In ogni futuro settembre

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    “Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
    Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…” 

    Pier Paolo Pasolini

     

    “Settembre è il mese del ripensamento / sugli anni e sull’età”, cantava Francesco Guccini. Temo che  in questo settembre ci sarà poco spazio per la nostalgia. Prima di tutto dovremo provare a gestire un’angoscia multistrato, nutrita dai media. L’elenco lo conosciamo tutti, fin troppo bene: lo stallo della sinistra e l’avanzata della destra post-fascista; una democrazia erosa dalle spinte populiste ma anche dalla sondaggite e dalla “dittatura dell’algoritmo”; uno scenario geopolitico angosciante, con immediate ricadute nelle nostre vite quotidiane, a partire dal rincaro – o dall’embargo – delle materie prime, che ci fanno pagare con gli interessi i costi della globalizzazione… Poi le disuguaglianze crescenti, le guerre (quelle con le armi, quelle economiche e quelle climatiche) che creano  un’umanità di migranti, mossi dalla disperazione e dal desiderio… Gli effetti della pandemia e il debito che i cittadini italiano hanno contratto con il PNRR. E soprattutto la crisi ambientale, che pare diventata soprattutto strumento di marketing per le multinazionali e per le pop star. 

    A settembre, con queste ombre si materializzeranno davanti a noi, le combatteremo quotidianamente sul fronte della cronaca, ma forse siamo noi, europei privilegiati e anziani (anche le ultime generazioni, con tutte le loro incertezze e i loro lamenti, sono “vecchie” e privilegiate), a non vedere che ci può e ci deve essere una speranza, anche se non riusciamo a vederne la luce, mentre osserviamo cinici le macerie delle città ucraine sugli schermi dei nostri smartphone.

    Risponderemo agli appelli, coltiveremo l’indignazione e la rabbia. Penseremo che per l’ennesima volta un paese come l’Italia ha perso una occasione per diventare “moderno”: che sia l’evoluzione tecno-capitalista alla Craxi o alla Draghi, oppure gli slanci democratici dei movimenti per i diritti (economici e non solo),  l’antropologia italiana resta quella. Il fascismo non è una parentesi della nostra storia, ma il riflesso condizionato di una società profondamente conservatrice, spaventata dal cambiamento, ciascuno attento a custodire le certezze e i privilegi (veri o presunti), in un mondo in rapidissima evoluzione. La risposta della destra è chiara: un impossibile ritorno al passato, riportare indietro le lancette della storia, fissarsi su un’identità che non è mai esistita, se non nelle allucinazioni imperiali di Mussolini e in quelle localistiche di Bossi, o in chissà quali radici “cristiane”.

    In questo panorama, banalizzato e semplificato per amor di polemica, che spazio resta per la militanza culturale?

    Stiamo già vivendo una campagna elettorale frettolosa e brutale, dove i programmi in generale – quelli per la cultura in particolare – avranno un ruolo marginale. Per la cultura, troveranno spazio i soliti luoghi comuni: siamo il paese con il maggior numero di siti UNESCO, la cultura e la bellezza sono l’identità italiana, dalla Divina Commedia al melodramma, da Federico Fellini a Elena Ferrante, il patrimonio è il nostro “petrolio”, servono sinergie con il turismo e  l’agricoltura…

    Del resto, che può dire una delle classi dirigenti più ignoranti d’Europa (statistiche alla mano) in tema di cultura? E che possiamo dire noi, donne e uomini impegnati in questo settore?

    Lo scenario è desolante.

    Consumi culturali tra i più bassi d’Europa. 

    Una cultura di consumo che sforna prodotti anestetici e trova la modalità ideale nell’ipnosi tremula del binge watching. 

    Una cultura “alta” (e scolastica) che resta  chiusa nelle sue torri d’avorio e parla a una minoranza sempre più anziana e risicata. Che non riesce a capire che il mondo è cambiato e che il “canone occidentale” (e maschio e bianco eccetera) non può più funzionare, ma le quote e il politicamente corretto possono essere letali.

    Una cultura apparentemente innovativa, figlia delle avanguardie del Novecento, si è chiusa nelle sue riserve indiane e nelle sue piccole rendite di posizione. E se va bene offre consumi per microtarget da “coda lunga”. 

    Un’informazione “di regime” (i giornali e la tv generalista per la terza età, ormai) e l’irritazione tossica delle fake news (per grandi e piccini) che arrivano dai social, che sono ormai lo strumento di propaganda preferito da dittature e demokrature per costruire il consenso e prevenire il dissenso.

