Dopo i dialoghi tra Derrick de Kerckhove e Francesco Monico, tra Michele Cerruti But e Filippo Barbera e tra Paolo Naldini e Ezio Manzini che hanno introdotto il Convegno di ricerca Public! a cura di Francesco Monico, Paolo Naldini, Michele Cerruti But presso Accademia Unidee (il racconto del convegno nel reportage di Marco Liberatore) ora apriamo una serie di approfondimenti sul concetto e sulle declinazioni di “pubblico”. Dopo un’analisi e un’interpretazione dell’intellettuale pubblico del filosofo Federico Campagna, dopo “il sogno” narrativo proposto dall’architetto Maurizio Cilli sul concetto di pubblico come infrastruttura, dopo il concetto di pubblico come innovazione della pratica a cura dell’urbanista e attivista Elena Ostanel, e un saggio sul rapporto con il pubblico visto dal punto di vista di un perfomer di Andrea Pagnes, un contributo della storica dell’arte, Gabi Scardi, oggi pubblichiamo un intervento sull’architettura comunitaria di Mariana Pestana.
“Il pubblico è quella parte di spazio, cultura, immaginario, territorio dove avviene il patteggiamento di significati comuni e generali. Significati che non sono di nessuno ma che diventano veri perché sono condivisi da una multitudine di identità creando così una comunità. È un incessante patteggiamento del significato altro e dei significanti ulteriori che incarnano nella loro completezza proprio il valore più alto della nozione di Pubblico. Ovvero quello spazio di nessuno ma per tutti dove il mondo degli umani, inteso come territorio significante si genera.” Francesco Monico.
Nel 2019, come The Decorators, lo studio di design che ho co-fondato con Carolina Caicedo, Suzanne O’Connell e Xavi Llarch Font, siamo stati invitati dal festival Walk & Talk a curare una piattaforma di arte pubblica sull’isola di São Miguel alle Azzorre1https://che-fare.com/almanacco/cultura/relazione-arte-pubblico-spazio/. Consapevoli della nostra posizione di stranieri non pratici di quel luogo, abbiamo definito il nostro progetto una spedizione. Gli abbiamo dato il titolo Expedition Empathy. Il nostro lavoro ha costantemente cercato di conciliare le dimensioni fisiche dello spazio con la sua dimensione sociale. Per questo ci siamo appellati alle persone e comunità con cui quindi abbiamo costruito esperienze collettive di intervento sul territorio. Ma il contesto delle Azzorre ha richiesto un impegno più profondo in un senso più strutturale e materiale che indagasse le deformazioni, le dislocazioni spaziali pubbliche.
I Azzorre
Situato all’intersezione di tre placche tettoniche, l’arcipelago delle Azzorre fu popolato da esseri umani nel XV secolo. Da allora questa terra, è stata oggetto di numerosi esperimenti, tra cui l’acclimatazione di specie vegetali del sud del mondo prima della loro introduzione nei giardini botanici del nord Europa. Molte delle descrizioni delle Azzorre furono scritte nel XIX secolo da stranieri, nel contesto delle esplorazioni, da menti razionaliste in sintonia con lo spirito dell’Illuminismo. Hanno classificato e categorizzato piante, animali, paesaggi e popoli delle isole. Ma non tutte le dimensioni possono essere misurate in maniera razionale e sistematica. Le proprietà magnetiche delle rocce, i tremori della terra, l’incombente emergenza della lava ruggente, sono eventi che sfidano le scale logiche, eventi che difficilmente possono essere previsti. Sfuggono ai sistemi razionali di pensiero.
Il Metodo
Miti e rituali, sacri o profani, forse catturano meglio la forza e la grandezza di tali eventi. La nostra spedizione, a differenza di quelle del XIX secolo, voleva fondere invece di misurare, personificare piuttosto che classificare. Ci interessava l’incommensurabile, l’irrazionale, l’incomprensibile, assumere una postura di dubbio e fragilità rispetto a quel luogo. E connettersi visceralmente al paesaggio. L’arcipelago è un accordo dinamico tra terra e umani, con molti significati implicati dalle eruzioni dal XVI al XX secolo.
In questo testo descrivo come il nostro lavoro si sia evoluto da iniziali processi partecipativi di coinvolgimento con luoghi e persone, nel modo in cui ci siamo inseriti in contesti esterni e quali motivazioni ci hanno portato a creare esperienze comuni. E quindi come si è riflesso sulla dimensione trasformativa che l’esperienza delle Azzorre ha avuto nella nostra pratica, espandendo le dimensioni comunitarie e sociali oltre una cornice antropocentrica.
