Il Guilmi Art Project fa incontrare un paese di 400 abitanti con artisti internazionali

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    Guilmi è un paese abruzzese di circa 400 abitanti, a un’ora di strada dalla costa. Qui Lucia Giardino e Federico Bacci hanno aperto nel 2007 GAP – Guilmi Art Project, un progetto di residenza che chiama un artista ogni anno a produrre un’opera che si pone in dialogo a vari livelli con il paese e con i suoi abitanti. Interrogandosi sul bisogno di mantenere uno sguardo “straniero” rispetto alla località e sulla centralità che gli aspetti educativi hanno sempre avuto nel progetto, per il quarto appuntamento di Comunità Contemporanee Giardino e Bacci affrontano il percorso finora compiuto e una riflessione sul futuro.

    Emanuela Ascari Luogo Comune Guilmi Art Project Vis a Vis Guilmi, 2012

     

    Che tipo di richiesta fate agli artisti che invitate in residenza?

    Chico Bacci e Lucia Giardino: di lavorare non “sul” ma “nel” territorio. Non chiediamo di fare progetti partecipativi. Non vogliamo format. Diamo libertà agli artisti ma devono sapere che stanno dentro un progetto, che c’è una cornice data dal territorio e dalle sue reazioni. Il progetto deve essere sostenibile dal punto di vista economico. Produciamo le opere.

    La vostra differente formazione di storica dell’arte, Lucia, e di regista e producer, Chico, vi porta ad assumere ruoli diversi nell’organizzazione di GAP? Quale è il vostro modo di lavorare in coppia?

    Bacci: Lucia fa studio visit e conosce l’artista. Io lo porto in auto a Guilmi per un sopralluogo. Attraversiamo l’Italia da Firenze passando da Norcia con una vecchia Mercedes, così ci si rende conto del passaggio, vedi l’Appennino, cambia un mondo. Durante il viaggio ci si conosce. Accompagno l’artista nei posti che io e Lucia abbiamo conosciuto negli anni in Abruzzo, diamo degli input rispetto a una nostra logica di vita. È un brain storming tra me e l’ospite. Dopo il sopralluogo si può non proseguire, ma accade raramente. Lucia si mantiene a distanza. Poi arriva, segue la residenza, dà la misura. Allora mi stacco, penso all’allestimento, esce fuori la mia anima di producer.

    “Noi all’inizio eravamo a-progettuali per scelta, nascevamo in maniera spontanea, come i workshop con amici artisti e architetti.”

    La famiglia di Lucia è di Guilmi. Per questo vi siete trovati a fondare un progetto in questo luogo. Quale è stato l’input per l’avvio?

    Giardino: i miei genitori ci hanno comprato una casa senza dircelo, ci siamo chiesti cosa farne. Nel 2007 testiamo il terreno con mostra. Dopo un anno di pausa, nel 2009 invitiamo il primo artista, Marco Mazzoni, che lavora con otto signore del luogo. Allora a Firenze insegnavo Young Italians [un corso su giovani artisti italiani che prevedeva una parte sulla formazione] e facendo la tesi di specializzazione sul tema delle residenze d’artista. Ho pensato: facciamola a Guilmi. In quegli anni non era ancora una delle pratiche del fare contemporaneo in Italia.

    Quando GAP è nata, le residenze per artisti non erano ancora così diffuse e centrali per lo sviluppo della ricerca artistica. Oggi il fenomeno è esploso, e molti progetti sono fondati con fare programmatico. Negli anni siete andati incontro a una maggiore strutturazione. Quali sono i nodi di questo passaggio?

    Bacci: le prime residenze, come A cielo aperto a Latronico e la nostra, devono riuscire a trasferire un’eredità positiva, perché c’è il rischio di una standardizzazione dei progetti di residenza, in ciò che potremmo chiamare “villeggiature d’artista”. Noi all’inizio eravamo a-progettuali per scelta, nascevamo in maniera spontanea, come i workshop con amici artisti e architetti, allievi di Alberto Magnaghi, Giancarlo Paba, che ci hanno fatto progredire. Il mondo dell’arte ha iniziato a venire. Le aspettative degli artisti crescevano, ma anche le nostre, e del paese. Iniziamo a pensare che il progetto potesse diventare strutturato, per offrire un “palinsesto” ordinato agli ospiti e al pubblico. All’inizio le persone venivano a Guilmi per stare assieme, era una comunità. Poi c’è stata la professionalizzazione: Lucia dice che ha allontanato gli amici perché ha portato il calcolo e la convenienza in processi prima spontanei e di sperimentazione. Siamo sicuri che la crescita sia necessaria?

