Ragionare insieme per mutare gli spazi di potere, Angela Davis e l’abolizione del carcere

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    Il 13 ottobre 1970 Angela Davis viene arrestata in un hotel di New York e portata in prigione. Si era truccata gli occhi e aveva indossato una parrucca per provare a rendersi irriconoscibile. È lì che «inizia», nel racconto, la sua vita: a ventisei anni, con la sottrazione dallo spazio pubblico e politico, con la rinnovata presa di coscienza di un’oppressione compresa davvero solo oltrepassando le mura della prigione, attraverso l’esperienza diretta della privazione della libertà.

    Pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Valeria Verdolini alla nuova edizione di Aboliamo le prigioni? di Angela Davis (minimum fax)

     

    Il carcere è obsoleto? viene pubblicato per la prima volta nel 2003, ma indubitabilmente le riflessioni di queste pagine trovano la loro ragione d’essere negli anni della carcerazione. C’è una trama visibile che intreccia la critica all’istituzione penitenziaria e le vicende personali di Angela Davis come donna, accademica, attivista. Il suo posizionamento di lotta offre la chiave di lettura, la soggettiva, lo sguardo possibile che permette la visione – in questo caso, il disvelamento dell’oppressione. […] La comunità afroamericana ha vissuto in una condizione di vulnerabilità economica ma anche di assenza di riconoscimento – una marginalità che non è solo un differenziale di ricchezza, ma anche di potere e di possibilità. La marginalità, sostiene bell hooks, è presente nei modi di essere e di vivere, e non è possibile abbandonarla, spostandosi verso il centro: è invece necessario abitarla, perché offre un punto di osservazione radicale sul mondo. E io che scrivo, da dove osservo il mondo? Ho iniziato a pensare a questa nota e a tracciarne i contorni con un misto di impaccio e scomodità. Come posso aprire un dialogo con questi saggi? Cosa posso dire, e come? Se il personale è politico, io sono donna, europea, ma soprattutto bianca.

    E leggere da qui (un qui che è genere, etnia, classe, provenienza, professione) gli scritti di Angela Davis è un’esperienza sconvolgente, non solo perché l’oppressione propria del razzismo sistemico è un evento mai esperito, e come per ogni esperienza di dolore non c’è racconto in grado di colmare quella distanza, ma proprio perché le sue parole mi chiamano in causa. Il personale è politico nella misura in cui ingaggia un dialogo (o una tensione) con l’altra, con l’altro, così che l’elemento individuale diventi collettivo.

    Ogni volta che Angela Davis descrive il suo senso di insicurezza, la minaccia dei «bianchi», parla di me, mi ingaggia in una tensione di corpi nello spazio che prescinde dalla mia volontà ma non per questo è meno reale. Come posso stare in questo scambio se sono parte, mio malgrado, del nemico? Come posso agire il politico se sono, al contempo, elemento oppositivo? Sono nemica o sono sorella? Basta il femminismo a costruire ponti, o prevale l’oppressione millenaria legata al colore della pelle a creare divisioni?

    Conosco l’oppressione patriarcale – tutte, coscienti o meno, la conosciamo e la esperiamo – ma questa dinamica di potere è forse sufficiente per comprendere la violenza del razzismo strutturale e sistemico, e soprattutto di quello performato alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti? So perfettamente tratteggiare la distanza tra le geografie del mio conosciuto e quelle dell’alterità. Ma come dare contezza di tale distanza?

    La stessa separazione esiste tra me e l’argomento di queste pagine, la prigione. […]

    Allora, di nuovo, come stare? Come poter costruire un ragionamento sulla prigione e sulla sua obsolescenza, sul razzismo e la sua oppressione da qui, da ciò che sono, bianca e libera? Eppure io credo che un tentativo sia doveroso, perché sebbene non sia possibile parlare in nome d’altri e d’altre, è lecito, tuttavia, guardare insieme, soprattutto se si orienta l’agire sociale e politico nella medesima direzione.

