Il pubblico nel grande rumore del mondo

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    Il filosofo Paul Ricoeur sosteneva che ciascun individuo provvede ad una costruzione dialogica di sé, sottolineando che, per costruire una identità, non conta che il racconto su cui questa si fonda sia vero o falso. L’importante è che sia efficace.

    Questa visione elaborata dallo studioso francese rivela la natura misteriosa e per certi versi romantica della mente umana, che crea giorno per giorno un enorme, affascinante racconto filtrato da una personalissima selezione di ricordi non necessariamente attendibile. Una sorta di memoria dell’oblio che deforma eventi, parole ed emozioni.

    Ripensavo a questa riflessione all’uscita da un concerto in cui, come sempre, nella generale marea luminescente di display, mi sono imbattuta nella diretta Facebook di un ragazzo che si trovava davanti a me. L’istinto immediato di sottrarmi a quella visione per godere di ciò che stava accadendo sul palco ha lasciato per un po’ il posto alla curiosità di vedere cosa succedesse al di là dello schermo, a chi potesse interessare (nomi e cognomi alla mano) quella documentazione scientifica, che comunque costava uno sforzo fisico al ragazzo sotto il palco. Improvvisamente mi sono ritrovata a guardare il concerto attraverso quello schermo, anch’io parte di quella catena molto simile al Centipede umano teorizzato da Tom Six, quel corpo multiforme dall’unico apparato digerente.

    Cosa spinge il pubblico pagante a disperdere energie nella cura delle inquadrature, nella ricerca di una filmicità estrema di un’esperienza che dovrebbe essere prima di tutto collettiva? Quanto questo nuovo approccio alla performance musicale ne modifica l’esperienza sensoriale?

    Il pubblico ha assunto le sembianze di una macchina percettiva irreprensibile che, senza tregua, filma, archivia, condivide. Una vera e propria mutazione antropologica dello spettatore.

    Mash-up, confusione, grande rumore del mondo

    L’immagine di un essere umano col braccio teso, intento a riprendere una esibizione musicale, è sicuramente una visione antiestetica, che tuttavia ci rimanda a un rinnovato rapporto tra musica e pubblico sul quale bisognerebbe riflettere senza troppa severità di giudizio. Basti pensare a come nel giro di un decennio sia cambiato il rapporto con la dimensionalità del suono e alla differenza di aspettative in un live tra un qualsiasi ragazzo nato negli anni Novanta e il proprio padre. Un diciottenne che comprava un biglietto per il concerto degli Yes, dei Genesis o di David Bowie conosceva a memoria ogni singola traccia e si aspettava una versione chiaramente differente. Il paesaggio musicale di un adolescente degli anni Ottanta che andava a un concerto, ad esempio di Michael Jackson, era già completamente stravolto: il live non era altro che un esercizio di fedeltà assoluta della studio version.

    Da diversi anni quando si parla di musica si fa un uso sempre più largo di aggettivi quali trasversale, di confine, contaminato. Questi ultimi dieci anni hanno visto di fatto un intenso scambio tra spazi concettuali e spazi fisici. Contemporaneamente l’accelerazione della circolazione delle informazioni promossa dai media digitali ha contribuito notevolmente ad amplificare la nozione di un iperspazio senza frontiere, senza confini.

    Viviamo nell’epoca del mash-up, in cui la gratuità dell’arte e della musica in particolare (Soundcloud, Bandcamp, Spotify) permette una accessibilità vorace e repentina a generi e artisti profondamente diversi tra loro. In uno scroll puoi passare dalla filosofia del suono di Lawerence English ai selfie di Gianni Morandi e magari riuscire a stabilire un punto di accordo tra le due cose.

    In passato il genere rappresentava un dogmatismo esistenziale (esisteva una sorta di inappellabilità all’essere John Cale, ad esempio), oggi un qualsiasi canale Youtube, Facebook o Instagram rappresenta un nuovo tavolo chimico in cui trovare nuove soluzioni e i cui alambicchi sono anche le dirette Facebook, il trovarsi qui e altrove nello stesso tempo, l’avere tutto frontale con l’abbattimento delle distanze.

    La distanza (psicologica e geografica) era ciò che manteneva integra l’identità estetica, mentre oggi la continua contaminazione dei generi, ha portato a un abbattimento delle barriere percettive e ad una sfrontata confidenza nei confronti dell’artista. La componente del registrabile e la condivisione dalle applicazioni ha trasformato lo spettatore in artefice di una sua personale mitologia esistenziale portatile, della quale egli stesso diventa il protagonista agli occhi di altri spettatori. Un fenomeno di autocannibalismo che rappresenta una nuova prova con la propria percezione.

    Della mitologia, della normalità

    Il risultato finale, o almeno quello attuale, si presenta come una impietosa discesa negli inferi della normalità, dove all’artista non si chiede altro che mostrare il proprio lato “umano”. L’arte si ritrova costretta a un perverso tu per tu con il proprio pubblico, a seguirne le sue regole e a disintegrare progressivamente l’immagine iconica della rockstar.

    Della mitologia del musicista oggi forse non resta alcuna traccia. Tutto quello che si richiama alla sacralità del performer, infatti, fa sempre riferimento a un tempo e a un luogo già passati. Ed è quello che succede, ad esempio, con Nick Cave che abbraccia il pubblico per un rito quasi liturgico, un momento immortale che può essere “immortalato”: è l’idea di culmine e di cristallizzazione del culmine che muove tutto. Immortalare la “classicità in vita”, cercare di essere testimoni di quel che ognuno reputa il meglio, è giocare a creare il proprio canone. Qualcosa di molto più profondo che ci ricorda quanto l’arte dovrebbe essere non un semplice strumento consolatorio e di autocompiacimento, ma piuttosto la potenza creatrice del sogno e della sua inaccessibilità.

    Note