, l’unica via che regge è riconoscere il pluralismo, e cioè le forme di espressione e di partecipazione dei diversi all’unità dello Stato. In questo rinnovato contesto, il principio di auto-determinazione, declinato in un’accezione interna, va riletto come diritto a ottenere dal governo dello Stato un trattamento rispettoso dell’identità culturale, linguistica e politica plurale della popolazione. Un tale approccio caratterizza già l’immagine di popolo (sovrano) nella Costituzione italiana: esso è un soggetto pluralisticamente articolato, la cui unità sta nel dialogo, nella coesistenza e nella cooperazione tra parti differenti15Rinvio a F. Pizzolato, I sentieri costituzionali della democrazia, Carocci, Roma 2019, p. 26 ss... 

    Se l’idea di un popolo omogeneo è già in sé, almeno in qualche misura, una forzatura manipolatrice, possiamo realisticamente pensare in termini omogenei la comunità internazionale? Ancora una volta si conferma il potenziale ruolo guida dell’Unione Europea, che ha costruito una comunità sovranazionale a stretta integrazione, mantenendo però la pluralità dei demoi, dei popoli16Illuminante a riguardo il confronto intercorso tra J. Habermas e il costituzionalista tedesco D. Grimm, riportato in G. Zagrebelsky-P.P. Portinaro-J. Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, Einaudi, Torino 1996, parte quinta, p. 339 ss... 

    Di questo ordine plurale una koiné può essere certo rappresentata dai diritti umani, purché non se ne faccia la voce dell’uno. L’approvazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si offre – da un lato – quale attestazione storica di un “consenso generale”, omnium gentium, attorno ai diritti17N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1997, pp. 18-21.; dall’altro, però, si è sempre avvertito come sospetto il loro carattere universale, che celerebbe un “imperialismo” (non solo) culturale occidentale18Tra gli altri, D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 14-15 e soprattutto 142-144. . Sui diritti umani, si affiancano visioni ireniche, che ne fanno uno strumento di cosmopolitismo democratico19Si v. D. Archibugi, Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica, Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 56 ss. e 120 ss.., e visioni apertamente critiche, che si spingono a leggervi una sovrastruttura di prosaici e crudi rapporti di dominazione. Dietro (e dentro a) questa unanimità celebrata possono trovare ospitalità e riconoscimento visioni (o ordini) differenti dei (tra i) diritti, sicché è fondamentale che sia mantenuto aperto lo spazio di un’ermeneutica plurale degli stessi. 

    Apertura al plurale e senso della misura: sono i presupposti logici e culturali per pensare la pace. Nel Preambolo dello Statuto di Roma del 1998, istitutivo della Corte Penale Internazionale dell’Aia, cui né gli USA né la Russia hanno aderito, è scritto che gli Stati membri sono «consapevoli che tutti i popoli sono uniti da stretti vincoli e che le loro culture formano un patrimonio da tutti condiviso, un delicato mosaico che rischia in ogni momento di essere distrutto».  

    Note