Community Hub, due o tre cose che so di loro

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    I community hub non esistono in natura. Indicano una direzione di lavoro, che a me sembra promettente. Certo, la fertilità di questa espressione dipende da come saremo in grado di usarla.

    Io l’ho ascoltata lo scorso anno in una conferenza della Commissione a Bruxelles. Non sono certo che il relatore volesse davvero intendere le cose che ci ho letto io. A me è sembrata subito generativa, capace di catturare processi in corso e prospettive di intervento su cui vale la pena spendersi. Ci ho pensato un po’ su e iniziato a condividerla con gli amici e colleghi con i quali abbiamo intrapreso un percorso di riflessione, di discussione pubblica e di intervento ( Ci stanno lavorando, oltre a chi scrive, Erika Lazzarino di Dynamoscopio, Gaspare Caliri e Nicoletta Tranquillo di Kilowatt, Andrea Bocco di SuMisura. Un documento che restituisce una preliminare fotografia del tema è depositato qui. Un primo momento di discussione pubblica lo abbiamo organizzato a Bologna, lo scorso 16 maggio; un secondo si è svolto a Milano, il 24 maggio).

    Cosa significa davvero Community Hub? Lo scopriamo venerdì 25 gennaio a LaClaque, a Genova, per la terza tappa del nostro progetto di co-scrittura partecipata Nube di Parole.

    Ragionare di community hub significa mettere a fuoco situazioni problematiche, risorse potenziali, attori e fenomeni, indicando piste di lavoro promettenti.

    1. Incontriamo, nella attività di policy design, problemi pubblici di difficile trattamento: per questa classe di problemi, non abbiamo risposte prêt-à-porter. Dopo anni di esperienze e abbondantissima letteratura, possiamo dire che ciò che va sotto il nome di rigenerazione urbana non ammette soluzioni semplici. Ciò non significa che sia un oggetto intrattabile perché troppo complicato. Significa piuttosto che le ricette sono inservibili; quando pensiamo di averle, ci stiamo molto probabilmente sbagliando. Abbiamo (dobbiamo avere) solo risposte tentative, contingenti, falsificabili. Dobbiamo costruire progetti sperimentali, che funzionino come dispositivi di indagine sulla situazione problematica che intendono trattare. Abbiamo però qualche principio d’azione, che può orientarci, perché sappiamo che ha funzionato.

    Il primo principio è quello della prossimità: un progetto efficace di rigenerazione urbana richiede un esercizio di prossimità, che può essere garantito soltanto da una struttura radicata nel contesto. Disegnare e condurre efficacemente processi di rigenerazione urbana implica un lavoro di quartiere, che non si riduce alla costruzione di un qualche evento occasionale di partecipazione, ma richiede una attività svolta fianco a fianco con i gruppi e i singoli che intendono mobilitarsi.

    Il secondo è l’integrazione, che va intesa non solo in termini di multidimensionalità (l’azione integrata essendo quella che riconduce ad un campo locale azioni ricadenti in più settori di policy), ma anche in termini di tensione costante che va mantenuta lungo le diverse fasi del processo di policy, a partire dal disegno, durante l’accompagnamento e fino all’implementazione.

    Il terzo principio è quello della co-creazione: non siamo più oggi nella condizione di tematizzare la rigenerazione urbana come una politica pubblica al cui disegno partecipano gli attori locali. La “partecipazione progettata” ha fatto il suo tempo. I soggetti riflessivi hanno smesso di esprimere domande che qualcuno raccoglierà e trasformerà in dispositivi di policy. Non hanno bisogno di chiedere, perché si costituiscono come attori e semplicemente fanno: non intendono più ingaggiare un confronto con la politics e hanno smesso di esserne fonte di legittimazione, nel momento in cui hanno iniziato a occuparsi di policies. Se la partecipazione intesa come maieutica delle volizioni della società affidata ai facilitatori professionisti può essere ancora utile per le “grandi opere”, cioè per interventi di dimensioni consistenti che spesso sollevano controversie locali, essa è diventata inservibile per sostenere i processi di rigenerazione urbana. Sono questi terreni di confronto tra decisori, abilitatori, city makers, dove l’interazione può assumere forme di confrontation game, negoziato o co-creazione.

    2. Ci sono dotazioni che non sappiamo bene come usare, patrimoni che muovono i primi passi verso la loro costituzione come risorsa, da quando hanno iniziato a incontrare attori in grado di metterne a valore le potenzialità. Il nostro Paese è pieno di immobili, per usi residenziali, industriali, terziari, che sono sfitti, dismessi o sotto-utilizzati. Sono l’esito di un gigantesco “spreco edilizio” che ha radici non recenti. A fronte di una cospicua disponibilità di stock immobiliare, le forme della domanda e i modi d’uso si stanno fortemente diversificando.

