La comunità perduta. Una nuova idea di comunità

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Comunità è un concetto arcaico. Nell’accezione corrente si riferisce alle prime forme di aggregazione sociale o tribale costituite da gruppi di individui che convivono all’interno di un territorio limitato e si riconoscono per i caratteri comuni e la reciproca dipendenza. La comunità precede la società, che è la sua evoluzione naturale, caratterizzata da un insieme di relazioni complesse, dalla divisione del lavoro e da una coscienza sociale. Il termine comunità è anche attribuito ai gruppi ristretti che vivono all’interno di società più vaste, che mantengono una propria identità o tratti culturali e religiosi in grado di distinguerli dagli altri.

    Quando si parla di comunità si pensa subito all’opposizione con la società, sollevata da Ferdinand Tönnies nel 1887 e sollecitata dal pensiero di Nietzsche, tesa a rivalutare la naturalità dell’esistenza di fronte al mascheramento dei valori umani imposto dalla civiltà industriale.

    Anche se desideriamo tornare alla comunità rifugiarvisi non basta, né appare più possibile

    Quando Tönnies scriveva Comunità e società, alla fine del secolo xix – un secolo di grandi mutamenti, di un’industrializzazione accelerata che anticipa un futuro sempre più tecnologizzato, ma anche di utopie metropolitane – la comunità era considerata un concetto superato, appartenente al passato. Alla comunità si guardava con nostalgia, con lo stesso spirito di Nietzsche che, proprio nella modernità, nel novum, rintracciava le cause della dispersione della comunità, sacrificata in favore della società civile.

    La società è totalizzante, sempre più vasta, incontrollabile e pertanto sconosciuta. Ne consegue l’insicurezza e la paura di vivere al suo interno. Tende a identificarsi con il mondo intero, che non ci è dato abbracciare con un solo sguardo; per utilizzare un termine tecnico, non possiamo «con-prenderla»; resta distante da noi e ci fa sentire marginali, persino inadeguati alle nuove condizioni del presente. Anche se desideriamo tornare alla comunità per sentirci a casa, rifugiarvisi non basta, né appare più possibile. Le esigenze professionali, lavorative, familiari e pratiche, la scelta di affrancarsi da un luogo ristretto e la ricerca dell’autonomia ci portano lontano.

    La conseguenza di questa dicotomia tra comunità (l’origine) e società (la destinazione) è una sensazione dolorosa di solitudine, unita a una struggente nostalgia della sicurezza e del calore che solo nella totalità dell’essere possiamo ritrovare.

    In questo contesto l’idea di comunità assume un valore superiore rispetto a quella di società, che è invece colpevole di aver «corrotto» le buone relazioni umane, imponendo l’ipocrisia e le convenzioni sociali (la buona educazione) che snaturano il comportamento spontaneo. In comunità e società Nietzsche e Tönnies colgono l’opposizione violenta tra due concetti inconciliabili, lamentando la sovrapposizione della società, artificiale e convenzionale, alla più naturale comunità, che è venuta scomparendo. Ovviamente, con un malcelato rimpianto per le cose perdute. L’attribuzione all’idea di comunità di un surplus di valore e di una qualità «istintiva» ha in realtà prodotto conseguenze di non poco conto, se si considera l’esaltazione che ne ha fatto il nazismo, influenzato dal pensiero di Heidegger, dove tutto ciò che è naturale, originario, puro, legato alla terra e al mondo contadino ha goduto di un privilegio mitizzato.

    A questa lettura reazionaria fa però seguito un’accezione diversa, più neutra e attuale, fatta propria dall’antropologo scozzese Victor Turner, che recupera la compresenza di comunità e società nel mondo moderno, ridefinendola con i termini latini di communitas e societas. Secondo Turner, communitas ha un carattere positivo di «appartenenza» e «solidarietà»; un eterno presente che va ben oltre i legami sociali convenzionali e mantiene quelli familiari e di sangue.

    Non si allontana, insomma, da quel Blut und Boden (sangue e suolo) su cui avevano insistito i preromantici tedeschi per richiamare alla naturalità dei rapporti umani e ai legami con il territorio, anticipando la nascita dei nazionalismi.

    L’idea di Turner di una «communitas non strutturata» fa pensare alla moltitudine spinoziana: un insieme di individui non strutturato gerarchicamente, libero, incontrollato, che agisce all’interno di un sistema reticolare di relazioni di parità assoluta. Sarebbe una società dominata dalla comunità, un ritorno alle origini.

