CivICa, il percorso di Compagnia di San Paolo sull’innovazione civica
Stiamo vivendo un momento storico in cui gli spazi di cittadinanza si stanno rapidamente riducendo: discriminazioni, disuguaglianze e disparità sociale stanno portando al limite un tessuto sociale di comunità che ora, più che mai, chiede a gran voce di essere ascoltato.
In questo scenario, la Compagnia di San Paolo ha voluto aprire nuovi fronti di riflessione sul rapporto tra la cultura e l’innovazione civica, prima con l’esperienza nella realizzazione del Polo del ‘900 e successivamente con il bando CivICa, nato per stimolare le pratiche di innovazione civica, ovvero progetti e sperimentazioni di comunità che promuovono la coesione sociale e favoriscono la consapevolezza sui diritti individuali, civili e sociali.
Un’attenzione che prosegue oggi con un percorso nato all’interno di CivICa e frutto della collaborazione tra cheFare e Compagnia di San Paolo su questi temi, nel quale si colloca questo articolo.
In questo percorso sociologi, ricercatori e operatori culturali esploreranno il senso degli spazi di cittadinanza nel contemporaneo e racconteranno le loro esperienze di innovazione civica.
Viviamo in un momento in cui gli spazi di cittadinanza sono in brutale contrazione, mentre si espande una voglia confusa e pericolosa di interpretazioni regressive dell’identità collettiva. Oggi più che mai, quindi, ha senso provare a chiederci cosa significa trasformare i modi e le forme con cui definiamo la sfera civica. In altri termini, come fare innovazione civica.
Per farlo, proviamo a chiederci cosa diciamo quando diciamo ‘Noi’.
È la domanda alla quale provò a rispondere il filosofo John Dewey quando, nel 1916, definì il ‘Noi’ come un’identità dinamica che si articola attraverso la dialettica con le molteplicità di storie, culture, biografie e identità con le quali entra in contatto. È uno sguardo, quello di Dewey, situato in un luogo e in un momento ben precisi. Negli Stati Uniti dell’inizio del ‘900, cercava di capire come costruire e abitare le istituzioni di una nazione nata da una molteplicità di ondate migratorie. Chi erano gli Americani? I discendenti dei Padri Pellegrini? I discendenti dei neri portati in catene? Gli italiani appena arrivati o i cinesi morti come mosche per costruire le ferrovie?
Innovazione civica: creare appartenenza senza creare esclusione
Nella bella introduzione alla versione italiana del testo di Dewey, il sociologo Stefano Laffi osserva «La questione di oggi è la stessa che si pone Dewey nel suo saggio, è quella del ‘noi’: come fondarlo senza mitizzarlo, come creare appartenenza senza esclusione, come renderlo permeabile e sempre attraversabile.» E ancora: «Un paese composto da immigrati di paesi diversi, fin dalle origini misto per nazionalità di provenienza, religione, cultura, perché mai deve fingere un’omogeneità interna in nome della contrapposizione ad un nemico?».
La modernità è stata, per definizione, l’epoca dell’interrogazione collettiva sulla forma del ‘Noi’.
Le città moderne si sono costituite come spazi di cittadinanza in espansione dove gli individui hanno tentato di abbandonare le comunità tradizionali delle campagne – con la loro coesione viscosa fatta di omogeneità di valori e orizzonti – confluendo in ‘Noi’ sempre più grandi e proiettati verso il futuro.
Le ubriacature totalitarie del ‘900 non sono state altro che il tentativo di ingegnerizzare dei ‘Noi’ «puri» attraverso forme di violenza sistemica: la produzione di identità collettive artificiali attraverso l’eliminazione di ciò che non appare conforme.
I movimenti sociali della seconda metà del ‘900, in Occidente e soprattutto nei processi di de-colonizzazione, hanno allargato la base del ‘Noi’ coinvolgendo identità individuali e collettive che per lungo tempo erano state voci silenziate, represse o marginalizzate.
Oggi, in linea con lo Zeitgeist, quando guardiamo alle pratiche che vengono definite come innovazione civica ci imbattiamo innanzitutto nella sfera tecnologica.
Siamo forse un ‘Noi’ perché siamo connessi?
Coerentemente con la cornice culturale dalla quale sono nate (la prima epoca Obama, caratterizzata da una forma di ottimismo tecnologico che strizzava l’occhio all’Ideologia Californiana), le forme di innovazione civica statunitensi oggi più conosciute sono state in buona parte forme di innovazione tecnologica della governance urbana: soluzioni organizzative smart all’interno della Pubblica Amministrazione; start-up che sperimentano forme di partnership pubblico-privato; nuovi modi di gestire la massa emergente di open data e big data prodotti su scala urbana da un numero crescente di dispositivi sempre connessi.
