La posizione queer come cardine della lotta anticapitalista, intervista a Federico Zappino

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Dal 16 al 19 settembre si tiene a Milano la trentacinquesima edizione del Mix – Festival internazionale di cinema Lgbtq+ e cultura queer. E si tiene in presenza, tra il Teatro Strehler e il Palazzo Reale di Milano, proprio mentre stiamo sull’uscio di una pandemia che ha stravolto, riorientato e aperto le vene dell’economia e della società. E coincide pure con un momento di grande visibilità politica delle questioni di genere e sessuali, con il dibattito acceso (e conflittuale) attorno al disegno di legge Zan, e il ritorno dei Pride nelle piazze e nelle strade, spesso organizzati e guidati dai gruppi più minoritari e radicali.

     

    «La cosa che più mi ha colpito quest’anno è stata la presenza dei soli corpi, nella loro grande pluralità, e l’assenza, invece, dei grandi carri e dei marchi delle multinazionali, che negli ultimi anni avevano trasformato i Pride in vetrine più per i colossi d’impresa che non per le rivendicazioni di un movimento politico: i corpi, finora marginali, antagonisti, sono emersi con protagonismo», riflette Federico Zappino, che proprio quest’anno fa parte della giuria internazionale del Mix (Premio per la migliore sceneggiatura). Filosofo e traduttore di capisaldi della cultura queer, da Eve Kosofsky Sedgwick a Judith Butler a Monique Wittig, il suo ultimo lavoro, Comunismo queer (Meltemi, 2019) è di prossima traduzione in francese.

    La pandemia ha sferzato la comunità queer spesso in modo durissimo, facendo emergere tutte le dinamiche di vulnerabilità e di diseguaglianza. Forse è cambiata anche la percezione di sé, come singoli e come “gruppo sociale”.

    Credo che la pandemia abbia riscritto la percezione di essere minoranza. Lo credo e in qualche modo lo auspico. L’anno appena trascorso non è stato certo indolore per nessuno, ma per qualcuno è stato peggio di altri: i decreti per il contenimento del contagio non hanno colpito tutta la popolazione allo stesso modo, ma anzi hanno aggravato la situazione generale di chi già occupava una posizione minoritaria, e di chi, più di altri, avrebbe avuto bisogno di contare sul supporto della socialità.
    Ci sono organizzazioni non governative che hanno registrato ovunque nel mondo il peggioramento della condizione sociale delle minoranze di genere e sessuali, a partire dalla brutale messa in discussione di diritti acquisiti – come in Ungheria o in Polonia, per limitarci al contesto europeo – fino all’incremento dei tassi di vulnerabilità ed esclusione sociale di persone queer e trans che durante la pandemia sono divenute senzatetto, indigenti, in condizioni di povertà anche alimentare. Anche in Italia abbiamo assistito all’apertura delle prime case protette per persone queer e trans, come Casa Marcella, dedicata all’indimenticata Marcella di Folco.

    Allo stesso modo, si è registrato anche un incremento esponenziale (73%), rispetto all’anno precedente, di richieste di aiuto ai centri antiviolenza da parte di donne costrette in contesti di coabitazione eterosessuale. Il mio auspicio è che l’esperienza pandemica possa dunque disporci in modi nuovi alla lotta politica, come esito di una rinnovata coscienza politica. La coscienza, cioè, di essere minoranze, gruppi che versano in condizioni di diseguaglianza sotto tutti i profili, i cui diritti non sono acquisiti una volta per tutte e che l’avvento di un fenomeno come una pandemia può relativizzare, fino ad annientare ogni illusione di inclusività. Se continuiamo a pensarci solo ed esclusivamente come altri hanno finora voluto che ci pensassimo, e cioè come “diversità da celebrare” (che significa sostanzialmente risorse umane da includere e valorizzare in cambio di sfruttamento e precarietà), rischiamo di sottovalutare l’aleatorietà e l’assenza di potere che può riguardare la nostra condizione. Se invece ci pensiamo come gruppi diseguali, politicamente minoritari, allora comprendiamo di dover avere più chiaro cosa vogliamo cambiare e in che modo lottare per conseguire un tale obiettivo. E non semplicemente per ottenere l’eguaglianza, specialmente se questa “eguaglianza” deve essere elargita dallo stato, bensì per sovvertire ciò che determina la nostra diseguaglianza. C’è una grande differenza fra queste due cose.