La natura del lavoro dei The Decorators è partecipativa. Ovvero, ogni progetto nasce da un processo di collaborazione tra tante persone che si estende all’esperienza stessa delle opere che vengono realizzate durante la presentazione finale.
III Mercato
Il primo progetto che abbiamo realizzato è stato un ristorante situato su un piccolo appezzamento di terreno triangolare nel Ridley Road Market nell’East London, a Dalston, abitato da persone di diverse origini geografiche. Un mercato del fresco, ma anche vestiti, borse, cd e dvd, teste di mucca, lumache e materiale elettronico e altro.
Visitare questo mercato era come fare il giro del mondo in 100 metri. La zona stava subendo una radicale trasformazione demografica, in un processo di gentrificazione che metteva a repentaglio il futuro del mercato, che, pur esistendo da più di cento anni, era minacciato dal recente apparire di diversi supermercati. La soluzione del comune è stata quella di rinnovare il mercato, renderlo “pulito” ed esteticamente adeguato ai nuovi abitanti e ai potenziali clienti con maggior potere economico che arrivavano in quel quartiere.
Invece di un rinnovamento materiale abbiamo difeso un rinnovamento dell’identità attraverso un programma di utilizzo, garantendo la conservazione e l’apprezzamento della dimensione multiculturale del mercato e dei prodotti che vi venivano venduti. Abbiamo iniziato facendo dei picnic in un piccolo triangolo di cemento con una superficie di circa 25 metri quadrati, dove i venditori pranzavano senza alcuna formalità. Abbiamo portato un camper a gas, pentole, asciugamani e stoviglie, e abbiamo comprato gli ingredienti da cucinare al mercato. La nostra presenza si è fatta notare fin da subito, abbiamo ricevuto critiche sul modo in cui cuocevamo gli spinaci, consigli su come cuocere le uova. Il cibo è diventato un mezzo per un significato.
Gli ambulanti si sono raccolti intorno a noi e abbiamo avviato una conversazione, che ci ha portato a capire che quello che il luogo e la situazione richiedevano era un programma di fruizione sociale. Abbiamo realizzato una semplice struttura di impalcature e legno, che imitava la logica materica delle bancarelle circostanti, e l’abbiamo avvolta in un sipario impermeabile che si chiudeva di notte. La cucina si trovava al piano terra e le persone sedevano al piano superiore. Un sistema di funi faceva salire o scendere il tavolo tra i due piani, in modo che il cibo vi arrivasse teatralmente e senza bisogno di personale di servizio. Ogni giorno c’era un cuoco diverso a rotazione. Durante il pranzo il ristorante operava con un sistema di baratto.
Le persone che si recavano al ristorante vedevano, all’esterno, una lavagna dove c’erano elencati gli ingredienti di cui avevamo bisogno. Se portavano uno di questi ingredienti potevano scambiarlo con un pasto. La sera la cena veniva venduta a 15 sterline, di cui 5 venivano restituite in forma di buono da utilizzare al mercato. Lo scambio si estendeva ad altri elementi: la cisterna dell’acqua veniva riempita da dipendenti della municipalità in cambio della cena; un negozio di musica locale accettò di condividere in questo sistema anche la musica.
Conquistare la fiducia di chi vive e lavora nel territorio è stato un processo lungo, ci siamo adattati ai ritmi, agli orari e alle abitudini precedenti al nostro arrivo. Durante il periodo di apertura, il ristorante è diventato una piattaforma sociale di incontro tra vecchi e nuovi abitanti, commercianti e visitatori. Questo processo di metamorfosi implicata dalla fragilità che abbiamo incarnato al nostro presentarci, assieme alla disarticolazione dell’ordine precostituito che abbiamo causato, non è stato indifferente al comune o al luogo. Alla fine, il piano comunale per l’uso di quello spazio è stato modificato ed è stato stabilito che qualsiasi progetto futuro avrebbe avuto un uso sociale. All’epoca la conseguenza ci sembrò troppo tenue e insignificante.
E proprio lì è iniziata una domanda sulla pertinenza della nostra pratica: quale impatto o eredità lascia un progetto come questo nella città? Chi beneficia di un progetto temporaneo di questo tipo? E cosa ci spinge a collaborare con le persone? Come mai questo strano impulso a creare un meccanismo che funziona solo con la partecipazione di molti attori?