    Ma di ritorno alle origini parlano anche i movimenti cosiddetti «liminali», come gli hippies, che tendono alla comunione, indotta dall’alcol, dagli stupefacenti e dalla musica, cioè da un’ebbrezza dionisiaca che cancella la coscienza individuale e trascina in un tutto unico. Annullamento di sé o ricerca della totalità dell’uomo primitivo, indistinto dalla natura?

    Alla comunità attiene l’immobilismo, la tradizione, l’eterno presente; alla società la storia, il progresso, l’innovazione

    L’aspetto più sorprendente della communitas è l’assenza del tempo, il suo eterno presente che secondo Turner trova conferma nelle comunità tribali ancora esistenti nel xx secolo: una «situazione senza tempo, un eterno “adesso”, come “un momento dentro e fuori del tempo”, o come uno stato al quale non è applicabile». Nelle civiltà arcaiche precedenti all’introduzione della scrittura la comunità è un elemento di stabilità, in cui ogni cosa, oggetto, simbolo o conoscenza tende a essere conservato per sempre, nel timore che la perdita possa produrre un danno irrimediabile. La struttura conservativa e immobilista della comunità (dove tutto è noto ed è rintracciabile ogni volta che vi si torna) ha anche una funzione rassicurante e coesiva: fa sentire partecipi di un insieme all’interno del quale la singola individualità ha una rilevanza secondaria.

    Ma la condizione di eterno presente è rintracciabile anche nelle odierne «società digitali», nelle quali ha perso d’importanza il valore della memoria, a data alla tecnologia e ridotta a strumento di pronto intervento. A differenza del passato, dove l’eterno adesso aveva il compito di preservare il patrimonio culturale della comunità, oggi è utilizzato per far fronte a rapidi cambiamenti, nei quali l’esperienza precedente assume un valore relativo.

    Se, consci di questo aspetto, mettiamo a confronto i due concetti di comunità e società, notiamo che la società è caratterizzata da una progressione, un accumulo di conoscenze in continua evoluzione e da una scansione temporale.

    Qui il prima e il dopo rivestono un’importanza fondamentale, poiché ciò che avviene dopo è necessariamente conseguenza del prima (da cui l’idea di progresso, sconosciuta alle civiltà antiche), rendendo così palese il concetto di storia.

    Alla comunità attiene l’immobilismo, la tradizione, l’eterno presente; alla società la storia, il progresso, l’innovazione. La società attuale si caratterizza per questa (a prima vista incomprensibile) contaminazione tra le funzioni proprie del rinnovamento continuo, del progresso accelerato, e quelle proprie invece della comunità, come il recupero di certe ritualità che fanno pensare a un bisogno di ritrovarsi, stringendo legami nuovi.

    In questa riformulazione più attuale della comunità, a divenire prevalente è l’aspetto comunicativo. Da sempre, anche i rapporti familiari si basano su una stretta relazione comunicativa, caratterizzata dalla convivenza e dalla prossimità fisica: genitori e figli, mariti e mogli, nonni e nipoti. Nella comunità attuale (virtuale o reale) i requisiti della convivenza e della prossimità non sono più necessari. Prevale l’aspetto comunicativo e la creazione di un ambito comune di interessi e/o finalità, su cui costruire un rapporto di natura temporanea, libero dai vincoli imposti dalla comunità, proprio per il fatto di non dipendere da un’esigenza economica o coabitativa. Si assiste allora allo stravolgimento dell’idea di comunità e alla sua sostituzione con nuovi e inediti parametri di contiguità, che prescindono dai cosiddetti «legami forti». Malgrado le rassicurazioni di Turner, il tipo di communitas che emerge nelle società liquide del nostro tempo ha ben poco a che fare con la concezione tradizionale di questa idea.

    Ma su un punto Turner è inattaccabile: la comunità non è stata completamente eliminata e resta compresente nella società.

    Forte più che mai, rivalutata e recuperata nelle modalità, negli aspetti e nei riti più peculiari della contemporaneità. Così anche la comunità è per sempre. Rimane dentro di noi come un imprinting che ci segue ovunque andiamo: una sorta di condanna che grava sul nostro capo e che nessun esorcismo riuscirà a rimuovere. Radicata profondamente nella nostra cultura, nel comportamento, nel linguaggio e nei rapporti con gli altri. Se da un certo punto di vista il legame inscindibile con la comunità può essere considerato un fardello imbarazzante e sgradito, che talvolta cerchiamo di occultare, esso è però universalmente riconosciuto come la parte più intima e vera del sé, che si oppone alla patina di «civilizzazione» acquisita con l’educazione e l’istruzione.