In quest’ottica, è stata definita come ‘innovazione civica’ ogni “nuova idea, tecnologia o metodologia che sfida e migliora i processi e i sistemi esistenti, migliorando di conseguenza le vite dei cittadini o la funzionalità della società nella quale vivono”.
Questo approccio orientato prima di tutto all’efficienza è stato oggetto di numerose critiche, come quelle mosse da Bria e Morozov in Ripensare la smart city: mancanza di trasparenza nella gestione dei dati personali, eccesso di centralità delle imprese a discapito dell’interesse pubblico e soluzionismo tecnologico.
Gettando uno sguardo retrospettivo agli ultimi 10 anni, sorprende soprattutto la mancata presa in considerazione negli Stati Uniti delle variabili culturali dell’innovazione civica. Non che la questione dello scambio simbolico tra individui e gruppi sia stata completamente assente; si è trattato però, perlopiù, di includere tra le forme possibili dell’Innovazione Civica dei format di storytelling.
Il think tank New America, ad esempio, elenca tra le forme possibili di innovazione civica quelle basate sulle «Comunità (locali, online ed off-line, specifiche rispetto a un contesto), ovvero reti formate attorno a interessi condivisi, risorse, spazi e bisogni, che usano la comunicazione come moneta a sostegno della creazione e dello scambio di beni e conoscenza e che interagiscono con un approccio innovativo con i luoghi in cui si manifestano attraverso interventi fisici e virtuali rivolti ai bisogni degli individui e della collettività.». Per esempio, spiega New America, le Open Data Race, le Unconferences, gli eventi in stile TEDx, i Parklets e le Play Streets.
Tutte pratiche interessanti e potenzialmente utili che, tuttavia, non possono esaurire il tema del rapporto tra innovazione civica e cultura. Si tratta di forme interessanti perché si propongono di costruire nuove narrative su scala locale alle quali una parte delle comunità possono aderire, e lo fanno ponendo in atto processi di collaborazione che mettono in discussione le tradizionali forme gerarchiche nella produzione e distribuzione di conoscenza. Allo stesso tempo, non possono bastare perché tendono a costruire discorsi omofili, cioè costruiti da gruppi specifici per gruppi specifici. O, se vogliamo, dalle comunità per le comunità.
Costruire un’equivalenza tra il ‘Noi’ e la comunità, d’altro canto, è una tentazione forte per molti. La modernità, infatti, non ha comportato la scomparsa delle comunità ma le ha viste trasformarsi continuamente a seconda delle condizioni di contesto. Sulla base di questa considerazione, ad esempio, nel secondo dopoguerra in Italia ha iniziato a prendere piede una lettura situata del ‘Noi’ che, con la tradizione del comunitarismo olivettiano, ha reinterpretato la comunità in chiave laica, democratica e progressista. Il progetto comunitarista di Olivetti non è stato certo né il primo né l’unico, ma è sicuramente quello che ha avuto più influenza nel Secondo ‘900 nel nostro Paese. E continua ad averla ancora oggi, unico superstite di un lessico politico che ha visto falcidiate la classe, la nazione, la patria, l’uguaglianza, il progresso.
Leggi tutti i testi di Adriano Olivetti pubblicati da cheFare in collaborazione con le Edizioni di Comunità.
La questione delle comunità è tornata prepotentemente al centro della politica non solo in Italia, dopo tutto. Questo per diversi motivi.
Innanzitutto, perché gli spazi urbani sono stati interessati da nuovi fenomeni di polarizzazione socio-spaziale di segni diversi come la gentrificazione, la costruzione di gated communities e di enclave per super-ricchi, la proliferazione di sprawl suburbani e di nuove aree per le popolazioni povere e marginalizzate. All’interno di ognuna di queste tendenze sono proliferate pratiche comunitarie, ovviamente con logiche di volta in volta completamente diverse.
In secondo luogo, molti mondi online hanno basato la loro crescita su dinamiche legate alle community virtuali, partendo dalle comunità degli scienziati che hanno costruito il World Wide Web, passando dai forum del Web 1.0 ed arrivando poi a fenomeni di massa come le comunità del Web 2.0 (come quelle di 4chan e Reddit), quelle strutturate attorno a specifiche pratiche di consumo (le community di consumatori della Harley o del Mulino Bianco) o ad interessi specifici sui social network.
Se è evidente che la saldezza dei legami, la comunione di valori e punti di vista e l’orientamento all’azione di gruppi di individui che si frequentano nella sfera virtuale non hanno necessariamente l’intensità di comunità che condividono le interazioni quotidiane nello spazio fisico, è anche evidente che grazie alla loro frequenza e numerosità svolgono e svolgeranno un ruolo sempre più centrale nelle dinamiche sociali.