IV Regno Unito
Dopo tre anni abbiamo realizzato di nuovo un progetto in un mercato. Questa volta si trattava di Poplar, uno dei quartieri più poveri del Regno Unito. Su incarico dell’amministrazione locale abbiamo sviluppato un programma d’intervento in una piazza pubblica coperta dove si svolge il Chrisp Street Market. Il mercato esiste fin dall’epoca vittoriana ed è stato ristrutturato dall’architetto Frederick Gibberd durante il Festival of Britain del 1951, un’iniziativa del dopoguerra volta a promuovere una nuova architettura che avrebbe influenzato altri mercati, piazze ed edifici in tutta l’Inghilterra in un’estetica che sarebbe diventata nota come “festival style”.
Fino ad allora i mercati si svolgevano per strada per cui Chrisp Street Market è stata una delle prime piazze pubbliche appositamente costruite per ospitare un mercato nel Regno Unito. Nel 2014 il mercato stava affrontando una nuova fase di rigenerazione urbana e ci è sembrato opportuno per il nostro progetto convocare i cittadini, ascoltare i loro desideri, testare i potenziali usi futuri di quel luogo, mantenendo lo spirito del programma sperimentale che si era svolto 60 anni prima. Soprattutto volevamo sottolineare l’importanza del mercato come spazio pubblico e civico, cuore della vita comunitaria. Per ascoltare le tante voci di Chrisp Street abbiamo creato una radio mobile con tutte le attrezzature necessarie per trasmettere in diretta e registrare il suono. Abbiamo così potuto portare la radio al mercato, per conoscere e registrare i meccanismi del luogo e porre domande sul suo futuro. Il suono era un mezzo.
Attraverso i programmi radiofonici abbiamo attraversato i muri che separavano il mercato dalle case, dai club sportivi e sociali. Siamo entrati nella vita delle persone, perché sono venute a incontrarci. Facevamo programmi politici, musicali e letterari, che non erano altro che un pretesto per conoscere la vita, i sogni, le visioni, gli ideali e le convinzioni degli altri. La radio era un attrattore, le storie, le biografie e i luoghi venivano da noi. Questa raccolta ha informato una serie di eventi e attività che si sono svolti nel mercato, sviluppati in collaborazione con partner che abbiamo conosciuto nel processo, come il Lansbury Amateur Boxing Club, Poplar FIlm Bow Arts, Spotlight e altre organizzazioni locali. Abbiamo costruito varianti di bancarelle del mercato progettate per ospitare programmi – dalla boxe alla musica e al cinema, o tavoli per mangiare.
V conclusioni
Abbiamo testato una serie di possibilità per il futuro del mercato sulla base di aspirazioni espresse che abbiamo incorporato in strutture mobili e programmi pubblici, per poi scrivere tutto in una relazione che abbiamo consegnato al comune. Spesso ci viene posta la domanda che ci perseguita dai tempi del mercato di Ridley Road: a cosa serviva? Che conseguenze ha avuto? Che impatto ha avuto? In che misura il nostro rapporto ha influenzato il programma che il comune avrebbe richiesto a promotori immobiliari, urbanisti e architetti?
Abbiamo scoperto che è in corso un programma di contenimento degli affitti e che il progetto urbanistico approvato dal Comune preserva la dimensione pubblica dello spazio. Ma lo scopo più tangibile mi sembra avere a che fare con l’immaginazione innescata.
Ad esempio, ampliando le possibilità lessicali per ogni persona che vi passava. Come sostiene l’antropologo Arjun Appadurai, l’aspirazione non è innata, tanto meno equamente distribuita, bensì dipende dalle esperienze di ciascuno ed è intimamente legata alle condizioni sociali e di classe2Arjun Appadurai, “The Right to Participate in the Work of the Imagination,” in Transurbanism, ed. Joke Brouwer and Arjen Mulder (Rotterdam: V2_Publising/NAi Publishers, 2002)..
Aprire spazi per immaginare e sperimentare come potrebbe essere un luogo mi sembra la più grande utilità dei progetti culturali temporanei. L’immaginazione di cui parlo ha, da un lato, una connotazione politica, perché, a differenza della mera fantasia, riguarda la capacità di immaginare una vita migliore, la volontà di cambiare. Dall’altro, perché è un immaginario condiviso, o coltivato insieme. Attraverso meccanismi di ascolto, ogni progetto è una sintesi di volontà collettive, di diversi desideri consolidati in un programma. Questa missione sociale è in parte ciò che ci motiva. Ma non solo.