    Tutto questo ha cambiato lo sguardo e sta cambiando le pratiche dell’attivismo. E forse spiega anche la visibilità e il protagonismo di quella parte di attivismo più radicale, più queer, che per lungo tempo è stato ai margini di un movimento. 

    In generale, credo che l’evento pandemico sia piombato addosso a una società globale piuttosto depoliticizzata e smobilitata dall’ultimo ventennio. Il 2001 – e con questo mi riferisco sia alla repressione del dissenso al G8 di Genova, sia alle profonde trasformazioni impresse sulla politica globale dalla risposta agli attentati al World Trade Center – ha costituito uno spartiacque nella storia fino a quel momento apparentemente ininterrotta del rapporto fra lo stato e il capitalismo neoliberista. Lo stato d’eccezione e l’abuso della decretazione si sono affermate come modalità normali di governo e, con esse, è diventata prassi la sospensione dello stato di diritto, accompagnata da forme crescenti di autoritarismo e di criminalizzazione del dissenso politico.

    Tutto questo è per dire che l’evento pandemico è caduto addosso a una società il cui sistema immunitario era quasi interamente privo di anticorpi. E anche le minoranze di genere e sessuali versavano in questa condizione, salvo rare, preziose, eccezioni.

    Anch’esse sufficientemente depoliticizzate e smobilitate, da lungo tempo – dalla crisi dell’Aids in poi – si accontentavano sostanzialmente di ratificare gli assunti eterosessuali della società in cambio di un’illusione: l’illusione, cioè, che il capitalismo neoliberista avrebbe garantito loro grandi possibilità di soggettivazione, di espressione e di inclusione sociale.

    Il neoliberismo, d’altronde, non è solo un modo di governo delle cose, ma è innanzitutto un governo dell’autogoverno. E le minoranze di genere e sessuali – senza sorpresa e senza condanna – lo hanno introiettato perfettamente. La razionalità neoliberista ha trasformato la società affinché il capitale potesse mettere a valore l’esistente, la vita, trasformando i corpi in capitale umano – e i corpi gay, lesbici, trans non sono stati affatto risparmiati.

    Il neoliberismo ha ottenuto consensi presso le minoranze di genere e sessuali proprio perché si poneva come “inclusivo” nei riguardi di vite e corpi storicamente tenuti ai margini dall’ordine sociale eterosessuale. Ma questo non significa affatto che il neoliberismo abbia sovvertito i presupposti dell’esclusione sociale delle minoranze di genere e sessuali, e di qualunque altra – su tutte, le minoranze razziali.

    È questo che si è faticato a comprendere. Al punto che quando sono tornati alla ribalta i movimenti neoconservatori, o neofondamentalisti, sono sembrati dei ridicoli anacronismi nell’epoca della “libertà” e dell’“inclusività”. Si è faticato a comprendere come fosse possibile che l’epoca neoliberista contemplasse il prepotente ritorno di movimenti omotransfobici, contro “il gender”, per la difesa della famiglia tradizionale e, con essi, l’aumento esponenziale dei femminicidi, i respingimenti in mare, le deportazioni e i campi di permanenza temporanea, i revanscismi identitari del nazionalismo, del neofascismo, del populismo sovranista.

    La critica queer più radicale ha sempre messo in guardia dai pericoli dell’illusione neoliberista: ciò che veniva venduta come “inclusività” non era che il profitto del capitale sulla “diversità”, ossia sulla diseguaglianza, sull’emarginazione e sulla segregazione, anche relazionale e sessuale, di interi gruppi minoritari. E questa inclusività – che è esattamente l’opposto della giustizia sociale, dal momento che ratifica l’idea di un gruppo dominante che può includere, o escludere, i gruppi dominati – può venir meno da un momento all’altro, proprio perché il neoliberismo non sovverte affatto i presupposti dell’esclusione. Al limite li rinforza, occultandoli. 