    L’idea di comunità si espande rapidamente su grandi distanze, fino a comprendere il mondo intero

    Appare sempre più evidente che il luogo di appartenenza, cioè il territorio di competenza della communitas, si è esteso a dismisura, grazie alla facilità delle comunicazioni. Se questo spazio si è allargato, però, è vero anche che l’ampliamento territoriale ne ha vanificato la fisicità, mettendo in crisi l’identità personale degli individui, che si sentono spaesati, costretti in un territorio sconosciuto, abitato da sconosciuti, con tutte le difficoltà e le insicurezze derivanti dalla coesistenza con l’altro. Di fatto, è sufficiente spostarsi di qualche metro fuori dal proprio quartiere per incontrare volti ignoti, sentirsi estranei e percepire la differenza.

    La separazione e l’anonimato sono una conseguenza della concentrazione urbana nelle grandi città, dove la prossimità non assicura la formazione di una comunità. Per contro, è facile invece intrattenere rapporti amichevoli con persone distanti centinaia o migliaia di chilometri, con le quali si hanno affinità elettive, interessi comuni, simpatie: sono i nuovi legami deboli, meno condizionanti sul piano personale, ma abbondantemente produttivi di capitale sociale.

    L’idea di comunità si espande rapidamente su grandi distanze, fino a comprendere il mondo intero. Subisce, in sostanza, un processo di globalizzazione e finisce col perdere la sua qualità «fisica», rifugiandosi nei clouds, in quello spazio indeterminato e virtuale dove si scambiano e si archiviano le comunicazioni. Gli individui hanno riscoperto il loro aspetto propriamente comunicativo, che in tempi di problematicità nelle relazioni personali – per assenza di mezzi adeguati, ostacoli linguistici, differenze culturali o ragioni politiche – era fornito dalla prossimità, cioè dalla presenza fisica sullo stesso ristretto territorio, dal contatto quotidiano o dalla condivisione dell’esperienza.

    Dunque è vero che comunità e società convivono, come sostiene Turner: forse è più vero oggi che al tempo in cui scriveva (gli anni sessanta e settanta), ma con modalità diverse, che risentono del profondo mutamento sociale portato con sé dalle nuove tecnologie. La comunità però non è più la stessa, è cambiata: non è il luogo di appartenenza, dove si è nati e ci si è formati e dove tornare per ritrovare sé stessi. Quella forma di communitas è obsoleta, fa parte dell’archeologia culturale, forse persino di una certa mitologia che serve (ed è servita) a giustificare scelte aberranti in passato.

    Oggi la comunità è un legame debole, ma capace di grandi performance

    Ciò che differenzia communitas e societas è pertanto la loro condizione strutturale. Il mutamento (o la liquefazione) della communitas è iniziato come un atto liberatorio per sottrarsi alle origini, tagliare le radici con il passato, con il proprio luogo di nascita; fuggire dalla propria condizione primigenia in cui non ci si riconosce più. Come si vede, è una trasformazione maggiormente legata all’azione individuale che a quella sociale, ma nel momento in cui avviene con le stesse modalità per un numero altissimo di persone e coinvolge più generazioni di individui, assume una valenza sociale.

    La nuova comunità sopravvive accanto alla precedente e, se non altro, ne rappresenta l’asse portante. Si è evoluta e allontanata decisamente da quell’immagine romantica che l’ha condizionata per tutto il xix secolo e per buona parte del xx.

    La rottura con il passato avviene nel momento in cui la comunità si libera del retaggio dei legami forti e si rende indipendente. Si è dilatata e diffusa, ha perso di vista i confini del suo territorio; non si può più identificare con un luogo specifico. È un effetto dovuto alla rapidità delle comunicazioni: le attuali comunità non sono ristrette, come in passato, al paese, al quartiere, al condominio- alveare. Travalicano i confini, s’intrecciano, si espandono.

    Oggi la comunità è un legame debole, più fragile e temporaneo di qualsiasi altro legame sociale di tipo economico o strutturale, ma capace di grandi performance. Si è liberata della maggior parte dei condizionamenti del passato e ha assunto una libertà d’azione su lunga distanza che la rendono il più duttile e proficuo strumento delle relazioni sociali. È un’idea nuova e interamente originale, ben rappresentata da una versione finora inedita: le comunità virtuali.

    Di comunità, infatti, si è tornato a parlare con il trasferimento sulla rete di un insieme di relazioni e comunicazioni derivanti dalla creazione dei social network, sui quali si formano gruppi eterogenei e temporanei di persone attratte dagli stessi interessi e dal desiderio di partecipazione o affermazione di sé. Nel linguaggio contemporaneo le «comunità virtuali» hanno preso il posto dell’antica comunità nell’immaginario sociale, riproponendo il vecchio dilemma tra comunità e società.