C’è un fascino per l’alterità e per le possibilità che l’incontro può suscitare. O quello che Coimbra de Matos chiamava il piacere della xenofilia3Coimbra de Matos, “Amor à vida”, Actas do Colóquio Encontro com (o) Amor – percursos, expressões e desenvolvimento, Departamento de Psicologia ECS universidade de Évora, 14 e 15 Novembro 2015. Editor – Professora Doutora Isabel Mesquita.. Questo professore, psichiatra e psicoanalista ha introdotto le idee di relazionalità e di futuro nella pratica terapeutica, ha parlato del fascino dell’altro come fondamento della voglia di vivere. I piaceri della xenofilia hanno a che fare con il fascino dell’ignoto e con l’impulso a creare qualcosa di nuovo che non esiste ancora. Il “pulsare di altre anime”, il contatto con idee e culture divergenti e diversificate, producono rotture epistemologiche che ci attraggono perché possono trasformarci e, così facendo, ci permettono di immaginare e creare nuove possibilità.
Sono queste nuove relazioni, fugaci o durature, che giustificano veramente il piacere del lavoro partecipativo. Ma incontrare l’altro significa anche abdicare al controllo e alla protezione dello spazio individuale. E quindi, aprirsi all’incontro implica forse un rischio di contatto con l’alterità. Connettersi con l’altro è un rischio in un’epoca che valorizza il fine individuale sopra ogni cosa, perché l’esperienza comune dell’incontro “presuppone sempre una disgiunzione identitaria di due soggettività”. C’è un decentramento dell’esperienza individuale verso una costruzione del mondo da un’altra prospettiva, condivisa, comunitaria. Il gioco della partecipazione è, in fondo, una dinamica d’amore che si svolge nel luogo dell’incontro con l’altro (xenos), una gestione di posizioni di potere e vulnerabilità che si alternano, in un rischio che è giustificato immagino dal semplice piacere dell’incontro.
Nel 2019 abbiamo chiamato la nostra spedizione “empatetica” in modo da sottolineare il senso di esperienza emotiva condivisa che volevamo dare al progetto. Annunciava il desiderio di esprimere il movimento ascensionale dell’immaginario collettivo, il piacere esponenziale delle esperienze condivise, l’emozione contagiosa dell’esperienza sincronica.
Ma lì, per la prima volta, abbiamo esteso la partecipazione a una dimensione oltre umana: i batteri che fermentavano la pasta madre, l’energia geotermica delle grotte che cuoceva il pane, il calore delle acque termali che scaldava i corpi, l’erosione che trasformava le sculture, ecc… e da questo progetto realizzato alle Azzorre, la nostra pratica si è sviluppata nel senso di pensare in modo più critico a ciò che è veramente una comunità pubblica. La meraviglia per l’altro, il fascino dell’alterità, le delizie della xenofilia, si sono estese attraverso un mondo oltre e più che umano.
Mariana Pestana re-edited 2023 for Public4Una versione di questo testo viene pubblicata nell’ambito del catalogo decennale del Walk and Talk Festival 2022., traduzione e cura di Francesco Monico
Immagine di copertina: The Decoratos DOSFOTOS
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Communal Architecture and the Delights of Xenophilia
Mariana Pestana
In 2019, The Decorators, the design studio that I co-founded with Carolina Caicedo, a Suzanne O’Connell e o Xavi Llarch Font, were invited by the Walk & Talk festival to curate a public art circuit on the island of São Miguel. Aware of our position as outsiders, foreigners to that territory, we called our project an expedition. We gave it the title Expedition Empathy. Our work had consistently sought to reconcile the physical dimensions of a space with its social dimension. For this, we called on people and communities with whom we built, together, collective experiences of intervention in the territory. But the Azorean context called for a deeper engagement with the territory in a material, tectonic, sense.