    Gli spazi della produzione stanno dando luogo a nuove forme di territorializzazione, strutturandosi per filiere e cluster produttivi che superano, ad esempio, la tradizionale distinzione tra manifattura e servizi. Si danno fenomeni inaspettati, come ad esempio, la nascita di un neo-manifatturiero urbano, il diffondersi di un artigianato digitale, il ritorno dell’agricoltura nelle cascine in città. Nuovi spazi ibridi, che ospitano professionisti, piccole imprese, start-up, si diffondono nelle città. Le strutture che sono il deposito di passati investimenti pubblici in termini di “welfare materiale”, come le scuole o le biblioteche civiche, tendono ad aprirsi ad una molteplicità di usi, più ore al giorno, per attività che non sono quelle istituzionali. Perfino l’erogazione di servizi sociali prova ad essere esercitata al di fuori degli spazi canonici e frammista ad altri usi, andando ad occupare immobili ex commerciali (come è il caso del progetto WeMi del Comune di Milano). Sono pratiche di riuso, riciclo e upcycling che investono ormai una parte non marginale del capitale fisso territoriale, generando, a volte, impatti non trascurabili in termini di valore sociale.

    3. Ci sono fenomeni che deviano rispetto al canone, da quello che ci ha trasmesso la tradizione o da quello che ci piacerebbe fosse ancora il canone: per questi, possiamo nutrire repulsione o curiosità, ma in ogni caso dobbiamo interrogarci su come governarli. Ad esempio, sappiamo da tempo, per via teorica, che la proprietà pubblica di un bene non è sufficiente a garantire il suo uso pubblico. Cominciamo anche ad avere diffuse evidenze empiriche che tale condizione non è neanche sempre necessaria.

    Ci sono attori che cercano di produrre e diffondere innovazione, che si muovono secondo logiche di sconfinamento tra ambiti divenuti permeabili, tra logiche di mercato e produzione di valore d’uso. Vi è un insieme di pratiche, che possiamo sbrigativamente definire “innovazione sociale”, che produce beni pubblici il più delle volte non avendo rapporti con il settore pubblico (È quell’insieme che, ad esempio, la ricerca “Segnali di futuro”, curata da Avanzi, ha mappato nell’area milanese) .

    Sono pratiche che perseguono prospettive di utilità collettiva attraverso la forma dell’impresa. Estraggono valore sociale da beni privati, secondo regimi che non sono di supplenza nei confronti del pubblico, né di sudditanza nei confronti del classico privato for profit: sarebbe infatti riduttivo leggerli come risposte a market failures o a state failures.

    Allo stesso modo, intrattenendo con il pubblico relazioni di co-creazione, sarebbe scorretto interpretarli secondo la nozione di sussidiarietà, che “raramente ricopre la cooperazione tra pari”, come sostiene Angelo Pichierri ( A. Pichierri, “Privato/pubblico>Comune”, in P. Perulli (a cura di), Terra mobile. Atlante della città globale, Einaudi, Torino, 2014).

    Sono ordinamenti produttivi di “beni pubblici locali”. Costruiscono e mobilitano risorse poste in comune: il loro carattere pubblico non è un dato, ma un costrutto. In qualche caso, tendono a far tornare collettive, dotazioni che hanno visto offuscato questo loro carattere a causa di usi privatistici: è la strada, ridotta a parcheggio di automobili, reinterpretata come social street; o al mercato comunale, che di pubblico ha la superficie, che solo un sofisticato policy design può far tornare a generare impatti collettivi.

    Ci troviamo dunque di fronte a problemi e risorse che richiedono soluzioni sperimentali, a fenomeni che sollecitano il riconoscimento del loro stato liminale e la cura del loro carattere anomalo, ad attori che del trespassing fanno la cifra della loro azione. I community hub aprono a prospettive di intervento interessanti con riferimento a queste sfide.

    Sono strutture di servizio, che possono fornire informazioni ed erogare servizi di welfare pubblico, ma non si limitano a questo: praticano l’inclusione sociale offrendo counselling per ragazzi, spazi per il doposcuola dei bambini, sale per favorire l’incontro e la colloquialità per comunità straniere. Hanno bisogno di mettere a reddito gli spazi per potersi mantenere e pagare l’offerta sociale, per cui ci puoi trovare l’artigiano e la postazione per il giovane creativo, la start-up e l’impresa sociale, il coworking e il fab-lab. Poi magari, insieme alla cooperative che fanno inserimento lavorativo, disegnano programmi per lo sviluppo dell’autoimprenditorialità dei giovani del quartiere.

