Manifesta 12. Palermo invasa dalla tribù dei vernissages

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    Documenta 14 Learning from Athens aveva generato lo sconcerto degli abitanti di Atene, che nell’aprile 2017 si erano sentiti colonizzati da una potente struttura culturale tedesca, atterrata senza troppa attenzione in un territorio estremamente precario, economicamente prostrato e socialmente fragile.

    La mostra quinquennale apriva nella capitale della Grecia proprio nel momento in cui l’Eurogruppo faceva pressioni a un governo già in ginocchio, affinché tagliasse ulteriori spese pubbliche per pagare il debito verso l’UE. In questo contesto, la direzione artistica di Documenta proponeva un’arte globale e allo stesso tempo impegnata sul territorio: un’arte che fosse pubblica, che facesse ragionare sulle emergenze del presente globale e locale, che desse voce alle comunità.

    Manifesta 12 condivide un simile scenario: al posto della crisi economica ed il braccio di ferro con l’Unione Europea, la biennale itinerante olandese ha aperto da poco a Palermo sullo sfondo della recentissima crisi della nave dei migranti Acquarius, mantenendo, in comune con Documenta, l’aspetto engagé delle proposte artistiche.

    Tania Bruguera, Article 11, 2018
    Installazione, Mixed media, Dimensioni Variabili
    Foto di Wolfgang Träger
    Courtesy: Manifesta 12 Palermo e l’artista

    La nave Acquarius con a bordo 629 migranti salvati sulle coste libiche, cercava un porto di attracco navigando in prossimità della Sicilia. Con la chiusura dei porti italiani, contro ogni norma internazionale, il neo Ministro degli Interni italiano Matteo Salvini aveva impedito alla nave di attraccare anche a Palermo, che il sindaco Leoluca Orlando aveva invece dichiarata pronta all’accogienza. Rieletto nel 2016 come sindaco dell’area metropolitana di Palermo, Orlando ha puntato sulla costruzione dell’immagine di una città interculturale e mediterranea, in cui la cultura sia volano identitario e di sviluppo. In quest’ottica, il sindaco è stato anche chiave nel riuscire a portare Manifesta a Palermo e non a caso quest’anno Palermo è anche capitale della cultura.

    Il progetto curatoriale di Manifesta 12, dal titolo preso in prestito dall’agronomo francese Gilles Clement, The Planetary Garden. Cultivating Coexistence, si fonda sulla selezione di una serie di opere (molte delle quali appositamente commissionate) che riflettono sulla globalizzazione e visualizzano in particolare la fenomenologia delle migrazioni, soprattutto dall’Africa, sul “Mediterraneo Nero”, sullo sfuttamento dei migranti che arrivano in Italia. Uno dei capitoli del Public Program, che ha avuto luogo proprio durante il vernissage, è intitolato non a caso Borderless. Le politiche inclusive del sindaco, i fatti dell’Acquarius e Palermo stessa, città africana e mediterranea, sembrano quindi il contesto e la localizzazione perfetta per le opere in mostra.

    Leone Contini, Foreign Farmers, 2018
    Mixed media, installazione site- specific, performance
    Foto di Wolfgang Träger, Courtesy: Manifesta 12 Palermo e l’artista

    Ma Palermo vistosamente popolata dalla tribù dei vernissages globali non può non far pensare ai presagi della Documenta 14 di Atene: si ha l’impressione di un progetto concertato a tavolino, il cui pubblico di riferimento non sono gli abitanti della città, piuttosto che un processo fondato con necessità e profondità sulla contestualizzazione civica dell’arte. Il meraviglioso contesto mediterraneo. L’intricata sovrapposizione di stratificazioni storiche evocate in ogni angolo della città, davanti allo sguardo, passo dopo passo. La precarietà economica e le tensioni sociali locali che fanno da contraltare alla bellezza della mediterraneità ed alla potenza della storia. La proposta culturale di un’istituzione artistica nord europea molto definita e brandizzata, in cui l’arte conteporanea viene iniettata con una narrazione: strumento per, dalla e nella città; amplificatore e cura; generatrice di immaginari site-specific che rispondano alle emergenze del nostro presente globale. Tutto sembra una rimessa in scena della Documenta 14 ad Atene.

