Nel 2001 i cosiddetti no-global scesero in strada a migliaia per le strade di Genova, per far sapere ai rappresentanti dei più potenti Stati al mondo – tutti rigorosamente maschi sopra i 50 anni – come la pensavano. Questa moltitudine sfaccettata era unita dalla contestazione di un modello di sviluppo mondiale basato sullo sfruttamento economico e affermava con forza il ripudio della guerra, l’urgenza di contrastare i cambiamenti climatici e il desiderio di un mondo più inclusivo, in cui prendersi cura delle persone e dell’intero ecosistema.
In quei giorni il processo politico che già nei mesi precedenti aveva attivato una straordinaria partecipazione popolare a Seattle, Praga e Montreal e in diverse altre città del mondo si è come interrotto: il dibattito e la spinta di tutta la società civile riunita tra i vicoli di una città dalla toponomastica complessa – giornalisti intenzionati a raccontare il cambiamento, militanti dei centri sociali, ricercatori universitari e diverse anime del mondo cattolico, solo per citarne alcuni – hanno subito un arresto violento in una vera e propria atmosfera di sospensione della democrazia, con inauditi atti di violenza. Un senso di impotenza e di frustrazione ha cominciato a serpeggiare negli animi di tutti coloro che avevano partecipato a quella manifestazione, maturando una disaffezione nei confronti dei governi e delle istituzioni.
Venti anni dopo gli stessi temi tornano a rompere il silenzio, con un’urgenza sempre più impellente, in un cambio generazionale che vede tra i principali protagonisti giovani ventenni che non hanno vissuto sulla propria pelle le contestazioni di Genova. Di nuovo emerge in modo condiviso un discorso politico che connette le sfide ambientali alle disparità di genere e alle ingiustizie economiche e sociali. Solo chi non ha vissuto sul proprio corpo alcuna discriminazione può non accorgersi, infatti, che hanno la stessa origine: l’adesione a un modello di sviluppo incentrato sulla competizione economica, sullo sfruttamento delle risorse e su un’organizzazione sociale in cui si intrecciano forme di disuguaglianza e discriminazione che, se da una parte ha migliorato la qualità della vita di molti Occidentali, sta ora evidenziando i suoi risvolti fallimentari anche per le società che ne hanno più beneficiato. Un modello ormai superato che fatica però a lasciare il passo ai prossimi futuri.
Se dal punto di vista delle rivendicazioni di un cambiamento di paradigma di sviluppo è come se il tempo si fosse fermato al 2001, c’è qualcosa che nel frattempo non ha smesso di evolvere: la tecnologia, che oggi ci consente ciò che solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. I suoi più grandi creatori, però, non si sono occupati di negoziare con le comunità di riferimento i valori che ne orientano lo sviluppo, agevolati dal fatto che nessuno, fino a poco fa, gliel’abbia mai davvero chiesto. I risultati di questo scollamento tra partecipazione pubblica e innovazione tecnologica sono di fronte agli occhi di tutti e finalmente se ne sta parlando a gran voce. Per tutte queste ragioni abbiamo sentito l’esigenza di concepire l’edizione di Art+b=love(?) Festival 2022 come luogo di attivismi, inteso come partecipazione alla costruzione dei prossimi futuri possibili.
Si sente infatti sempre più spesso nelle discussioni dei filosofi e degli scienziati, degli imprenditori e dei politici che “Viviamo in un mondo complesso”, ma che cosa significa di preciso?
Il mondo evidentemente è sempre lo stesso da milioni di anni, quello che sta cambiando è il modo in cui noi lo vogliamo interrogare, sperando di ottenere risposte che ci aiutino quantomeno a preservarlo dalle grandi crisi economiche, climatiche e dalle guerre.