    Fabrizio Prevedello inaugurazione di A Guilmi non piove mai, Guilmi Art Project, 2013

     

    Giardino: la genesi è effettivamente così. Ringrazio Chico perché è la sua vena visionaria ad avere dato propulsione al progetto. Formata da storico dell’arte, io ho bisogno della sintesi di ragionamento per dare un senso alle cose, perciò ho iniziato a scrivere sul sito di GAP, producendo narrazioni per il mondo dell’arte e per il paese. Scrivendo ho capito ad esempio quanto ha giocato nella genesi di GAP l’essere stata una studentessa di Enrico Crispolti. Ci litigai, ma mi formò tantissimo. Mi sono resa conto che stavo facendo quello che Crispolti faceva negli anni settanta, con le dovute differenze.

    Incanali la spontaneità in una forma più strutturata. È un passaggio forse inevitabile. Quale futuro vedete per GAP?

    Bacci: la strutturazione richiede finanziamenti, tutoraggio. Questo è il nodo. Un’ipotesi è sviluppare una cooperativa di comunità, ma vi sono regole regionali di difficile applicazione. Inoltre c’è la necessità di preservare ciò che abbiamo fatto – e le opere che ne sono testimonianza – in un luogo fisico pubblico.

    Cosimo Veneziano Mappa del percorso di mORALE Guilmi Art Project, 2017

     

    Giardino: io credo che GAP debba offrire più continuità sul territorio. Se diluiamo la presenza in appuntamenti biennali, come deciso nel 2017, si sfocano le ragioni per stare a Guilmi. Esserci senza progetti significa diventare più locali, adeguarsi a una diffusa accidia culturale. Lavorare ad anni alterni equivale a scolorire le istanze di GAP e dei singoli progetti. Il nostro luogo d’incontro con la comunità è uno storytelling con convenzioni, ruoli e linguaggi, che si indebolirà proporzionalmente all’assenza sul territorio.

    Sentite la necessità di costruire una posizione anche in riferimento al sistema dell’arte?

    Giardino: è così. Ho la necessità di mettermi da sola di fronte a un monitor e sintetizzare quello che facciamo per dargli un senso e stabilire una comunicazione con l’esterno. Il riscontro dal mondo con cui mi confronto legittima i miei pensieri e il nostro agire periferico. Agli artisti produciamo le opere e ci muoviamo per attivarle anche oltre Guilmi, come è accaduto ad esempio con il progetto Avanzi (2015) di Elena Mazzi. Guilmi può viaggiare con la ventricina (ndr. salume tipico), perché non con l’arte?

    Lucia prima parlavi del bisogno di dare una continuità culturale al progetto e di mantenere viva la narrazione rivolta al paese, mi piacerebbe che tornassi su questo punto, mi sembra centrale. 

    Giardino: Narrare è usare un linguaggio che s’impara reiterandolo, se non si pratica si dimentica ed è un compromesso con l’altro. Le relazioni di vicinanza, l’affetto, l’empatia del paese mi fanno piacere, ma mi fa più piacere sentirmi parte di un progetto che condivide una visione e un linguaggio. Ho imparato dalla comunità ma l’art world è l’aspetto culturale che mi manca.

    Gap nasce come uno spazio di intermediazione tra mondi.

    Giardino: lo è, il posto ci chiama. Dei principi di “etica” contro che ci appartenevano hanno conformato la ruralità di GAP. Si potrebbe fare di più: anche noi potremmo radicarci qua come il progetto. Siamo nel nodo. Alla fine questi progetti resistono se diventi local ma io non voglio diventarlo.

    Bacci: quando una banda suona, ti accordi. L’aspetto bello per me è la capacità dell’arte di creare cortocircuiti. È come un misterioso diapason che entra in vibrazione. Per merito di questa vibrazione entriamo in contatto con il paese. Queste vibrazioni esistono. Le abbiamo trovate. Diventa difficile, però, se a un certo punto non hai qualcuno che ti legittima.

    Quando parlate di legittimazione, da parte del paese, della politica, del sistema dell’arte? 

    Bacci: il mondo dell’arte e le persone del paese ci hanno legittimato. Sarebbe servita una legittimazione più di tipo strutturale. Quale può essere un sistema per cui i progetti virtuosi possano essere riconosciuti? La questione è anche un riconoscimento a livello ministeriale.