    Sono spazi ibridi non per una qualche poetica alla moda, ma per necessità: devono costruire modelli di business che facciano tornare i conti e disegnare programmi funzionali che usino intensamente le infrastrutture di cui dispongono. Cambiano funzione e ospitano pratiche differenti, che si alternano nel corso della giornata o nei giorni della settimana: al mattino preparano colazioni, al pomeriggio vi si danno convegno le mamme straniere, alla sera ci si balla il tango. Lasciano spazi ai talenti culturali, ma non sono una sede espositive o un museo. Magari sono cascine, lo sono state o lo sono ancora parzialmente.

    Hanno praticato la temporaneità, ma solo perché tendono ad assumere una logica incrementale: il loro obiettivo è il consolidamento, non il beau geste dell’apripista che poi si dedica ad altro. Tendono ad essere ostinati. Si collocano a metà tra la pura appropriazione individualistica e l’ossessione comunitaria della condivisione a oltranza. Definiscono certamente comunità inclusive, agite da individui con sistemi di preferenze convergenti, mosse da interessi analoghi, che si riconoscono in obiettivi congiunti. Danno luogo a joint venture che erogano beni pubblici (servizi, infrastrutture) e aiutano a riprodurne (conoscenza, fiducia, riflessività, civismo): di questi, fanno lavoro e impresa. Sono un “pubblico minore”, che ambisce a dispiegare effetti su “pubblici” più ampi (C. Bianchetti (a cura di), Territori della condivisione, Quodlibet, Macerata, 2014).

    Sono un materiale interessante, perché si presentano come strumenti per orientare i processi di rigenerazione urbana, dei quali danno una interpretazione molto più colta di quella che riescono a fornire i bandi del Governo. In primo luogo, sono appunto focalizzati sui processi, prima che sulle opere; se investono in interventi fisici o in beni strumentali, sanno bene a cosa gli servono. Può sembrare incredibile, visto dalla prospettiva della pubblica amministrazione, ma in genere intervento edilizio, funzioni ospitate e modello gestionale sono progettati insieme.

    Riconoscono che il campo di intervento non è dato: la loro locality coincide con lo spazio definito dalla loro azione e dalle reti di relazioni che intrattengono con gli attori della propria rete. Il campo locale è un campo strategico: non dovendo gestire programmi area-based, possono permettersi di mettere in tensione i confini del quartiere, costruendo reti di relazioni anche molto estese, facendo convergere su quello specifico campo locale interessi e ordini di opportunità diversificati, che disegnano sistemi di governance relativamente sofisticati.

    In questo senso, sono pratiche place-based. Il campo locale è scelto, come risultato di una decisione tra alternative: lavoriamo qui perché si danno maggiori opportunità di intervento, oppure qui la nostra azione può essere più efficace, qui abbiamo reti partenariali attive.

    Lavorano negli interstizi, in quelle parti non toccate o lasciate scoperte dalle politiche pubbliche. Si collocano al margine dei processi più istituzionali, pur non essendo affatto marginali (cioè condannati all’irrilevanza), perché così si può più facilmente cogliere e suscitare l’innovazione. Come sostiene Carlo Donolo infatti, oggi nel nostro paese “i fattori di innovazione si ritirano sul margine e nelle pieghe” ( C. Donolo, Italia sperduta, Donzelli, Roma, 2011). Porsi al margine dà modo di sperimentare una diversa prospettiva; significa scegliere di affrontare un problema aggredendolo dai bordi; significa assumere uno sguardo liminale nella consapevolezza che è strategicamente fertile.

    Sanno progettare, catturano bandi: non disdegnano il grant, ma possono praticare anche schemi più complessi. Sono opera da nuovi imprenditori, che hanno superato il modello della cooperativa che gestisce servizi sociali; di operatori culturali che tendono a fare della creatività una impresa. Allo stesso modo, non c’entrano nulla con le assistenze tecniche o i professionisti dell’accompagnamento sociale, anche se a volte da questi ambiti provengono e ne costituiscono l’evoluzione. Sono il risultato dell’opera dei nuovi city makers, perché i maker urbani sono tutti quelli che completano la filiera della decisione, dal progetto iniziale alla sua realizzazione e gestione.

    Sono community hub perché della “comunità che viene” danno una accezione del tutto processuale, secondo una tensione progettuale che cerca dispositivi di avvio. Sono “spazi della condivisione”, dove si danno azioni orientate (a volte intenzionalmente, a volte come risultato sotto-prodotto) a ispessire il legame sociale. Alimentano potenzialità non esplorate: piuttosto che rispondere a bisogni consapevolmente espressi dalla società locale, sostengono lo sviluppo di possibilità evolutive non intese. Sono la sorpresa che apre al cambiamento. Vale la pena seguirli con attenzione.

     

    Immagine di copertina da Unsplash

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