Con una sorta di salto quantico ci si orienta a pensare che, per capire il mondo, sia più utile concentrare le energie invece che sullo studio di fenomeni separati, sulle relazioni che esistono tra di loro, essendo l’uomo una variabile cruciale di queste relazioni. Tale studio prevede ancora e in maniera sempre più elaborata l’utilizzo della tecnologia e delle competenze scientifiche. Tuttavia, quando si parla delle relazioni tra l’uomo e la natura, non si può fare a meno del sapere umanistico, che consente di ampliare la nostra conoscenza in ambiti di ricerca che non utilizzano modelli matematici e che non sono parametrati sull’efficienza. Vale a dire quella conoscenza che, per inciso, ci differenzia dalle macchine.
Si assiste sempre più frequentemente a quella riconciliazione tra discipline che aveva rappresentato la cifra del Rinascimento e poi perduta con la Rivoluzione industriale, che scommetteva in un’idea di progresso tutto sommato lineare e che faceva affidamento allo sviluppo tecnologico come principale motore di una crescita intesa come mera accumulazione di capitali.
È questa, forse, la ragione più forte per dire che siamo di fronte a un potenziale Nuovo Rinascimento, o a un New European Bauhaus (NEB), come la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha recentemente definito il movimento che dovrà guidare la transizione ecologica europea. È dentro questo nuovo paradigma di conoscenza e grazie allo sviluppo di discipline come l’intelligenza artificiale, che si stanno sviluppando numerosi progetti ecosistemici che vedono impegnati insieme cittadini, imprese e organizzazioni non profit, centri di ricerca scientifica e artisti impegnati a pensare le relazioni tra l’uomo, la natura e le macchine. Si tratta di un forte stimolo a immaginare le tecnologie come strumenti di cui tutti siamo in pari dovere responsabili e a pari diritto soggetti attivi.
Se la pervasività dei dispositivi tecnologici influenza sempre di più le decisioni individuali e collettive è importante che ogni persona – anche chi non aveva dimestichezza con la matematica a scuola – impari a capire di cosa si tratta. L’arte, specialmente se pubblica, ha un ruolo essenziale in questo contesto, perché scatena interesse, accende il confronto e produce visioni. Per capirne il potere basti ricordare l’ultimo celeberrimo Arco di Trionfo Impacchettato di Christo, che ha mobilitato e affascinato centinaia di migliaia tra Parigini e turisti, e milioni di persone online. È necessario, allora, incentivare sempre di più momenti di confronto in cui l’arte dialoghi con gli altri campi del sapere, formando tutti all’utilizzo critico delle tecnologie e stimolando la partecipazione alla vita pubblica e al dialogo grazie allo stupore che sa scatenare. Sulla scorta di queste premesse stanno nascendo in diverse parti d’Europa, anche grazie a storici centri di ricerca transdisciplinari come Ars Electronica, esperienze di questa natura.
Anche in Italia si stanno facendo dei passi in questa direzione: ne è una dimostrazione il confronto pubblico avvenuto solo pochi giorni fa alla Camera dei Deputati, organizzato dal Gruppo Interparlamentare sull’Intelligenza Artificiale coordinato dall’on. Fusacchia, che ha visto riuniti esperti di varie discipline convinti della necessità di ricostruire un dialogo interrotto da troppo tempo.
Oppure AI4FUTURE, una rete di urban labs dislocata tra Milano, Cagliari, Barcellona e Rotterdam, in cui gruppi di giovani attivisti locali sono stati coinvolti nel ridefinire il concetto di mobilità insieme ad artisti esperti di intelligenza artificiale: insieme costruiranno i futuri desiderati per le nostre città, esplorando ambienti phygital e imparando a selezionare dati in maniera critica.
È in questo modo che il New European Bauhaus potrà prendere corpo nelle vite delle persone e diventare il pilastro di una comune identità europea. Tanto più in un’Europa che in questi giorni di conflitto sente l’urgenza di trovare una propria via che sia alternativa a quella delle altre superpotenze, e che potrà farlo incentivando uno sviluppo che non sia solo tecnologico, ma che sia bello, sostenibile ed inclusivo, per cercare democraticamente risposte nel mondo complesso in cui viviamo.