Located in the intersection of three tectonic plaques, the archipelago of Azores was populated by humans in the 15th century. Since then, it has been subject to many earthly experiments, including the acclimatization of plant species from the global south, before they were brought to the botanical gardens of the north of Europe. Many of the foreign descriptions of Azores were written in the context of expeditions, by rationalist minds in tune with the spirit of Enlightenment, in the 19th century. They classify and categorize plants, animals, landscapes and peoples of the islands. But not all dimensions can be measured by rational systems. The magnetic properties of rocks, the tremors of the earth, the impending ascent of the roaring lava, are events that defy logical scales, occurrences that can hardly be predicted. They escape rational systems of thought. Myths and rituals, sacred or profane, perhaps best capture the strength and magnitude of such events. Our expedition, unlike those of the 19th century, wanted to merge instead of measure, to personify rather than classify. We were interested in the immeasurable, irrational, unintelligible phenomena, in taking a position of doubt and fragility in relation to that place. And in connecting viscerally to the landscape. The archipelago is a precarious agreement between land and humans, with many being expelled by eruptions from the 16th to the 20th century .
In this text I describe how our work evolved from participatory processes of engagement with places and people, the way we insert ourselves in external contexts and the motivations that lead us to create communal experiences. And it reflects on the transformative dimension that the Azorean experience has had in our practice, expanding the communal and social dimensions beyond a human-centred framework.
The nature of The Decorators’ work is participatory. That is, each project results from a collaboration process between many people that extends to the very experience of the pieces we build when they are presented. The first project we did was a restaurant situated on a small triangular plot of land in the Ridley Road Market in East London, in Dalston, inhabited by people from different geographies. A fresh market, but also clothes, bags, cds and dvds, cow heads, snails and electronic materials and others. A visit to this market is like traveling around the world in 100 metres. The area was undergoing a profound demographic transformation, in a process of gentrification that jeopardized the future of the market, which, with more than a hundred years of existence, was threatened by the recent presence of several supermarkets. The municipality’s solution was to renovate the market, make it “clean” and aesthetically adapted to the new inhabitants and potential customers with greater economic power who arrived in that neighborhood. Instead of a material renovation, we defended a renewal through a program of use, ensuring the preservation and appreciation of the multi-cultural identity of the market and the products that were sold there. We started by having picnics in a small concrete triangle with an area of around 25 square meters, where the stallholders had lunch informally. We brought a gas camper, pots, towels and dishes, and bought ingredients at the market that we cooked there. Our presence quickly made itself felt, and we received criticism of the way we were cooking the spinach, suggestions on how to cook the eggs. Food has become a means. The stallholders gathered around us and we started a conversation, which led us to realize that what the place and the situation asked for was a program of social use. We made a simple structure in scaffolding and wood, which mimicked the material logic of the surrounding stalls, and we wrapped it in a waterproof curtain that closed at night. The kitchen was located on the ground floor, and people sat on the upper floor. A system of ropes made the table go up or down between the two floors, so that the food arrived there theatrically, and without the need for service personnel. Every day there was a different cook, in rotation. During lunch, the restaurant operated on a barter system. People who visited the restaurant saw, outside, a chalk board where we listed the ingredients we needed. As long as they brought one of these ingredients, they could exchange it for a meal. In the evening dinner was sold for £15, of which £5 was returned in the form of a voucher to be used in the market. The exchange extended to other elements: the water tank was filled by the chamber’s employees in exchange for dinner; a music store in the market agreed to put music on the same system. Gaining the trust of those who lived and worked there was a lengthy process, adapting to the rhythms, schedules and habits prior to our arrival. During the opening period, the restaurant became a social space for new and old inhabitants, merchants and visitors to meet. This process of metamorphosis between the fragility with which we arrived and the disarrangement of the established order that we caused was not indifferent to the municipality or the place. In the end, the municipal plan for the use of that space was changed and it was determined that any future project would have a social use. At the time the consequence seemed to us too tenuous and insignificant. And right there began a questioning about the pertinence of our practice: what impact or legacy does a project like this leave in the city? Who benefits from a temporary project of this kind? And what makes us want to collaborate with people? What was this strange impulse to make a mechanism that worked only with the participation of many players?