    Federico Zappino (ph. Giovanni Corsi)

     

    Tra la pandemia da Covid e quella da HIV che hai appena richiamato ci sono molte similitudini. Penso alle campagne di comunicazione istituzionale, alla questione dei brevetti, alla scelta tra vaccino e cure, alla popolazione vulnerabile che si è trovata esposta in modo drammatico. Ma penso anche alle differenze: la via di trasmissione, prima di tutto, per cui con l’AIDS il neoconservatorismo ha dispiegato le ali. 

    Qualche giorno fa riguardavo le campagne governative sull’AIDS, della fine degli anni Ottanta, realizzate per conto del governo italiano di allora. E riflettevo proprio sul fatto che, a quel tempo, in tante si interrogavano sulla “funzione politica” svolta dal virus dell’HIV.

    Al di là della mera esistenza biologica dei virus, ci sono poi cose come la politica, l’economia, i rapporti sociali di forza: e cosa succede a questi oggetti biologici, una volta entrati nel raggio d’azione del potere e dei rapporti di forza sociali ed economici? Se pensiamo ad esempio al governo della pandemia da HIV, a cosa è servito?

    Negli anni Ottanta e Novanta era forse più difficile affermarlo con certezza, ma a distanza di tanti anni noi sappiamo perfettamente, e dovremmo essere concordi, nel ritenere che la gestione politica di quella pandemia abbia inferto un colpo mortale alle trasformazioni culturali che i movimenti gay, lesbici, femministi, trans, avevano iniziato a innescare nelle società.

    Accanto a questo aspetto, di tipo repressivo, ce n’è stato poi uno di tipo produttivo: la gestione politica della pandemia è riuscita nell’intento, più o meno volontario, di incanalare la politica delle minoranze verso più accettabili condizioni di compatibilità con la società eterosessuale.

    Credo che la paura, o per meglio dire il terrore, abbiano svolto un ruolo di primo piano nel conseguimento di questo obiettivo. Da quel momento in poi, i movimenti Lgbt+ imboccano una strada palesemente conservatrice, orientata verso il riconoscimento della coppia, la genitorialità, e più in generale, i diritti civili. Ed è sempre in quel contesto che si delineano le posizioni più queer, ancor più minoritarie all’interno del vasto gruppo delle minoranze di genere e sessuali, non del tutto disposte ad abbandonare il terreno della critica sociale e della conflittualità con l’ordine eterosessuale e patriarcale.

    Sappiamo bene, d’altronde, che prima della crisi dell’AIDS le minoranze di genere e sessuali non erano affatto concordi sulla priorità di simili rivendicazioni: se si sfogliano gli Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli, ci si rende conto di quanto fosse aspra la critica contro questi tentativi – li definiva appunto Mieli – di farci rientrare nelle strutture della Famiglia Eterosessuale, ma dalla “porta di servizio”. Negli anni Settanta, Mieli notava eloquentemente come il riconoscimento del matrimonio omosessuale interessasse molto di più gli stati che gli stessi gruppi omosessuali. È dunque evidente che la gestione politica della pandemia ebbe l’effetto di agevolare una repressione nei riguardi di determinate istanze e, al contempo, di inaugurare un nuovo modo di fare politica minoritaria, che oggi appare perfettamente interiorizzato dai movimenti sociali. Dismesso lo spirito sovversivo, si affermano parole d’ordine come inclusione, accettazione, riconoscimento. 

    È bene ricordare che la pandemia da HIV non si è affatto placata, che a oggi non esiste un vaccino, e che nonostante non se ne parli granché, sono circa quaranta milioni le persone decedute per AIDS, nel mondo. 

