Siamo nel pieno della seconda ondata della pandemia di Coronavirus e nell’ultima tornata di misure restrittive pensate per contenere il contagio – annunciate nella giornata di domenica – è stato, nuovamente, il turno della sospensione degli “spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all’aperto.” Si allarga così, salvando a malapena i musei e le gallerie, l’insieme degli spazi culturali per cui al momento tutte le attività sono sospese.
La decisione del governo Conte, sebbene sembri necessaria davanti alla drammaticità della pandemia e dei suoi numeri, risulta maldestra e violenta non soltanto per le economie che muovono questi spazi, ma soprattutto per il muscolo immaginativo che nutre le programmazioni culturali che riempiono di vita i luoghi della cultura. In breve, che si tratti di un nuovo centro culturale, di uno spazio liberato o di una grande istituzione della cultura, le lavoratrici e i lavoratori che animano questi luoghi sono stremati, demotivati e incapaci di elaborare scenari che vadano oltre la fondamentale sopravvivenza delle organizzazioni.
Le contraddizioni in questo momento si sprecano: dall’assunto universale che pone l’infrastruttura culturale in secondo piano rispetto a quella dei luoghi di culto e quella dell’industria della ristorazione e manifatturiera, passando per la stagione estiva che ha visto i centri culturali, vecchi e nuovi, impegnati a fare investimenti e ristrutturazioni progettuali per mettere in sicurezza e a norma tutte le attività che ospitano e che ora si vedono sospendere nuovamente le programmazioni.
Le programmazioni culturali non sono soltanto uno strumento progettuale ma un’interfaccia necessaria ad ognuno di noi per continuare a costruire collettivamente conoscenze e occasioni di scambio in un momento storico in cui “fare cultura” è un processo rischioso per la vita di ognuno di noi.
La complessità della pandemia e delle economie che sta intaccando richiedono 2 diversi tempi di azione: il primo, sistemico e sul medio periodo, deve riguardare una risignificazione complessiva del ruolo dell’infrastruttura culturale nella società moderna e deve prendere in precisa analisi le catene di valore che la mettono in moto e le norme che la regolano, magari attraverso la discussione di forme di reddito distribuito come il reddito di creatività.
La seconda, più puntuale e urgente, riguarda la salvaguardia della capacità immaginativa e progettuale necessaria a imbastire una programmazione culturale — il muscolo di cui parlavo prima, il cui funzionamento accomuna luoghi della cultura profondamente diversi tra di loro e che in questo momento si trova costretto all’atrofizzazione. Che senso ha continuare a generare forme di cultura, fisiche o virtuali che siano, in un contesto in cui il lavoro culturale in ogni sua forma non è valorizzato, pagato, riconosciuto e supportato dalle stesse istituzioni che in questo momento, di fatto, ne impongono la sospensione nella dimensione pubblica?
La risposta a questa domanda non è scontata. Se durante il primo lockdown io stesso facevo richiesta di una decisa forma di rifiuto a qualunque stimolo a “immaginare il dopo”, oggi le programmazioni culturali non sono soltanto uno strumento progettuale ma un’interfaccia necessaria ad ognuno di noi per continuare a costruire collettivamente conoscenze e occasioni di scambio in un momento storico in cui “fare cultura” è un processo — nella sua forma più classica: pubblica, partecipata dai corpi, matericamente presente — rischioso per la vita di ognuno di noi.
Che si tratti di trasferire online una stagione di presentazioni e conferenze, trovare soluzioni in streaming per la diffusione di spettacoli teatrali e cinematografici o sfruttare le reali potenzialità collaborative del digitale e di internet per creare nuovi spazi di produzione collettiva di cultura, i fattori ambientali che scaturiscono dalla pandemia sono persistenti ed in continua evoluzione e ci chiedono di continuare fermamente a resistere.
In un contesto di totale de-valorizzazione del lavoro culturale e di esasperata finanziarizzazione degli strumenti necessari a tradurre le programmazioni online — dai social network fino alle piattaforme per videoconferenza —, continuare ad elaborare curatele e stagioni di eventi non è soltanto un’azione di resistenza creativa nei confronti dei limiti necessari (per la salute pubblica) e di quelli imposti (dalle istituzioni), ma un processo propedeutico a prepararci a “ciò che verrà dopo” la pandemia, le quarantene e le chiusure.
Infatti, qualunque sarà la battaglia collettiva che saremo chiamati a combattere alla vigilia delle riaperture, non potremmo più prescindere da un approccio comunitario alla questione. Reddito di creatività, rilancio dei nuovi centri culturali, ristrutturazione dei finanziamenti alla cultura, nuove e vecchie norme da pensare e ripensare: tutte sono tematiche che si avvicendano in maniera verticalmente specifica tra i vari ambiti culturali ma la cui urgenza, oggi, attraversa l’infrastruttura culturale nel suo intero.
Con le ultime restrizioni, le istituzioni italiane ci hanno ricordato che l’infrastruttura culturale non è percepita come essenziale benché la sua salute e la sua capacità di continuare a immaginare il presente e il futuro siano legate esistenzialmente alla salute della società con cui si interfacciano
Fare fronte alla devastazione psichica che la pandemia e la conseguente quarantena infliggono su tutte le lavoratrici e i lavoratori della cultura non è soltanto un esercizio da intraprendere perché “lo spettacolo deve continuare”, ma diventa un processo di consolidamento di un’intera categoria che per necessità e volontà deve profondamente rinnovare non soltanto i propri modi di fare cultura ma anche il proprio approccio alla collaborazione intersettoriale ed interdisciplinare.
Continuare a elaborare una programmazione culturale oggi, qualunque sia l’ambito di appartenenza della propria pratica, significa acquisire dimestichezza e consapevolezza con le richieste che sarà necessario porre, insieme, ad istituzioni e corpi intermedi. Esercitare una forma di resistenza alle chiusure imposte continuando a costruire conoscenze, competenze e stratagemmi necessari a non fermare le programmazioni culturali significa porre le basi per ricominciare ad esistere con dignità dopo l’impellenza della pandemia.
Con le ultime restrizioni, le istituzioni italiane ci hanno ricordato che l’infrastruttura culturale non è percepita come essenziale benché la sua salute e la sua capacità di continuare a immaginare il presente e il futuro siano legate esistenzialmente alla salute della società con cui si interfacciano. Sgomberato ogni dubbio, elaborare nuove forme di resistenza a questa percezione diventa l’azione più ovvia di compiere: trovare la forza, insieme, di convivere con la totale esasperazione che tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori della cultura stanno vivendo per trasformarla in azione affermativa e inequivocabile.
Oggi continuare a resistere significa impratichirsi nelle arti magiche necessarie per poter continuare a imbastire programmazioni. Conoscere le tecnologie di cui abbiamo bisogno per organizzare presentazioni online degne di questo nome, scoprire l’enorme potenziale delle piattaforme di collaborazione digitale quando usate con consapevolezza, sfruttare la smaterializzazione del lavoro a nostro vantaggio. La buona notizia è che ora sappiamo con certezza di doverlo fare, perché nessun altro lo farà per noi.