After three years, we again did a project in a market. This time it was in Poplar, one of the poorest neighborhoods in the UK. Commissioned by the parish council, we developed a program in a covered public square, where the Chrisp Street Market takes place. The market has been around since Victorian times, and was renovated by architect Frederick Gibberd during the Festival of Britain in 1951, a post-war initiative to promote new architecture that would go on to influence other markets, squares and buildings across England in a aesthetic that would become known as “festival style”. Until then, markets took place on the streets, so Chrisp Street Market was one of the first purpose-built public squares to host a market in the UK. In 2014, the market was facing a new phase of urban regeneration, and it seemed appropriate for our project to summon citizens, to listen to their desires, to test potential future uses for that place, in the spirit of the experimental program that had taken place 60 years before. Above all, we wanted to emphasize the relevance of the market as a public and civic space, the heart of community life. In order to hear the many voices of Chrisp Street we created a mobile radio with all the necessary equipment to broadcast live and record sound. We could thus take the radio to the market, to learn about and record the mechanics of the place and ask questions about its future. Sound was a medium. Through radio programs we crossed the walls that separated the market from houses, sports and social clubs. We reached into the lives of the people there, because they came to meet us. We made political, music and literature programmes, which were no more than an excuse to find out about other people’s lives, dreams, future visions, ideals and convictions. The radio was like an attractor, the stories, biographies and places came to us. This collection informed a series of events and activities that took place in the market, developed in collaboration with partners that we became acquainted with, such as the Lansbury Amateur Boxing Club, Poplar FIlm Bow Arts, Spotlight and other local organizations. We build variations of market stalls designed to accommodate programs – from boxing to music and cinema, or tables for eating. We tested a series of possibilities for the future of the market, based on the expressed aspirations, which we incorporated into mobile structures and public programs and then wrote everything down in a report that we delivered to the municipality. We are often asked that question that has haunted us since the Ridley Road market: what was the use? What consequence did it have? What impact did it make? To what extent did our report influence the program that the municipality would demand from property developers, urban planners and architects? We found that a rent containment program is currently underway and the town planning project approved by the municipality preserves the public dimension of the space. But the most tangible purpose seems to me to have to do with the imagination aroused. For example, by expanding the lexicon of possibilities for each person who passed through there. As the anthropologist Arjun Appadurai argues, aspiration is not an innate quality, much less equally distributed, because it depends on each person’s experiences, it is intimately linked to social and class conditions. Opening spaces to imagine, and experience, how a place could be, seems to me to be the greatest utility of temporary cultural projects. This imagination I’m talking about has, on the one hand, a political bent, because unlike fantasy, it concerns the ability to envision a better life, the will to change. On the other hand, because it is a shared imagination, or cultivated together. Through listening mechanisms, each project is a synthesis of collective wills, of several desires consolidated in a program. This social mission is partly what motivates us. But not only. There is a fascination for the other, and for the possibilities that the encounter can raise. Or, what Coimbra de Matos called the delights of xenophilia. The professor, psychiatrist and psychoanalyst who introduced the ideas of relationality and the future in the therapeutic office, spoke of the fascination for the other as the foundation of the zest for life. The delights of xenophilia have to do with the fascination for the unknown and with the impulse to create something new that does not yet exist. The “pulsing of other souls”, the contact with divergent and fractured ideas and cultures produce epistemological ruptures that attract us because they can transform us and, in doing so, allow us to imagine and create new possibilities. It is these new relationships, fleeting or long-lasting, that truly justify the pleasure of participatory work. But meeting the other is also abdicating control and protection of individual space. And therefore, opening oneself up to the encounter perhaps implies a risk of contact with alterity. Connecting with the other is a risk in an era that values the individual purpose above all else, because the common experience of the encounter “always presumes an identity disjunction, of two subjectivities”. There is a decentering of the individual experience towards a construction of the world from another perspective, shared, communal. The game of participation is, after all, a loving dynamic that takes place in the place of the encounter with the other (xenos), a management of positions of power and vulnerability that alternate, in a risk that is justified, I think, by the simple pleasure of the meeting.
In 2019 we called our expedition “empathetic” in order to emphasize the sense of shared emotional experience that we wanted to give to our project. It announced a desire to express the ascending movement of the collective imagination, the exponential pleasure of experiences that are shared, the contagious emotion of the synchronic experience. But there, for the first time, we extended participation to a more-than-human dimension: the bacteria that fermented the mother dough, the geothermal energy of the caves that cooked the bread, the heat of the thermal waters that warmed the bodies, the erosion that transformed sculptures, etc… and from this project carried out in the Azores, our practice has developed in the sense of thinking more critically about what a community truly is. The wonder with the other, the fascination with otherness, the delights of xenophilia, expanded towards the more than human world.
A version of this text is being published as part of the 10 year catalogue of Walk and Talk Festival.