    Anziché limitarsi a esortare all’uso del preservativo, il governo si spingeva a scoraggiare i rapporti occasionali con persone “sconosciute”, ossia esterne alla coppia, e a celebrare il mito della sessualità monogamica, rappresentata mediaticamente con una coppia eterosessuale. Potrebbe sembrare una sottigliezza; eppure noi sappiamo che “esortare alla profilassi” ed “esortare a non avere rapporti sessuali occasionali o non monogamici” non sono la stessa cosa. La scelta di scoraggiare la sessualità non monogamica, indirettamente intesa come non eterosessuale, aveva la specifica funzione di criminalizzare proprio i gruppi sociali che da tempo sferzavano il proprio attacco nei riguardi della famiglia, dei ruoli di genere, del patriarcato, dell’eterosessualità.
    In tutto il mondo, d’altronde, era senso comune che l’AIDS fosse la malattia dei gay e delle prostitute. 

    Se rapportiamo questo discorso all’attuale pandemia possiamo chiederci: a cosa è servito parlare di “distanziamento sociale”? Come mai i governi hanno avuto bisogno di coniare questo costrutto retorico nuovo, e di ripeterlo incessantemente? 

    La prima risposta che mi do è che ciò intrattenga un nesso specifico con la penuria delle risorse e dei mezzi sanitari che avrebbero consentito di fronteggiare un’epidemia: penuria che, almeno in Italia, si deve allo smantellamento, o alla privatizzazione, neoliberista della sanità pubblica. E tanto minori sono le risorse pubbliche che consentono di fronteggiare un’epidemia, tanto maggiore sarà la stretta autoritaria sui comportamenti individuali e sociali.

    L’altra risposta che mi do è che non avevamo bisogno della pandemia per sapere che da tempo è in atto una pluralità di strategie per distruggere gli spazi pubblici. Non solo la privatizzazione o la precarizzazione della sanità pubblica, come anche della scuola e dell’università, ma anche la trasformazione delle strade e delle piazze in luoghi di semplice attraversamento, in cui si fa fatica a trovare un posto per sedersi o sdraiarsi, rendendole inaccessibili a chi non ha una casa, o a chi è parte di una minoranza, sanzionando le modalità non conformi, o “indecorose”, di apparizione e di espressione nello spazio pubblico.

    Tutti questi erano precisi segnali di trasformazione dello spazio pubblico non solo nello spazio del consumo, ma nello spazio della repressione, e dell’espulsione, di chi non è conforme alla norma. Se la de-sessualizzazione e la de-soggettivazione delle minoranze di genere e sessuali è l’eredità dell’epidemia dell’HIV, il rischio, con l’attuale pandemia, è che proprio sulla base di quella esperienza sociale di desessualizzazione si sterilizzi la socialità nella sua interezza. Esattamente come all’epoca della crisi dell’AIDS la retorica governativa perseguiva finalità che ci appaiono tutto sommato chiare, ora possiamo chiederci se con l’ingiunzione al “distanziamento sociale” non si voglia indicare soltanto una norma di igiene pubblica, ma s’intenda piuttosto far germogliare un distanziamento sociale in senso letterale, cioè una disgregazione dello spazio pubblico e della società, un annullamento delle forme residuali di relazionalità sociale, e la promozione, al contempo, dei rapporti “sociali” mediati dal capitale, o di quelli interni alla famiglia. 

    Entrambe le epidemie sembrano mettere a fuoco una svolta della macchina economica, politica e sociale. Quarant’anni fa il neoliberismo, lo Stato minimo e la massima pervasività del capitale, l’inclusione delle soggettività. Oggi lo Stato sembra aver scoperto un nuovo protagonismo e anche il piacere di provare norme di disciplinamento.

    La pandemia ha indubbiamente esacerbato la crisi nel rapporto fra Stato e neoliberismo, ma non ha affatto scalfito il modo di produzione capitalistico – come pure alcuni sostengono. Il capitalismo è più vivo che mai. Quello che mi sembra in crisi, appunto, è il rapporto fra il modo di governo neoliberista e lo Stato.

    La pandemia ci ha ricordato non solo che esiste lo Stato, ma che ha un potere autoritario, non riducibile a quello economico. Da un giorno all’altro, lo Stato può chiuderti in casa, può decretare il coprifuoco, può azzerare i tuoi diritti di libertà, di movimento e persino di espressione, se pensiamo alla repressione poliziesca delle proteste nelle carceri.