    Una proposta efficace viene offerta da Audre Lorde che, con l’alibi della poesia, traccia definizioni dell’osservabile. Lorde parla di sister outsider, in altre parole «sorella estranea», ma – se vogliamo leggere l’espressione nel contesto penitenziario – anche «sorella al di fuori». Con quel­la definizione Lorde parla di sé, è lei la portatrice di un’identità «outsider», e la carica di tutta una serie di aggettivi che io non posso assumere. Tuttavia, la polisemia dell’espressione permette l’apparente paradosso, e offre un punto di osservazione che è di per sé diseguale, ma che non nega, anzi tiene in conto, tali distanze. Perché nessuno stare al mondo è una scelta – quello che mi è capitato di vivere è un privilegio, una possibilità, un maggior potere nel campo sociale, ma non una scelta. Sono nata più vicina al centro, per percorsi casuali di incontri di corpi e brandelli di Dna che hanno determinato la pigmentazione della mia pelle e la mia collocazione geografica, che si riverbera anche sul­ le minori probabilità di essere arrestata ed entrare in prigione a parità di violazione della legge. Sono «al di fuori» del margine, perché è nel privilegio che mi trovo (e in cui ci troviamo tutte e tutti noi che condividiamo le stesse geografie, o come diceva Doreen Massey, le «geografie della responsabilità») ma è da tale posizione che si possono tracciare e costruire quegli scambi di sorellanza – intesa come pratica di solidarietà, di alleanza, ossia una convergenza di interessi e sentimenti sul mondo – che rendono possibile un noi.

    Da qui posso costruire quei ponti di incontro con il lì di Angela Davis, tratteggiare connessioni tra il suo lavoro – la sua esperienza di vita che diventa ricerca, studio, prassi politica e analisi dei fenomeni – e quanto accade nel contesto italiano, nel penitenziario italiano. Lo posso fare sempre da outsider, ma con un’alleanza sui diritti e sulle tutele che avvicina il dentro al fuori, permettendo di individuare le distorsioni del potere che abitano gli spazi di coercizione.

    […] Se Davis in queste pagine racconta la genealogia del processo di incarcerazione americano per arrivare a suggerirne l’abolizione, ossia un radicale stravolgimento del pensiero sulla penalità, tale riflessione non rimane situata solo nel contesto statunitense, ma trova riverberi nelle recenti trasformazioni del penitenziario italiano, attraversato da contraddizioni e convergenze che rendono Aboliamo le prigioni? un testo attuale e necessario.

    […]  Negli ultimi ventitré anni, infatti, nonostante gli interventi straordinari appena evocati, la popolazione carceraria italiana ha sempre superato la soglia della capienza delle strutture detentive, e nemmeno una grande emergenza sanitaria, come la recente pandemia, ha permesso di scendere sotto la capienza regolamentare. […] Oltre al sovraffollamento, il secondo elemento che accomuna il penitenziario italiano e quello statunitense raccontato da Davis è la sovrarappresentazione della popolazione migrante, che in carcere si attesta sul 32%, ma che supera il 50% in un quarto dei penitenziari italiani, a fronte di una presenza nazionale degli stranieri pari a circa l’8,7% della popolazione. In altre parole, come negli Stati Uniti, anche in Italia gli stranieri hanno più chance di finire in carcere, di rimanerci per più tempo e faticare di più ad uscirne rispetto agli autoctoni. […] Questo meccanismo è stato descritto come complementare e funzionale alle forme di razzismo strutturale. Negli Stati Uniti il dibattito sulla colonialità del carcere ha radici lontane, anche perché la carcerazione politica dei movimenti anti­apartheid ha permesso un’elaborazione ricca e diffusa, «da dentro», intorno al pregiudizio applicato nello spazio penitenziario e serpeggiante in ogni par­te della società – elaborazione che si ritrova in tutto il percorso riflessivo di Davis.

    Il processo di segregazione razziale statunitense intreccia la storia del razzismo sistemico e delle forme di discriminazione strutturale che hanno accompagnato i periodi di schiavitù e le fasi di emancipazione successive. Sebbene l’Europa in generale, e l’Italia ancor più in particolare, abbiano visto processi differenti, i dati raccontano come il carcere in Europa sembri esso stesso lo strumento di una nuova forma di «colonizzazione», proprio per la capacità di segregare in modo così selettivo, con una forte continuità con le aree della penalità diffusa che comprendono tutte le pratiche di gestione e controllo della migrazione, in cui ricorre l’equazione tra illegalità amministrativa legata all’accesso ai documenti e ingresso nella sfera estesa della penalità. Il carcere, negli ultimi tre decenni, ha svolto una funzione osmotica, che è complementare all’aumento dell’incarcerazione. Lo spazio detentivo è stato infatti capace di assorbire tanto le spinte populiste quanto quelle emotive: allarmi sociali, campagne d’odio, conflitto orizzontale tra cittadini a seguito della crisi economica, paure ataviche e campagne identitarie. 

