Pubblichiamo un estratto da Per una giustizia trasformativa – Una critica alla cancel culture, libro di Adrienne Maree Brown edito da Meltemi editore. Collana Culture Radicali. Traduzione e cura di Dalla Ridda. Postfazione di Malkia Devich Cyril. Con uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.
La cancel culture e la pratica del call out sono argomenti all’ordine del giorno. Nate come strumenti al servizio di soggettività marginalizzate per rispondere al danno e alla violenza subiti in situazioni caratterizzate da un forte squilibrio di potere, sono oggi nel mirino degli avversari dei movimenti sociali radicali, rientrando tra i punti più problematici della cultura politica odierna. L’intervento critico di adrienne maree brown si inserisce nella tradizione del femminismo nero, queer e anticarcerario, mostrando un’alternativa praticabile alla denuncia degli eccessi del politicamente corretto. Un’alternativa che non guarda nostalgicamente a un passato immaginato come più spontaneo, ma a un futuro compiutamente abolizionista e politicamente desiderabile.
Ciò che mi ha spinta a pubblicare questi testi in questo modo è il fatto che ciò che desidero più di ogni altra cosa è invitarci a diventare persone abilissime ad abitare il conflitto, che è una parte sana e naturale dell’essere persone umane e biodiverse. E voglio che aiutiamo a porre fine ai cicli di danno nei confronti delle persone razzializzate, e ciò, nello spirito del Combahee River Collective, richiede che si ponga fine a questi cicli per chiunque.
So che la fine del danno può essere ancora lontana, persino inimmaginabile, ma allo stesso tempo credo che il futuro viva già in noi, perché tutte le generazioni a venire vivono nei corpi, nelle culture, nei sogni e nelle forme di coloro che vivono oggi.
Credo che un futuro in cui il danno è un’anomalia stia già mettendo radici nelle nostre comunità. So che stiamo co-creando il futuro con ogni parola, con ogni azione e con la nostra premura.
Voglio che i movimenti per la giustizia sociale e ambientale, e in particolare le frange razzializzate di questi movimenti, diventino modelli viventi di abolizionismo. Ma prima dobbiamo trovare il rigore di lottare lealmente, di scontrarci secondo principi e di mettere in pratica la presa in carico delle responsabilità al di là della punizione reciproca.
Riesco a vederlo: sul breve termine genereremo piccole sacche di movimento così irresistibilmente responsabili che persone che neanche sanno cosa sia un movimento correranno verso di noi, aspettandosi di essere accolte, nella loro integrità e imperfezione, da una comunità impegnata a crescere; sapendo che c’è un posto in questo mondo violento e punitivo che si impegna a realizzare – e già realizza – un’iterazione curativa e trasformativa della giustizia. Come ha detto Maurice Moe Mitchell, dobbiamo avere una bassa soglia d’ingresso e un alto standard di condotta.
Sul medio termine, i movimenti daranno la priorità alla costruzione di capacità, competenze e cuori grandi per accogliere nuove compagne, sperimentando nella pratica quotidiana e in profondità ciò che significa sostenere le nostre relazioni e le nostre visioni collettive, sostenere i nostri valori e adattarci allo scopo. Troveremo modi di costruire legami non limitati alla meschinità, al pettegolezzo, al settarismo, che possono essere tanto divertenti prima, quanto distruttivi poi. Diventeremo abili nelle critiche che ci rendono più profonde, nel conflitto che genera nuovi futuri e nella guarigione che cambia le condizioni materiali.
Nella visione più a lungo termine che riesco a elaborare, quando noi, fatte della stessa materia miracolosa e delle stesse limitazioni temporanee dei sistemi in cui siamo nate, inevitabilmente saremo in disaccordo o causeremo danni, risponderemo non con il rifiuto, l’esilio o l’infamia pubblica, ma con una chiara determinazione del danno; con un’educazione riguardo alle intenzioni, agli effetti e alla rottura dei pattern; con scuse e conseguenze soddisfacenti; con nuovi accordi e limiti affidabili; con risorse di guarigione a vita per tutte le persone coinvolte.