    Così, le relazioni sociali del nostro tempo non si integrano più secondo una logica spaziale, ma si spingono oltre i confini del territorio che abitiamo, creando legami deboli, capaci di produrre capitale sociale più dei legami forti, familiari e sodali. Le comunità virtuali, nelle quali si ritrovano e si raccontano milioni di persone, hanno la funzione rassicurante delle comunità arcaiche, luoghi in cui tornare a unirsi con gli altri in una relazione senza tempo, dove tutto resta immobile e può essere ripreso quando si vuole o cancellato senza rimorsi.

    È sufficiente evitare di rispondere agli interlocutori, cambiare nickname e con un clic si cancella un mondo, un’amicizia che sembrava inossidabile, l’appartenenza a un gruppo in cui ci si sentiva finalmente a casa. Senza rimpianti, senza sensi di colpa e, soprattutto, senza dover dare spiegazioni. Le comunità di rete hanno anche questo vantaggio: poter uscire rapidamete da una relazione che ha stancato, che sta diventando troppo stretta o insoddisfacente, per crearne un’altra. Sono le comunità usa e getta del mondo liquido, le nostre identità prêt-à-porter, che si possono indossare e riporre a piacimento.

    Un’identità che può essere persino multipla, quando si vivono più comunità di rete allo stesso tempo, assumendo un profilo diverso a seconda della disposizione d’animo del momento o del bisogno di soddisfare esigenze differenti. Questa «multicomunità d’uso» sopperisce bene al desiderio di ritrovare l’identità perduta e di sperimentare condizioni diverse per effetto del senso d’angoscia e di solitudine che non ci abbandona.

    Più diffcile liberarsi della comunità reale, i cui legami non si spezzano mai e coinvolgono, condizionano la vita intera, sebbene ci si allontani, si cresca o si cambi lavoro.

    L’antica opposizione tra comunità e società si risolve così nel trasferire la prima nell’irrealtà, abbandonando il campo come in una grande ritirata strategica e lasciando alla società reale l’arduo compito di mediare tra i problemi etici, giuridici, religiosi e politici creati dalla necessità di convivere in un mondo globalizzato.

    comunità

    Estratto da Fine del mondo liquido (Il Saggiatore)

    Secondo Michel Maffesoli, la crisi della modernità è caratterizzata proprio da un ritorno a forme arcaiche di socializzazione, favorite dallo sviluppo tecnologico e in particolare dalla comunicazione in rete. Tra queste forme arcaiche c’è la comunità, il bisogno di stringere legami forti sulla base di interessi comuni, empatia, propensione a credere negli stessi valori, che non sono più valori ideologici, ma valori emozionali, bisogni personali, affermazioni di sé, ambiti dell’immaginario. Valori riscoperti o costruiti artificialmente in un contesto ristretto e vissuti come regole autoimposte, che fanno pensare – proprio come nella definizione cara a Maffesoli – ai rituali tribali. La costruzione di una cultura e di valori comuni, da usare all’interno di un gruppo privilegiato, con linguaggi e simboli propri, nei quali riconoscersi. Il bisogno di identificazione, andato perduto con l’etica del lavoro postindustriale, è recuperato provvisoriamente nelle comunità dell’immaginario o dell’immateriale.

    Alain Touraine ritiene che «la comunicazione interculturale sarà possibile solo se in precedenza il soggetto è riuscito a svincolarsi dalla comunità». In questi ultimi anni è sempre più palese che il soggetto (l’individuo o l’essere sociale, ormai distinto dalla massa) si sia liberato da ogni legame con la comunità. Non solo perché l’ambito territoriale della comunità si è dilatato a dismisura, ma perché la comunità ha perduto le sue radici nel territorio ed è divenuta esportabile.

    Quindi non si può più parlare di legame col territorio: la comunità si sgancia dalla sua relazione fisica, materiale con il suolo e con la terra, si configura nell’appartenenza a un’idea di sé all’interno di una cultura, di un insieme di tradizioni, di un «modus vivendi» che è la somma di ciò che si è stati, si è e si sarà. Ognuno ha un’idea di sé in rapporto al mondo, che non si perde con il cambiamento né spostarsi altrove o attraversando le frontiere, ma è divenuta «portatile», trasferibile da un luogo all’altro, perché ovunque è in grado di riconoscersi e di essere riconosciuta nell’estrema varietà dei «multilocalismi», cioè nella convivenza tra gruppi, culture, etnie e modi diversi di esistere che formano la nuova società in perenne trasformazione.

    Note