Ancora, una terza centralità delle comunità è data dalla moltiplicazione delle pratiche di innovazione sociale (top-down, istituzionali, e bottom-up, dal basso) che vedono in comunità di pratiche, comunità di luogo o comunità leggere gli attori che sui territori generano risposte a quelle domande alle quali non sempre si può rispondere con il policy-making tradizionale.
Le comunità non possono dunque non essere parte della ricerca per un nuovo ‘Noi’. Ma una riflessione articolata sul campo di azione possibile dell’innovazione civica non può non confrontarsi con il superamento della tensione identitaria dei gruppi ristretti; quell’orizzonte di libertà individuale che è stato alla base del progetto moderno e che, a seconda di come lo si vuol guardare, può essere chiamato ‘processo di individualizzazione’ o ‘processo di soggettivizzazione’.
Il rapporto tra innovazione civica e cultura.
Non siamo a questo mondo esclusivamente in quanto membri di una comunità, così come non lo siamo in quanto membri di una famiglia o come cittadini di uno stato. Prima di tutto, siamo a questo mondo in quanto parte di sistemi di relazioni che si sviluppano attraverso sistemi di simboli altamente complessi. In altri termini, siamo a questo mondo perché siamo soggetti culturali.
Forse, siamo ‘Noi’ proprio perché siamo soggetti culturali in divenire. In questo senso, la necessità di ragionare sulle forme di trasformazione del ‘Noi’ segna la necessità di un ripensamento radicale del rapporto tra sfera civica e azione culturale: è proprio quest’ultima, infatti, che ci consente di rimettere in discussione i modi e i perimetri con i quali fondiamo il nostro senso di appartenenza ad una collettività.
Assumendo questa prospettiva, è interessante prendere in considerazione il lavoro del filosofo austriaco Alfred Schütz. Operando una sintesi di tradizioni molto diverse (dalla fenomenologia di Husserl all’ermeneutica di Weber, passando per il pragmatismo di James) Schütz ha messo in mostra i meccanismi con i quali costruiamo collettivamente, performativamente e inter-soggettivamente la nostra percezione della realtà.
Riteniamo ‘vero’ tutto quello che quotidianamente condividiamo con il nostro prossimo senza doverci preoccupare di come verrà interpretato: sappiamo che potremo usare un euro in moneta per comprare un caffè o che se entriamo in una biblioteca potremo prendere dei libri in prestito. Ciò che è ‘vero’ è ciò che viene dato per scontato, che non ha bisogno di essere tematizzato, problematizzato e indagato continuamente ma che assume delle caratteristiche che la maggior parte delle persone tende a considerare ‘naturali’.
Eppure, questo ‘dato per scontato’ ha una natura squisitamente culturale: è la cultura – intesa come insieme di scambi simbolici prodotti e riprodotti costantemente – che definisce le categorie socialmente costruite di ‘verità’ e ‘natura’. In questo senso, quindi, cambiare la cultura vuol dire cambiare ciò che diamo per scontato, ciò che riteniamo “vero”, ciò che riteniamo “naturale”. E questo vale, forse ancora più che per altre cose, per come interpretiamo il perimetro del ‘noi’.
Il cambiamento culturale opera a molti livelli. Ha a che fare con l’educazione primaria e con quella secondaria, e non è un caso che Dewey si concentrasse proprio sulla scuola come veicolo di riorganizzazione degli spazi di cittadinanza. Ha a che fare con la cultura veicolata dai mass media tradizionali e con quella, prodotta in modo multiforme e aggregata socialmente e algoritmicamente, dei nuovi media digitali. Ha a che fare con il lavoro delle istituzioni culturali vecchie e nuove e con i patrimoni culturali materiali e immateriali, riconosciuti o meno. E ha a che fare, sicuramente, con le forme di cultura collaborativa sui territori che nell’ultimo decennio stanno assumendo fisionomie sempre più definite.
È questa, per esempio, la prospettiva che ha assunto la European Cultural Foundation nel bando ‘Courageous Citizens’ con il quale ha finanziato il lavoro di 30 esperienze in cui progetti culturali utilizzassero la cultura come strumento per il cambiamento sociale. Non è un caso che nel libro pubblicato assieme al bando, la filosofa Rosi Braidotti abbia «dobbiamo reinventare la cittadinanza cosmopolita per il 21° secolo, in un modo che proceda da un lato oltre l’Eurocentrismo a-storico e dall’altro oltre la piatta ripetizione dell’universalismo.».
Un invito a procedere oltre l’essenzialismo e trovare nuovi modi di abitare mondi culturali in divenire.
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