    Con questo non intendo dire che la pandemia abbia massimizzato uno Stato precedentemente “minimo”: lo Stato non è mai stato “minimo” nemmeno nella stagione neoliberista. Al contrario, la funzione dello Stato – o per meglio dire, del governo, del potere esecutivo di un piccolo numero di persone – era necessaria all’emanazione di leggi che favorissero il dominio del capitale neoliberista in tutti gli ambiti della vita. Questo è dimostrato dal fatto che da molto tempo il ruolo dei parlamenti si è ridotto alla “legittimazione” di decreti emanati altrove, tra i banchi del governo – cosa che precede di gran lunga il “governo” della pandemia.

    Il processo di graduale svuotamento delle procedure democratiche, motivata da questa o quella “emergenza”, o “crisi”, o sorretta dallo slogan there is no alternative, che negli ultimi due anni ha raggiunto il parossismo, ha condotto a un nuovo tipo di rapporto fra potere statale e potere economico che in molti già definiscono “capitalismo autoritario”. Un capitalismo, cioè, che non necessita più di uno Stato e di una società aperta, apparentemente senza confini, come nel caso del neoliberismo, ma che può scoprire nuove possibilità di affermazione e di dominio anche per mezzo di stati e società autoritari.

    Le norme di confinamento e di distanziamento sociale, la sospensione dei diritti individuali e collettivi, la neutralizzazione degli spazi pubblici, l’isolamento e la paura della socialità, la trasposizione della relazionalità sociale su piattaforme digitali, tutto ciò che fino a oggi passa per indotto, giustificato o necessitato dal contenimento del contagio, può senza dubbio agevolare questo tipo di capitalismo.

    Aggiungerei anche la fascinazione per regimi apertamente autoritari, che sembrano ammaliare non solo un mondo apertamente di destra, ma anche opinion makers che si dicono progressisti. Non penso solo alla fascinazione per Trump, Putin e Orban, ma anche per la Cina come esempio di perfetta gestione sanitaria e di ripresa sociale o la mistica per Cuba e il suo sistema di controllo sociale e sanitario. 

    Il fatto è che in un regime capitalistico autoritario a riacquisire sovranità è lo Stato, proprio come auspicato dai movimenti neoconservatori, neofondamentalisti, o dai populismi sovranisti, che siano di destra o di sinistra.

    Questa rinnovata centralità dello Stato, tuttavia, non serve a riportare sotto il controllo pubblico, cioè “di tutti”, ciò che il neoliberismo aveva privatizzato, precarizzato o smantellato. Al contrario, serve a determinare un nuovo criterio di governo delle risorse, materiali e immateriali, che resta sempre improntato a una logica capitalistica, ma il cui godimento e la cui distribuzione sono modellati attorno a una relazione fra Stato e individui che oscilla fra il paternalismo, il nudging e l’aperto autoritarismo.

    La titolarità dei diritti non spetta agli individui: è lo Stato che concede, o non concede, sulla base di quanto questi individui appaiono disciplinati, o disciplinabili. È cronaca recente, d’altronde, che secondo alcuni esponenti di un partito di governo, chi non intende sottoporsi al vaccino e si ammala di Covid dovrebbe pagare di tasca propria il ricovero in terapia intensiva.

    Che la pandemia possa offrire il pretesto per l’affermazione di questa nuova modalità di distribuzione delle risorse è semplicemente frastornante e credo che il contesto pandemico abbia reso drammaticamente evidente quanto sia alto il numero di persone disposte a dare il proprio consenso a questo modo di governo. 