    A fronte di tali eventi, si può ancora pensare il carcere come spazio in grado di assolvere le funzioni che si prefigge, ossia rieducare le persone private della libertà e indirizzarle nel rispetto dei diritti, quando è lo stesso Stato, in primis, a farsi portatore di molteplici violazioni? È possibile pensare al carcere come unica alternativa percorribile per trasformare la società?

    Davis risponde chiaramente di no, anzi, evidenzia tutti i limiti dell’orizzonte sociale che trova nel penitenziario l’istituzione residuale e imprescindibile: per l’attivista e pensatrice, l’orizzonte di libertà è praticabile solo attraverso una postura abolizionista. L’abolizionismo penitenziario ha vissuto alterne fortune e, a fronte della forte radicalità della proposta, consensi tiepidi, soprattutto alla luce della debole pars construens. Eppure così come per secoli il femminismo è stato impensabile, ed è stato altrettanto impensabile smontare le strutture del patriarcato (o almeno metterle in crisi), per Davis altrettanto si può, anzi si deve fare col penitenziario. La strada tratteggiata da questo volume, ma più in generale dal corpus dei lavori di Davis, passa attraverso una trasformazione culturale e politica. L’abolizionismo si declina come lotta di classe, come pratica intersezionale e come snodo fondamentale per aspirare a una libertà piena.

    La lotta di classe è il presupposto di partenza, necessaria per poter ridurre quelle condizioni sistemiche che incidono sulle marginalità e sulle marginalizzazioni; la dimensione intersezionale è la diretta conseguenza, perché le diseguaglianze si amplificano e si estendono a partire dai corpi, dai vissuti e dalle identità multiple. Si tratta di un progetto copernicano, proprio perché si regge sul ribaltamento delle strutture di potere e sulla negazione dei discorsi che ne hanno legittimato la costruzione, mistificando la loro reale funzione di replicazione dei privilegi. Un procedimento politico e culturale che trova echi in una storia molto italiana: nel 1978 fu proprio il nostro paese a dare inizio a una trasformazione radicale, anche questa fino a un giorno prima impensabile, che ha permesso la chiusura dei manicomi, istituzione fino ad allora ritenuta insostituibile.

    I coniugi Basaglia parlano di «rovesciamento istituzionale». Il rovesciamento, nelle loro pagine, è inteso come un sovvertimento dell’ordine di potere, che si polarizza tra dominati e dominanti, ne riproduce la divisione e mistifica fini, mezzi, e di­scorsi. Nelle prassi, il rovesciamento basagliano passa attraverso diversi gradi di responsabilizzazione di tutti i soggetti che partecipano all’istituzione, unico strumento per poter conquistare spazi di libertà. La negazione istituzionale, attraverso l’assunzione di responsabilità e di una finalità comune, diventa, nelle parole degli autori, «il simbolo della lotta a ogni sistema di oppressione e sopruso».

    Il rovesciamento è una forma mentis, un risveglio che permette di vedere la filigrana delle pratiche di potere e di dominio, che può essere esteso alle diverse concezioni dell’oppressione, e che si basa proprio sulla comunanza di sguardo e sulle alleanze tra le persone per ribaltare i rapporti di forza e praticare forme di libertà. Pensare l’abolizionismo come rovesciamento è ciò che propone – che ci propone – Angela Davis con questi saggi: rovesciare le strutture di potere, riducendo le distanze, significa un primo passo per alterare le geografie della responsabilità, e rendere centro comune e condiviso ciò che è sempre stato margine. Davis tratteggia questa strada (in primis di pensiero) come l’unica possibile lotta per la libertà.

    Ragionare insieme per modificare gli spazi di potere è pratica di alleanza, e può essere obiettivo comune a prescindere dai punti di partenza. Scegliere la lente abolizionista diventa forma e sostanza della visione comune, innesco di una trasformazione necessaria che comincia disvelando e modificando le architetture del potere. Solo così può arrivare il tempo di creare e abitare le nuove forme del mondo, ridefinendo insieme il dentro e il fuori fino a farli scomparire in una desiderata unità, in una possibile alleanza trasversale.

    Note