    Giardino: quando agisco sul luogo e qualcosa si muove in campo culturale mi aspetto una legittimazione in campo amministrativo. La politica DEVE captare le situazioni culturali. Se faccio un lavoro di ricucitura che devi fare tu politico, allora voglio la delega. Il Consiglio regionale d’Abruzzo chiama le associazioni a raccolta per spiegare le nuove linee guida in campo culturale e mi dice di chiamare la RAI per la visibilità!? Non ci interessa! È la struttura amministrativa e politica che ci deve riconoscere!

    Che tipo di riscontro dal territorio pensate di avere avuto? 

    Giardino: se batti il ferro finché è caldo, il riscontro ce l’hai ed è evidente dal linguaggio comune che è il metro dei tuoi progressi. Dò molto peso al linguaggio. A un certo punto ho avuto la percezione che GAP, l’amministrazione e la comunità stessero facendo un percorso comune verso gli stessi obiettivi, ma è stata un’illusione. Stando fissi in paese, forse costituiremmo una massa critica che di fatto non c’è; ci sono relazioni basate sull’empatia. Se siamo meno presenti, anche quelle si allentano. Ho usato la contrapposizione professionista/familiare nel descrivere il progetto mORALE (2016) di Cosimo Veneziano: se sei troppo familiare, in nome dell’empatia che ci rende tutti amici, radi al suolo le istanze culturali. Conoscere tutti in paese ha fatto sì che non si parli più di cultura, dunque quel linguaggio non viene più sviluppato o praticato. Dobbiamo invece alimentarlo. Altrimenti il patrimonio che abbiamo costruito si sperpera.

    Nel tuo discorso affronti due punti importanti. La necessità di mantenere una sorta di estraneità rispetto al luogo e la dimensione del linguaggio.

    Giardino: è fondamentale che venga sempre qualcuno da fuori, che ci siano ospiti che innescano un processo in/out. Personalmente non sento l’obbligo di diventare rurale. Rimanere straniero, portando nuove visioni, è fondamentale per non sclerotizzare un progetto e il paese.

    Sostieni la necessità di possedere e formare un vocabolario.

    Giardino: sì, è uno dei punti chiave del progetto mORALE di Cosimo Veneziano. Può essere bello avere un quadretto dentro casa, ma è quando hai il linguaggio per raccontarlo che gli dai valore. Ho iniziato a ragionare sul linguaggio a proposito dell’opera Luogo Comune (2012) di Emanuela Ascari. È un cubo, fatto con la terra prelevata da un sito archeologico dove sono stati trovati i resti di una torre, apparentemente del XII secolo, che fa risalire il paese a un’epoca remota. All’inaugurazione della mostra sul ricamo (2007) era venuta una donna con i nipoti. A fine serata i nipoti chiedono di togliere le loro firme dal libro delle presenze e cancellare le fotografie fatte al pubblico in cui era presente la nonna, perché lei diceva che dentro c’è il maligno. C’è un pensiero articolato, legato a credenze ancestrali. Cancelliamo tutto, come richiesto. Quando presentiamo il cubo di Emanuela al paese, l’artista racconta la storia del ritrovamento del sito, innescando da parte degli abitanti ricordi e leggende di cimiteri antichi e chiese perdute. La stessa donna, che era presente, mi chiede se la forma – non usa la parola cubo, credo che non la conoscesse – avesse davvero dentro i resti di un morto. Le erano rimaste in mente poche cose ma è stato il punto su cui ci siamo incontrate, questa donna ha iniziato ad acquisire il vocabolario per raccontare. Allora mi è scattata la necessità di instaurare un dialogo. Il fatto che lei avesse fatto lo sforzo di chiedere mi ha fatto capire che dobbiamo lavorare sui processi cognitivi e sull’incontro dei ragionamenti (dia-logoi), quando c’è un linguaggio che si sforza di esistere. È stato bello, un processo di conoscenza anche per me.

    Il progetto Nuova Didattica Popolare, che avete attivato dal 2013 – una forma di pedagogia innovativa, in piazza, che ha coinvolto gli abitanti del paese in un’esperienza di comprensione delle parole e delle immagini dell’arte a partire dalle esperienze personali e della comunità – aveva questo intento di produrre una lingua in comune?

    Bacci: la Nuova Didattica Popolare è nata dal bisogno di dare degli strumenti agli abitanti del paese. Ha coinvolto soprattutto le persone anziane. Pietro Gaglianò, che era stato chiamato in residenza, l’ha sviluppata egregiamente. Il progetto con lui si è chiuso nel 2017 per l’esigenza di cambiare schema. L’azione di cura vera è utilizzare tutte le risorse sul campo e creare nuove necessità. La reazione di questi posti è difficoltosa, bisogna stare attenti a non semplificare. Il nostro scopo è quello di rendere necessaria una domanda. Il nostro lavoro è nelle domande che ci vengono rivolte, che scateniamo.