    La rete, ultima utopia democratica, è ormai terreno di caccia delle multinazionali più avide di sempre, dominate da soggetti con evidenti difficoltà nei rapporti interpersonali, da Mark Zuckerberg a Donald Trump, per non parlare di Elon Musk.

    Gli algoritmi si preoccupano di esaudire i nostri desideri prima ancora che ne diventiamo consapevoli.

    Il sistema culturale rende complici gli artisti e i curatori, con la trappola dei bandi, dei concorsi, delle commissioni consultive e valutative, della carriera, dei premietti, delle micro-collaborazioni sottopagate o zero-pagate, ma così prestigiose…

    La visione umanista appare logora, svuotata dal suo arrogante universalismo, marginalizzata dall’ipertrofia onnivora della cultura di massa, minata nel suo stesso fondamento, l’illusione (forse) del libero arbitrio. 

    E i nostri mantra, allora?
    Ci siamo innamorati delle prossime avanguardie, e siamo stati profeti della mode mainstream.

    Abbiamo tutti coltivato l’individualismo, e ci siamo persi nel conformismo di massa per poi avvitarci nel narcisismo 

    Abbiamo predicato l’audience development, per incentivare il consumo culturale (e senza particolare successo, nella stragrande maggioranza dei casi).

    Abbiamo cantato le lodi delle professioni creative, mentre il lavoro culturale diventava un lusso per figli e figlie di papà (salvo le poche eccezioni miliardarie che legittimano il sistema).

    Abbiamo praticato diverse forme di partecipazione e creazione condivisa, facendo finta di dimenticare che è lo stesso meccanismo che sostiene il neo-capitalismo dei social e dei prosumer.

    Abbiamo lavorato alla riqualificazione dei territori attraverso la cultura e lo spettacolo, risemantizzato spazi pubblici e privati, ed è arrivata la gentryfication.

    Abbiamo innescato processi di creazione di cittadinanza attiva, nell’era dei populismi.

    Abbiamo elogiato le aspirazioni, quando l’immaginario collettivo è colonizzato da sottoprodotti sedativi.

    Abbiamo raccolto comunità provvisorie nella speranza che lasciassero qualche traccia non effimera…

    Abbiamo coltivato la cultura dei diritti, con il rischio di innescare la dittatura delle minoranze. 

    Abbiamo praticato il politicamente corretto, con il rischio di legittimare nuove forme di censura. 

    Stiamo cercando di democratizzare l’arte, sapendo che il talento e il genio non sono democratici.

    Abbiamo operato e continuiamo a operare con le migliori intenzioni e forse la realtà culturale in cui siamo immersi è la realizzazione delle nostre utopie.

    La fantascienza, con i suoi sogni di progresso e la fiducia nella tecnologia, ci annoia. Preferiamo placare la nostra angoscia nella distopia. 

    Ma qual è la società in cui vorremmo vivere? Se la cultura è la conoscenza del passato per immaginare il futuro, da lì dobbiamo partire per emanciparci dal pensiero unico.

    Nel frattempo abbiamo accumulato (e dobbiamo condividere) un insieme di conoscenze e di pratiche, forse marginali, che costituiscono un patrimonio prezioso. Non tanto per riprenderle e imitarle, ma perché offrono piccolo squarci per immaginare un mondo diverso.

    In ogni futuro settembre, a questo dobbiamo continuare a pensare. 

    Alle contraddizioni che ci lacerano e che al tempo stesso nutrono il nostro pensiero e la nostra creatività. 

    Ai desideri che dobbiamo scovare, come pepite preziose nel fango dei bisogno indotti e delle nostre nevrosi. 

    Questo dobbiamo immaginare. Nei nostri margini, nei “terzi paesaggi” in cui ci muoviamo, a partire dalla consapevolezza che l’identità non è un fatto, un dato, ma un processo, che la si definisce nello scambio e non nell’arroccamento. E poi la questione più difficile. Come de-colonizzare il nostro pensiero. Come preservare la libertà di queste fragili utopie. Come renderle sostenibili in un ambiente ostile e vorace. Come evitare di essere ridotti a moda, dunque a prodotto consumabile e rapidamente deperibile. Come coltivare il desiderio nell’età della depressione.

    In questo futuro settembre, nel frattempo, discuteremo di sistemi elettorali, di candidati, di possibili alleanze, di tradimenti. 

    Note