    Teatro Garibaldi Venue

    OMA – Office for Metropolitan Achitecture (lo studio archistar di Rotterdam fondato nel 1975 da Rem Koolhaas e rappresentato a Palermo dal socio Ippolito Pestellini Laparelli), direttore artistico di questa edizione ha avviato il processo Manifesta mappando Palermo e pubblicando il risultato di una lunga ricerca sul campo, dalla quale si sarebbero fatte emergere necessità, possibilità, stratificazioni culturali vive nel tessuto urbano, storie, culture visive, immaginari. Nel 2017 esce Palermo Atlas, un volume di oltre 400 pagine nel quale Palermo emerge, come dichiara Laparelli, come “un arcipelago globale: non una città globalizzata di per sé, ma un incubatore di diverse condizioni globali”.

    Arrivata a Piazza Magione, centro nevralgico di Manifesta nel quartiere centralissimo ma ancora popolare della Kalsa, mi sono sentita parte di una tribù di esploratori sbarcati in un territorio magico e misterioso nel quale non ci saremmo mai amalgamati. La sindrome conradiana del Cuore di Tenebra trasportata nel cuore del Mediterraneo è perfetta per qualche immaginario bidimensionale da pubblicare su Instagram #Palermo #Manifesta12 #Sicilia #Artecontemporanea #Mare #Mondello #Arancina #Cannolo. E del resto così è stato: ovunque la si guardi Palermo è supremamente fotogenica, il clima meraviglioso, la luce imbattibile, le rovine commoventi ed il rischio esotizzazione è in agguato ad ogni passo. La visione delle centinaia di shoppers bianche di #Manifesta12 ha rivelato i nomi degli artisti invitati (tra quali troneggiavano alcuni dei soliti grandi nomi globali) ed allo stesso tempo mi ha regalata una epifania: noi, con quelle borsette, con le scarpe e gli occhiali di design, esterrefatti di fronte all’immersività dell’esperienza palermitana, che dovevamo dire agli adolescenti che giravano con gli scooter intorno alla piazza aspettando di accedere alle briciole di qualcuno dei cocktails di avvio di Manifesta?

    Archivio di Stato

    E che cosa pensano quegli adolescenti di fronte ai cartelli rossi appesi agli angoli dei vicoli per indicare il cammino al popolo della biennale? Ai titoli in inglese, alle opere d’arte inspiegabilmente installate nelle rovine di palazzi nobiliari ed edifici pubblici o sacri aperti? E delle performances per strada che assomigliano a “u fistinu” di Santa Rosalia ma sono hipster e meno intense?

    Manifesta “la Biennale Nomade”, come ci ricorda il mantra che fa da incipit a ogni testo curatoriale appeso alle pareti delle sue venues ufficiali, è un format olandese che viene venduto ai migliori offerenti. Da quasi venticinque anni infatti cerca in Europa “fresh and fertile terrain for the mapping of a new cultural topography”, cambiando location di edizione in edizione.

    La scelta della città ospitante da parte di IFM, la Fondazione Internazionale che guida la biennale, passa per una procedura molto precisa che prevede l’invio di una domanda da parte di una amministrazione cittadina, la mediazione tra le autorità cittadine ed il team direttivo della Fondazione, la sottoscrizione di un accordo in cui le autorità cittadine si impegnano a sostenere un’offerta economica per diventare una futura sede dell’evento. Si tratta di un processo ciclico che negli anni ha strutturato Manifesta in uno schema organizzativo ed economico molto solido, in cui la scenografia locale viene connessa con le suggestioni del sistema dell’arte internazionale ed in cui la città ospitante paga per ospitare il format.

    Alberto Baraya, New Herbs from Palermo and Surroundings. A Sicilian Expedition, 2018
    Installazione, Mixed media, Dimensioni variabili
    Foto di Wolfgang Träger, Courtesy: Manifesta 12 Palermo e l’artista

    “Manifesta aims to create an interface between prevailing international artistic and intellectual debates, paying attention to the specific qualities and idiosyncrasies of a given location”.

