Che cos’è Macao

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    Macao risponde a nome del Nuovo Centro per le Arti, la cultura e la ricerca Macao alle 15 domande di cheFare sui nuovi modi di fare cultura. È una rubrica pensata per dare una rappresentazione del panorama delle nuove realtà culturali dal basso collegate tra loro dalla rete di cui facciamo anche noi.
    Per leggere le altre interviste vai qui.

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    Perché Macao si chiama Macao?
    Siamo sicuri che è un acronimo, ma sappiamo che ce ne sono molte versioni.

    Quando è nato?
    Nel 2012

    Dove?
    Per strada

    Perché?
    Perché gli artisti avevano capito di essere diventati un modello di sfruttamento che avrebbe rivoluzionato il mercato del lavoro globale. Essere flessibili, smart, creativi, docili, connessi e senza un euro sarebbe diventato il nuovo modo per farsi sfruttare a vita. Perché c’era voglia di riappropriarsi del proprio futuro e degli spazi per poterlo immaginare.

    Che fa Macao?
    E’ un’assemblea aperta di collettivi, amiche e amici, singol* artist* e attivist* che co-disegnano un programma pubblico d’arte e di ricerca. Ora è un palazzo magnifico e decadente, in cui le muffe convivono con i topi e gli studenti, i senzatetto e i musicisti, i richiedenti asilo e gli economisti. E’ un modo di aiutarsi a vicenda, sostenersi economicamente col mutuo aiuto, e inventare forme organizzative nuove basate sulla solidarietà, anti-capitaliste e transfemministe.

    La cosa più importante che ha fatto Macao
    Sono due. Prima ha fatto dimenticare alla gente di tornare a casa. Adesso vuole inventare una nuova forma di proprietà comune, non più vendibile, per sempre accessibile, senza titolari che comandano.

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    Perché sono le più importanti?
    Perché il personale è politico. E perché questa nuova forma di proprietà comune farà di Milano un esempio di audacia e innovazione

    Cosa c’è di innovativo nel dimenticarsi di tornare a casa?
    Per inventare un mondo post-capitalista, post-lavorista, sostenibile e cooperante ci vogliono momenti simbolici di rottura radicali. Dobbiamo saperci dimenticare di come siamo abituati a comportarci. Per questo è importante avere spazi in cui ci si dimentica di tornare a casa.

    Cosa c’entra la cultura con questa esperienza?
    Be’, è evidente. La cultura è il modo in cui vedi il mondo. Se vuoi vedere un mondo diverso da questo, devi allenare lo sguardo. Etica e Estetica, il modo in cui ci comportiamo e il modo in cui vediamo o sentiamo, non sono poi così distanti.

    Quali sono le ricadute sociali di questa esperienza?
    Si attirano molte persone, perché hanno voglia di esprimersi, perché cercano sostegno economico e perché capiscono che è un modo radicale di mettere in discussione la propria vita.   

    Leggi anche l’articolo  Milano può fare a meno di Macao? di Bertram Niessen

    Con Macao si mangia?
    Si mangiano le verdure dei produttori indipendenti, le marmellate di Rinaldo, le arance della Sicilia e l’olio della Puglia comprate in Commoncoin e in Faircoin (monete alternative che negli anni ci siamo inventati). Tutti gli artisti del programma vengono pagati. In più distribuiamo un reddito di base a tutti i partecipanti. Macao non basta per vivere, ma il sistema di redistribuzione solidale di beni e servizi ci permette di essere più liberi e di poter rifiutare qualche lavoro di merda in più.

    Come fate a stare in piedi?
    Non stiamo solo in piedi. Stiamo anche coricati, a volte ci rotoliamo nel fango. Sappiamo fare anche la verticale sulla testa. Abbiamo occupato il grattacielo di Ligresti, abbiamo proposto di fare il nuovo museo della Grande Brera, vogliamo comprare un edificio milionario senza avere un soldo, e davvero non scherziamo. Abbiamo centinaia di tesi di laurea e dottorato dedicate al nostro modello di organizzazione culturale ed economico… Per cui spesso abbiamo dei cali di pressione, ci consigliano di stare un po’ seduti e tirare in alto le gambe per fare andare il sangue alla testa.

    Qual è l’ostacolo più grande che volete superare?
    Ciò che impedisce di essere felici o di eliminare la violenza di genere ed essere sostenibili.

    Fate parte di un network più grande di voi?
    Sì. Non solo di uno ma di tanti. Alcuni sono fatti di legami intensi, altri sono più di formali.
    Prima di tutto gli artisti, gli amici, gli intellettuali, gli altri esercenti del quartiere e della città. Poi la rete dei teatri occupati italiana, o quel che ne rimane. Nonunadimeno e tanti collettivi femministi e transfemministi. I movimenti per la lotta ambientale e il network globale di Faircoop e Bank of the Commons. L’Institute of Radical Imagination: una piattaforma di grandi musei e nuovi centri d’arte per un mondo post-capitalistico. Tante università e progetti sparsi per il mondo.
    Organizzare le reti è la sfida del secolo e  quello che conta è la qualità delle relazioni che si si instaurano.

    Cosa avete intenzione di fare per creare un futuro migliore?
    Non saprei… una festa è meno impegnativa di un’assemblea, ma sono tempi bui… e ci si accontenta anche di poco: basterebbe farla finita con sessismo e razzismo, e introdurre un vero reddito universale di esistenza.


    Tutte le foto sono di Luca Chiaudano

    Note