    Fotogramma dal film ‘Kiss Me Before It Blows Up’ (2020) in programma al Mix Festival Internazionale di Cinema Lgbtq+ e Cultura Queer

     

    C’è un altro aspetto che fa tornare similitudini e contrari tra le due epidemie ed è l’emergere di voci radicali. Non possiamo dimenticare che proprio dalla stagione della crisi dell’AIDS è emerso il pensiero queer ed esperienze molto innovative e radicali come Act-Up. L’irruzione nella chiesa di San Patrick, ad esempio, non fu solo una protesta contro la morale religiosa, ma indicava nella Chiesa una enorme questione politica. Nel tuo ultimo libro, Comunismo queer, ti spingi a indicare in quello che definisci “modo di produzione eterosessuale” una macchina di produzione dei soggetti e delle relazioni sociali, che dovrebbe essere sovvertita. 

    Per il marxismo, com’è noto, tutte le oppressioni non interamente riconducibili al rapporto conflittuale tra capitale e lavoro, tra cui l’oppressione di genere e sessuale, sono intese come “sovrastrutturali” (cioè culturali, o nella migliore delle ipotesi ideologiche), ma in ogni caso non implicate nella dimensione “strutturale” del modo di produzione.

    In Comunismo queer, al contrario, considero importante collocare il modo di produzione eterosessuale proprio nella “struttura” marxianamente intesa. Questa mia insistenza sulla questione del modo di produzione eterosessuale vuole avere una precisa funzione non solo per la teoria politica marxista e per i movimenti anticapitalisti, ma anche, o soprattutto, per i movimenti Lgbt+. Anche loro, infatti, rischiano di occultare la posizione strutturale del modo di produzione eterosessuale, limitandosi a celebrare la “sovrastruttura”, il “culturale”, improntando la propria lotta a una razionalità più o meno esplicitamente liberale, al suo lessico politico e al suo corredo di correttivi formali, contribuendo più o meno inconsapevolmente a occultare la matrice della propria oppressione.

    Detto questo, il mio intento non è solo di contribuire a una maggiore e più precisa interconnessione tra la lotta anticapitalista e la lotta queer, ma di inquadrare entrambe queste lotte, dal punto di vista teorico, in una prospettiva materialista che assuma la posizione strutturale del modo di produzione eterosessuale.

    La mia idea, infatti, è che il modo di produzione eterosessuale è ciò che offre al capitalismo le risorse umane e simboliche – cioè gli uomini e le donne, i loro processi di soggettivazione e di relazione – per affermarsi storicamente e continuare a riprodursi. Di conseguenza, la sovversione di questo modo di produzione costituisce senza dubbio uno dei requisiti per la sovversione del modo di produzione capitalistico stesso.

    Sovvertire il modo di produzione eterosessuale è un proposito politico al quale chiunque dimostri di condividerlo, e si impegni in tal senso, può prendere parte. In questo senso, è un proposito radicalmente queer. Ma non significa semplicemente opporsi all’omo-lesbo-bi-transfobia e alla misoginia: significa qualcosa di più, e, se posso aggiungere, qualcosa di più grande.

    È pensabile, mi chiedevo, rifondare modi di soggettivazione e di relazione sociale che non costituiscano il prodotto dell’eterosessualità? È pensabile, il mondo, al di fuori del realismo eterosessuale? Porsi queste domande significava prendere le mosse dalla considerazione dell’eterosessualità come una razionalità sottesa alla produzione materiale degli “uomini” e delle “donne” in quanto tali. In secondo luogo, significava constatare che la relazionalità sociale nel suo complesso, nella misura in cui vede relazionarsi tra loro costantemente “uomini” e “donne”, dipende da questo modo di produzione, e che in esso andasse dunque ravvisata la produzione delle forme assai più ampie, e non sempre immediatamente decodificabili, di oppressione, di diseguaglianza e di violenza sociale. Infine, significava comprendere come sovvertire definitivamente questo modo di produzione, perché in assenza di quella sovversione non perverremo mai a sovvertire la produzione differenziale dell’oppressione, della diseguaglianza e della violenza attualmente vissute dal maggior numero di persone al mondo, in un modo che non ne preservi, tuttavia, il presupposto strutturale. 

    Da questo dialogo/intervista è stato tratto il Manifesto del Mix 2021, “Chi spunta dal deserto / come colonne di fumo?”

    Note