L’importanza della comunità nel secolo della solitudine

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    Quanto tempo abbiamo passato da soli, in questi ultimi due anni? E come è andata?

    Per molti, la solitudine è uno stato di necessità, doloroso e difficile da sostenere. Per altri invece, parafrasando i Tame Impala, è persino fonte di gioia: 

    Space around me where my soul can breathe

    I’ve got body that my mind can leave

    Nothing else matters, I don’t care what I miss

    Company’s okay

    Solitude is bliss

    (Tame Impala, Solitude is Bliss)

    A pensarci bene, però, comunemente la solitudine viene associata a qualcosa di negativo e non desiderabile. Per chi sappiamo essere solo, anche per scelta, istintivamente siamo comunque portati a provare tristezza, quando non addirittura pena. Anche per chi è solo volontariamente, e dalla solitudine prova gioia: come se queste persone fossero “strane” (qualunque cosa voglia dire). Delle anomalie. 

    A causa della pandemia, la solitudine – attraverso suo cugino, il significante sanitario “isolamento” – ha per certi versi subìto un’operazione di inversione semantica. Essere isolati, da soli, distanziarsi fisicamente dalle altre persone ha, almeno in parte, smesso di essere visto in maniera stigmatizzante ed assunto per certi versi un tratto quasi salvifico. La paura dell’altro come portatore di malattia si è incardinata nelle nostre pratiche sociali e inconsapevolmente ci ha tutti ammalati. Ma è davvero un lascito della pandemia? Oppure, ancora, la pandemia ha accentuato e sanitarizzato un processo culturale e sociale che esisteva già prima di essa, congenito alla natura della società del tardo capitalismo e del ventunesimo secolo?

    Secondo Noreena Hertz, autrice del libro Il secolo della solitudine, è proprio la socializzazione della solitudine ad essere causa e spiegazione di alcuni dei fenomeni più rilevanti di questi primi due decenni degli anni 2000. Sulla scia di Zygmunt Bauman, Hertz sostiene che la solitudine sia un prodotto della disgregazione del senso di comunità imposta da decenni di neoliberismo sfrenato, che ha portato a vederci l’un l’altra come individui e non come collettività, trasformandoci così da esseri sociali in piccoli imprenditori che competono su un mercato. Con il risultato, tra gli altri, che movimenti populisti che fondano la loro ragione d’esistere sulla paura dell’altro, sul rifiuto del diverso, sull’isolamento – culturale prima che fisico – hanno trovato terreno fertile per il proprio successo. Da Trump alla Brexit sino al proliferare di partiti xenofobi e movimenti d’opinione anti-immigrazione, è la solitudine ad essere il carburante sociale invisibile che alimenta questi fenomeni, sostiene Hertz. Questi approfittano della solitudine come psicopatologia sociale, parafrasando Mark Fisher, e trovano campo per colonizzare spazi politici, culturali ed emotivi. 

    Da questo assunto discendono una serie di racconti, in forma di saggio, che si sviluppano attraverso capitoli agili e piacevoli da inanellare. Molti di questi sono tenuti insieme però da un secondo fil rouge: la tecnologia. Quando usiamo i social network per comunicare, quando è un algoritmo a selezionare il nostro profilo per un colloquio di lavoro, la tecnologia, sostiene Hertz, è elemento decisivo nel processo di socializzazione della solitudine. Con un argomento che ricorda da vicino – e talvolta lo evoca espressamente – quello, celebre, di Sherry Turkle, secondo cui la tecnologia ci porta ad essere ‘insieme ma soli’, Hertz racconta la tecnologia come sostituto del sociale e prodotto di secondo livello dello stesso, che in buona sostanza desocializza sostanzialmente le nostre relazioni, mediandole. C’è un sottotesto ‘dualista’ nel modo in cui Hertz vede le relazioni sociali mediate dalla tecnologia: quando racconta delle forme di shopping online, o dei robot da compagnia, la narrazione implicitamente distingue tra relazioni buone e cattive, tra reale e digitale come non reale, in maniera, se vogliamo, un po’ nostalgico-luddista. 

    La solitudine è un prodotto della disgregazione del senso di comunità imposta da decenni di neoliberismo sfrenato.

    Il racconto di Hertz mi ha ricordato la definizione di tecnologia come pharmakon, a un tempo rimedio e veleno, che fa Bernard Stiegler in Technics and Time, riprendendo Jacques Derrida. Come una medicina, la tecnologia è rimedio e cura perché ci permette di risolvere problemi, sperimentare cose precedentemente impensabili, e per alcuni aspetti semplificarci la vita. E però, allo stesso tempo, è anche veleno, perché mentre lo fa, ci contamina un poco, avvelenando la nostra (presunta) condizione sociale ed umana originale. Come un medicinale, la tecnologia presenta possibili controindicazioni. Leggere attentamente le avvertenze. Cosa che, invero, con la tecnologia nel sociale capita molto raramente. 

    Questo pharmakon, per mantenerci nel campo stiegleriano, secondo Hertz concorre alla dimensione psicopatologica della solitudine come malattia sociale, e ne è cura molto parziale. La tecnologia ed alcuni fenomeni sociali ad essa cugini, come il co-working e il co-housing, mettono al centro il significante ‘comunità’ ma sono, nella descrizione di Hertz, forme di “we-washing”, che propongono forme di solidarietà non reale o, al meglio, non paragonabile a quella reale. E però, così come altre psicopatologie del sociale, ad esempio la nostalgia, la solitudine è a un tempo un sentimento individuale e condiviso, che divide tanto quanto unisce. Che sia per scelta o per necessità, quando si è soli si è fisicamente soli ma spiritualmente insieme a tutte le altre persone che sono sole. Chi è solo per necessità, o per dolore, pensa alle persone che condividono la sua situazione, per sentirsi meno solo. Chi è solo per scelta, allo stesso modo, pensa a coloro che coltivano lo stesso amore per la solitudine, per non sentirsi diverso e alieno dagli altri, da quelli “normali” (qualunque cosa voglia dire) che invece soli non amano starci. 

    Per quanto non condivida questo sottotesto dualista e un po’ nostalgico in relazione alla tecnologia, Il secolo della solitudine di Noreena Hertz rappresenta un contributo importante nel farci cogliere l’osmosi tra solitudine e agire sociale, e ci invita a non semplificarne la narrazione. Toccando questioni fondamentali come il lavoro e la democrazia, Hertz ben evidenzia il cortocircuito dell’architettura capitalista neoliberale ed il suo stadio terminale, sottolineandone la necessità di un ripensamento complessivo.

    Per Hertz, questo deve partire dalle comunità: riunirsi, riconciliare cura e compassione, agire sulle relazioni di produzione – occuparsi della malattia e non del sintomo. Questo vale oggi più che mai, tra una pandemia in esaurimento ma comunque viva, che lascia in eredità importanti strascichi sociali, economici e psicologici, e una guerra insensata dall’altra parte della strada, destinata a crearne altri, ed esacerbare quelli esistenti. 

    Note