Allo Städel Museum di Francoforte, fino al 9 settembre, è in corso la mostra «The Land in-between» di Ursula Schulz-Dornburg e, per l’occasione, l’editore inglese Mack ha pubblicato un volume, che è la summa del coerente ed efficace lavoro svolto dall’artista tedesca nell’arco di 38 anni.
L’approccio alla dimensione di tempo e spazio insito nella pratica fotografica della Schulz-Dornburg, nata nel 1938 a Berlino, prende origine dal pensiero minimale e concettuale emerso negli Stati Uniti negli anni ’60 e cresciuto fino alla ribalta negli anni ’70.
Il tempo è presente, nel lavoro dell’artista, attraverso un’azione simultanea di espansione, più che di congelamento, costituita da molti strati sovrapposti, che prende in considerazione il prima, il durante e il dopo. Questo tempo, definito in tutto il corpus del lavoro dell’artista, non è lineare, ma ciclico. La Schulz-Dornburg è interessata prevalentemente a quei periodi intermedi di calma o di declino, spesso di durata estremamente oscillabile, tra un grande evento storico ed un altro. Per realizzare il suo progetto, l’artista prende in considerazione spesso parti di mondo in cui il tempo è caduto nell’oblio, andando ad esplorare aree geografiche che comprendono antiche civiltà confinanti con posizioni di moderna importanza strategica. Incroci nodali, zone prese in esame non solo per contenuto intrinseco, ma per essere terre «in mezzo», comprese tra Europa e Asia, est e ovest, antico e moderno, sovrappopolazione e deserto, democrazia e dittatura.
L’opera della Schulz-Dornburg è un’esplorazione critica della costruzione del potere e della sua impermanenza. Le immagini prendono corpo attraverso la stretta relazione tra strutture architettoniche e uomini, fra solidità dei materiali e impalpabilità dell’aria, con la costante di un viaggio senza sosta. Dal villaggio di Kurchatov in Kazakistan a Kronstadt, dalla Russia fino al confine fra Georgia e Azerbaijan, dalla Siria all’Iraq, dalle rovine dell’ormai abbandonato progetto ferroviario ottomano in Arabia Saudita alle fermate degli autobus dell’era sovietica in decomposizione in Armenia, alle abitazioni temporanee di paludi in Mesopotamia, il percorso visivo della Schulz-Dorburg si dichiara attraverso uno sguardo frontale, secco, coerente: modus videndi imprescindibile per chiunque abbia interesse all’intreccio fra fotografia concettuale, architettura e paesaggio.
Più recentemente, nel 2010, l’artista è ritornata in Siria per fotografare l’antica città di Palmira e quelle immagini ora formano parte dell’ultima documentazione visiva dell’area prima della sua recente distruzione.
Le immagini fotografiche rigorosamente analogiche ed in bianconero, sono caratterizzate da una omogeneità d’illuminazione, ma da altrettanta ricchezza di microdettagli e di sfumature di grigio. La fotografia della Schulz-Dornburg è dolce, fluida, credibile.
A differenza dei coniugi Becher, anch’essi inclini ad un uso della luce priva di enfasi per la materia architettonica, ma concentrati a mantenere una distanza regolare dal soggetto, l’artista lavora a differenti distanze, privilegiando i campi lunghi, permettendo ai preziosi toni ed ai bianchi trasparenti delle sue fotografie di essere mobili nelle inquadrature, segnalando pause, momenti di rottura, spostamenti di traiettoria o la volontà di rallentare il ritmo della sequenza narrativa.
L’artista introduce nel suo lavoro alcune mappe disegnate, che, sebbene tendano a offrire un contesto chiaro, creano volutamente una discrasia di spazio / tempo rispetto alle immagini fotografiche, in quanto forniscono posizioni geografiche distanti centinaia di chilometri solo attraverso un breve tratto grafico, cosa che si oppone al senso di infinito, di illimite, espresso dalle fotografie. Ognuna di queste è una contrazione ed una espansione di tempo e di spazio che simultaneamente rivela e nasconde un paesaggio complesso, sempre aperto all’interpretazione dello spettatore.
La forma documentaria è costantemente esplicitata e, al contempo, occultata: il lavoro della Schulz-Dornburg è soprattutto il risultato della sua postura nello spazio fisico, frutto di un’esperienza che mette al centro il metodo. Parlando di questo, l’artista così si esprime: “attraverso l’esperienza fisica di distanza, spazio e rappresentazione, così come mi è stata trasmessa dall’opera di Richard Long, ho ricevuto una forte conferma del significato di viaggio. E più vado avanti in questo viaggio, più chiare diventano le posizioni da assumere”.
Il vasto progetto messo in campo fin dagli inizi degli anni ‘80 è diventato negli anni una mole di lavoro solida in cui spicca la caratteristica di un orizzonte espanso, con una labile linea di confine che separa cielo e terra e che va idealmente oltre i bordi del fotogramma. L’artista tedesca definisce questa linea d’orizzonte «la linea zero dell’umanità», sottolineando l’importanza di ogni sua immagine come parte di una serie più ampia, collegata con le successive e le precedenti. Una spirale dove la dimensione di un tempo sospeso si sposta verso quello cronologico, definito, della Storia, e viceversa. Sebbene i conflitti imminenti nelle aree geografiche prese in esame, come l’Iraq, non potessero essere previsti dall’artista, in alcune immagini si respira un senso di minaccia, un’aria di tensione e urgenza, la reale possibilità che paesaggio, ambiente e antichi stili di vita stiano per estinguersi.
Pur avendo grande interesse per l’antropologia e l’archeologia, Schulz-Dornburg riconosce il ruolo essenziale dell’architettura nella risoluzione di problematiche che vanno oltre i bisogni primari di rifugio, evidenziando la molteplicità di scopi di questa disciplina, che vanno dalla creazione di luoghi di culto, condivisi, di aggregazione, alla creazione di luoghi transitori. Ma l’architettura solo all’apparenza è sempre disposta all’asservimento dei bisogni umani, in alcune immagini dell’artista questa assume un’identità meno rassicurante. Le infrastrutture, l’opulenza costruttiva come rappresentazione di potere, sono state spesso utilizzate dall’imperialismo per consolidare forme di oppressione in nome della modernizzazione. Le immagini ci ricordano che questa modernizzazione non è sempre stata accolta acriticamente laddove la coscienza civile si è rivelata immune da collusioni col potere.
Potremmo pensare al lavoro di Schulz-Dornburg nell’ambito di una modalità della fotografia di paesaggio che rimanda alle origini, a quella forma di indagine precoce del West americano, sviluppata da fotografi come William Henry Jackson, Carleton Watkins, Timothy O’Sullivan che, lavorando tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, hanno prodotto immagini che presagivano l’emergere di un impero americano che prendeva i suoi chiari contorni nel momento di dissesto del potere imperiale europeo.
Il lavoro di Schulz-Dornburg, nei suoi approfonditi e specifici esami del paesaggio dell’Asia centrale, della Russia orientale e del Medio Oriente, si occupa del degrado irreversibile del potere e lascia spazio a considerazioni sulle conseguenze contagiose di forme di «civiltà» costruite su fondamenta indifferenti ai segnali vitali del terreno che, in ogni modo, cercano di aggredire.
Potremmo infine considerare i lavori di questa artista come proiezioni di possibili scenari, pensarli come riflessioni su un futuro ineludibile.
Immagine di copertina: Ursula Schulz-Dornburg: Opytnoe Pole (nuclear test site #17), Kazakhstan, 2012