    Il modello Manifesta è diventato, dalla sua prima edizione a Rotterdam nel 1996, uno standard dell’arte globale. Tanto che nel 2005 IFM ha pubblicato un volume edito da Barbara Vanderlinden ed Elena Filipovic intitolato The Manifesta Decade. Debates on Contemporary Art Exhibitions and Biennales in Pot Wall Europe e pubblicato dall’MIT Press, che consapevolmente ragiona sul proprio ruolo come modello e sulla biennalizzazione dell’arte globale attraverso i saggi delle curatrici e degli autori invitati (Obrist, Enwezor, Towadros, Hanrou, Groys, Koolhaas, Raqs Media Collective tra gli altri). Oggi, 13 anni dopo, troviamo quel modello un format oramai più che solido e di successo. Ma questo, a mio parere, non significa che si tratti di un modello necessario e realmente parte di una stratificazione locale.

    Il Teatro Comunale Garibaldi, quartiere generale degli uffici di Manifesta Palermo, era stato chiuso per decenni, poi riaperto nel 2012 grazie all’occupazione di un gruppo di lavoratori del teatro e dell’arte come Teatro Garibaldi Aperto, poi richiuso e dal 2017 preso come ufficio di Manifesta.

    Zheng Bo, Pteridophilia , 2016 – ongoing
    Video
    Foto di Wolfgang Träger, Courtesy: Manifesta 12 Palermo e l’artista

    Al momento, nonostante il furto che a conclusione dei tre giorni di vernissages ha fatto sparire dagli uffici di Manifesta computers ed il fondo cassa della vendita di biglietti, gadget e libri, ospita lo spazio polivalente per le presentazioni ed una mostra sulle edizioni passate della biennale. Lo scivolamento del Teatro da spazio di contestazione a spazio di managment e produzione di un evento internazionale è piuttosto significativo rispetto alla modalità in cui Manifesta si è posizionata nella città di Palermo. Un articolo che ricorda Bert Theis ed il suo Office for Urban Transformations fa riflettere proprio sul processo di gentrificazione capitalista avviato attraverso tali eventi periodici internazionali, processo che Theis aveva sempre contestato nelle sue prese di posizione.

    Le sedi principali della mostra ufficiale sono principalmente palazzi aristocratici della città: Palazzo Butera, Palazzo Forcella Da Seta, Palazzo Ajutamicristo, Palazzo Costantino, Palazzo Trinacria; proprietà di vecchie famiglie nobili o di nuovi ricchi (collezionisti o corporation), i cui restauri in corso (come indicato dai cartelli agli ingressi) sono finanziati da Unesco o Unione Europea, e la cui apertura come collezione privata, museo, residenza ecc. è prossima ed ampiamente resa nota ai visitatori di Manifesta. Oltre alle venues principali, Manifesta si compone del public program di cui sopra, una serie di eventi collaterali e 5×5, una serie di attività pensate per artisti, istituzioni educative e gallerie.

    Visitare Manifesta 12 significa mettere piede in questi gioielli della storia della città. Significa accedere ad edifici che sarebbero normalmente chiusi ai cittadini (e questo me lo ricorda un funzionario dell’Archivio di Stato mentre mi controlla il badge per accedere alla sala in cui è esposta l’iper prodotta videoinstallazione site-specific di Masbedo). Una delle sedi della mostra più riuscita nell’equilibrio tra le opere proposte e la loro contestualizzazione spaziale e significante è sicuramente quella all’Orto Botanico, dove è evidente che il ruolo del curatore dell’Orto Manlio Speciale è stato determinante per un equilibrio riuscito tra i lavori e l’ambiente. In particolare la raccolta di piante sintetiche del colombiano Baraya, l’intervento di Leone Contini sui “poponi” bengalesi e la videoinstallazione “eco-queer” di Zheng Bo sono un esempio di equilibrio e senso.