Vedo il movimento come un santuario. Non una piccola utopia perfezionista dietro chilometri di filo spinato e muri e recinzioni e controlli e giudizi e rettitudine, ma un vasto santuario dove le nostre esperienze, in quanto esseri umani che hanno subito e causato danni, sono accolte con inviti, centrati e fondati, a crescere.
In questo santuario sentiremo di aver vinto, dove “vincere” significa una guarigione intima e di massa.
Parlo di una vittoria che non si misura con la sconfitta di qualcun’altra, ma con la rottura dei cicli di abuso, danno, aggressione e oppressione sistemica.
Parlo di una vittoria che non si misura solo dall’assenza di pattern di danno, sfiducia e isolamento, ma dalla presenza di un’interdipendenza sana e di guarigione.
Un posto in cui riusciamo a essere oneste, a stabilire e rispettare limiti, a dare e ricevere scuse, a chiedere aiuto e a cambiare i nostri comportamenti.
In cui, ogni giorno, possiamo provare una sensazione di tranquillità nelle nostre viscere e di calma nelle nostre spalle e nelle nostre mascelle.
In cui abbiamo una fiducia abbastanza profonda da riuscire a crescere attraverso il conflitto, una fiducia nel fatto che le buone intenzioni possano produrre buone pratiche e ridurre radicalmente, persino eliminare, il danno. In cui possiamo fare affidamento su una pratica così regolare da non dover più essere vigili, da non dover più sorvegliare e punire all’interno delle nostre comunità.
Sostenere una visione del genere all’interno dei movimenti, in questo momento, ha significato avere contezza non solo di ciò che è punitivo, ma anche di ciò che comporta una giubilante emarginazione, vendetta o punizione nei confronti delle altre, in particolare quando queste cose rafforzano il nostro senso di appartenenza, di solito per poco, fino a quando anche noi non facciamo una cazzata.
Significa prestare attenzione a dove sentiamo e/o pratichiamo controllo e sorveglianza al di fuori dello Stato.
Ha significato desiderare una chiarezza collettiva maggiore su cosa intendiamo per conflitto, per danno, per abuso. Dobbiamo essere più precise sul linguaggio che utilizziamo collettivamente.
Ha significato cercare di capire ciò che è necessario per la guarigione, cercare di comprendere come possiamo diventare una generazione che impara a essere soddisfatta dalla propria guarigione.
Ha significato rallentare le nostre prime reazioni collettive, in modo che alla violenza non si risponda con altra violenza, ma con conseguenze alternative e soddisfacenti che si traducano in una riduzione del danno.
Ha significato percepire ciò che non è in linea con l’abolizionismo, ma anche ciò che può voler dire giustizia trasformativa e amore radicale in azione.
Affinché i nostri movimenti siano radicati nell’amore, dobbiamo essere in grado di intrattenere conversazioni come sopravviventi, pensatrici, lavoratrici e plasmatrici del futuro, un futuro in cui tutte le nostre esperienze possono alimentare il nostro apprendimento. L’abolizionismo è l’idea con cui risuono di più, sia come sopravvivente che vuole spezzare i cicli di danno, sia come umana che vuole appartenere alla sua specie, al suo pianeta, al suo tempo nel cammino evolutivo.
È il nostro tempo ed è nostra responsabilità provare qualcosa di diverso.
Adrienne Maree Brown è una scrittrice femminista e attivista per la liberazione nera. A Detroit, dove ha vissuto, ha collaborato con diverse organizzazioni che si occupano di giustizia sociale. Dai suoi scritti su sesso, guarigione, cura di sé, traumi e fantascienza emerge uno stile acclamato dalla critica come afrofuturismo. Tra le sue opere ricordiamo Pleasure Activism (2 voll., 2022 e 2023).
Dalla Ridda è un progetto di ricerca transfemminista queer e indipendente di Bologna. Ha organizzato iniziative sperimentali intorno ai temi della giustizia trasformativa, del consenso, delle sostanze psicoattive, della teoria crip e della politica delle neurodivergenze, delle relazioni sessuo-affettive, del lavoro di cura e dell’infanzia.
L’edizione italiana è accompagnata da uno scritto del collettivo transfemminista queer Laboratorio Smaschieramenti, che sviluppa una riflessione materialista e ancorata al nostro contesto nazionale sulla violenza nelle relazioni interpersonali. Lo riportiamo di seguito.
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