    Nuova Didattica Popolare condotta da Pietro Gaglianò, Guilmi Art Project, 2015

     

    Che tipo di relazioni hanno le persone in genere con gli artisti in un contesto così piccolo?

    Bacci: le persone in genere non sanno esattamente su cosa l’artista lavora. Magari ne rimangono toccate perché si cena assieme. Le residenze si concludono con la presentazione pubblica dell’opera al paese, che è un momento importante, ma agli abitanti importa soprattutto la storia dell’artista. Interessa l’artista che racconta del progetto, cosa ha visto, cosa pensa di Guilmi, come descrive il luogo dove sono nati. È un interesse legato al paese, personale. È un processo interessante che ho visto raramente in un contesto cittadino. Questa relazione può magari svilire il processo artistico, ma funziona, nel senso che gli artisti si confrontano con persone che in paese vivono, lavorano. Diciamo agli artisti: ci sono un paese e delle persone, questo è il contesto di riferimento. Questo è il nostro pubblico. Pensiamo che l’artista possa trovare qui nuovi linguaggi, spinto dal contesto.

    In questo senso concepite la residenza anche come un momento di autoformazione per l’artista?

    Giardino: abbiamo sempre voluto artisti mediamente formati perché volevamo mettere in discussione la sicurezza dell’artista di lavorare in un mondo che già conoscevano, cambiare il fare degli artisti.

    Quali reazioni riscontrate nei confronti delle opere realizzate?

    Giardino: molti locali sono orgogliosi delle opere che abbiamo realizzato, ma non si espongono perché non sanno se hanno il consenso delle altre. Le opere non devono per forza piacere agli abitanti, non vogliamo fare opere per ingraziarceli. Nella documentazione fotografica si vede tanta gente ma non è questa partecipazione che conta, non ci interessa la quantità. Conta quando succede qualcosa alla singola persona. Dice Chico che la cosa più bella sono i micro atti. Ogni volta che c’è un artista in residenza e produciamo un’opera, ci sono persone che si offrono di aiutarci e collaborare, diventano un punto di riferimento. Questo dà un senso.

    Per quali ragioni non avete voluto lasciare opere permanenti, a parte alcune?

    Giardino: non vogliamo imporre opere alla popolazione. L’opera di Fabrizio Prevedello attaccata alla torre dell’acqua si autodistrugge. C’è anche una questione economica: l’amministrazione non si è impegnata nell’assunzione della responsabilità economica dell’opera, quindi non spetta al paese. Se poi hai una collezione fissa hai altri problemi, ad esempio come renderla fruibile. Non aver creato opere permanenti ci è però tornata contro: non abbiamo opere per i turisti!

    C’è il rischio che la politica si senta deresponsabilizzata perché sul territorio agiscono progetti culturali che – a costo contenuto – fanno ciò che essa dovrebbe fare o perlomeno agevolare? 

    Giardino: Sì, ma è un discorso complesso che tradisce diverse realtà e velocità del paese Italia. La posizione di rifiuto verso un concorso ministeriale che offre una paga di €500 al mese è paragonabile a perseguire progetti culturali in aree marginali, assumendosene le responsabilità. In entrambi si tiene una posizione etica necessaria alla salvaguardia della cultura. Nelle città a vocazione turistica si vede come la politica costruisce eventi mediatici. Investe in immagine, più che in cultura. Nei luoghi smembrati ci sono progetti culturali che fanno azione politica; aprono cooperative di comunità per ricucire lacerazioni provocate dal fallimento degli investimenti non tarati sulle particolarità locali. Molto spesso mi chiedo, perché devo farlo io? E dov’è la politica che dovrebbe creare i presupposti perché i progetti abbiano effetti sul territorio? Eppure mi sento responsabilizzata, il progetto mi chiama, capisci che devi esserci. So che sto invadendo un campo -politico – che non è mio e voglio diventare una attivista, ma ributtare la colpa sull’operatore culturale, che deresponsabilizza e quindi legittima l’assenza della politica nei processi culturali è come guardare il dito indicando la luna.

    Bacci: c’è anche una questione etica. Nei piccoli comuni ci sono spesso dinamiche locali di potere, che possono bloccare lo sviluppo. È una dimensione con cui i progetti locali devono fare i conti, di adeguamento, mediazione, resistenza, compromesso.


    Immagine di copertina: Fabrizio Prevedello, Solido alle Intemperie, Guilmi Art Project 2013

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