    Matilde Cassani, Tutto, 2018
    Performance ai Quattro Canti, Dimensioni variabili
    Foto di Francesco Bellina
    Courtesy: Manifesta 12 Palermo e l’artista

    In molti casi, l’arte contemporanea soccombe invece alla potenza degli spazi, tanto da diventare quasi trasparente. Anche quando affronta temi che dovrebbero tenerci presenti a noi stessi. Il lavoro dell’unico siciliano scelto per Manifesta, Renato Leotta, è uno dei pochi a mio avviso che riesce nel delicato equilibrio tra significato e site-specificity, evocando i giardini di Limoni siciliani con un pavimento di terracotta installato in una delle sale più grandi e meno trasparenti di Palazzo Butera. La video installazione di Jordi Colomer (frutto di una performance itinerante lungo la costa sud della città) mostrata alla Casa Lavoro e Preghiera Padre Messina, un vecchio orfanotrofio che si affaccia sulla popolarissima e postcoloniale Caletta Sant’Erasmo, ha il pregio di essere un leggera, divertente ed allo stesso tempo radicata in una esperienza civica.

    Ma nella più parte dei casi questo equilibrio fallisce. E forse soprattutto laddove gli artisti affrontano tematiche complesse e vicine alla cronaca quotidiana. Le finestre che si affacciano sul mare e sui tetti di Palermo decadente sono più attraenti della riflessione di Kader Attia sulla seconda generazione migranti a Parigi, della messa in scena della campagna anti-MUOS (il sistema di comunicazione globale dell’esercito USA di base a Niscemi) o dell’installazione di Forensic Oceanography’ Liquid Violence, che analizza i numeri della militarizzazione del mediterraneo e dei migranti morti in mare, ricordando un po’ troppo Solid Sea 01: The Ghost Ship di Multiplicity, che abbiamo visto ben sedici anni fa alla Documenta 11 di Okwui Enwezor.

    Coloco e Gilles Clément, Becoming Garden, 2018
    Intervento nello spazio pubblico, orkshop, installazione, Mixed media, Dimensioni variabili
    Foto Courtesy: Manifesta 12 Palermo e l’artista

    E a ben pensarci, fallisce anche l’idea della site-specificity nella narrazione della Biennale Nomade. Entrare nei palazzi barocchi della città è certo una esperienza indimenticabile, ma di fronte alla dichiarata intenzione di parlare di fenomeni politici globali, di insistere sui temi dell’inclusione, vista la natura pedagogica dei lavori proposti, mi chiedo se una scelta curatoriale più conseguente non sarebbe stata installare le opere in caffetterie, scuole, autobus, appesi alle finestre, nelle gelaterie o nei centri culturali locali. Insomma renderle un discorso che accompagna la vita pubblica della citta. Decostruendo così l’idea che la cultura sia un processo deciso dall’alto ed il cui accesso è sempre controllato da chi la produce ed anche riflettendo su quale Palermo vogliamo, come attori culturali e come pubblico, guardare. Esiste solo la città degli antichi palazzi dei latifondisti e dei nuovi ricchi? O esistono delle forze che si muovono ed alle quali, una biennale con tali premesse, farebbe meglio a passare il microfono?

    Qualcuno potrebbe obbiettare che il programma di Manifesta è immenso, ed è vero, e che non ho visto tutto. E che molte venues al di fuori del programma ufficiale hanno maggiore impatto. Ma è anche vero che il party per i possessori di badge sarebbe stato più bello al Caffè Internazionale (spazio indipendente, radicale, visionario, attivo ed inspiegabilmente non coinvolto da Manifesta) e non in un neutro ma costoso locale sulla spiaggia.

    E la visita in pullmann organizzata allo ZEN di Palermo per vedere il processo di rigenerazione urbana di Gilles Clément e Coloco tra le palazzine degli anni Settanta Ottanta somigliava a uno Zoo Safari, sulla cui effettiva durata e sul cui impatto a lungo termine siamo poco convinti.


    Immagine di copertina: Jelili Atiku, Festival of the Earth (Alaraagbo XIII), 2018- Performance, processione, mixed media, Dimensioni variabili – Foto di Francesco Bellina – Courtesy: Manifesta 12 Palermo e l’artista

    Note