L’edicola che non c’è: una nuova casa e un nuovo archivio per la controcultura a Milano

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    In occasione dei giorni di Bookcity, Agenzia X e Moicana (Nicola Del Corno) proporranno l’apertura tunnel della M1 Duomo-Cordusio dell’Edicola che non c’è (qui la campagna di crowdfunding), un progetto pensato per rilanciare la memoria e il dibattitto attorno al mondo delle riviste milanesi della controcultura: da Mondo Beat a Pianeta Fresco, da Insekten Sekte a Re Nudo e L’erba Voglio, fino agli anni ottanta con FAME, Amen, TVOR; agli novanta con Fikafutura, Hard Times e il cyberpunk di Decoder e Klinamen. E infine gli anni duemila con Towanda!, SpeedDemon, SpeakOut, il Buco e le ultime arrivate MilanoX, Strumenti critici e Antitempo.

    Un progetto che non solo permetterà a tutti i visitatori dell’Edicola che non c’è di sfogliare le fanzine, ma che prevede anche una fase di sviluppo e digitalizzaione dell’archivio delle pubblicazioni. Quale occasione migliore dunque per scambiare due parole con Marco Philopat e Nicola Del Corno su quello che fu (e che sarà) la controcultura a Milano e sulle ambizioni dell’Edicola che non c’è.

    Cosa hanno rappresentato nel secondo Novecento a Milano le riviste della controcultura?

    A partire dagli anni sessanta hanno rappresentato un formidabile strumento di aggregazione e formazione giovanile, migliaia e migliaia di pagine su cui venivano stampate informazioni, disegni, concetti, foto e ragionamenti su diverse tematiche aliene allo status quo: le battaglie per i diritti civili, approfondimenti su proteste e contestazioni, le lotte di carattere politico e molti altri argomenti considerati illegali o “scandalosi” come la sessualità e il consumo di droghe.

    La comunità solidale è uno dei pilastri su cui si poggiano tutte le controculture

    Tutti coloro che erano appassionati di scrittura e di grafica potevano fare sentire la propria voce non filtrata dal mondo degli adulti, esprimere la propria opinione e divulgarla con la vendita militante nelle strade delle città e in provincia. La costruzione di una redazione permetteva inoltre agli individui coinvolti di sperimentare rapporti di dialogo con i propri simili, conoscendo le varie dinamiche di relazione umana quando si coopera per un progetto comune. Anche per comprendere l’importanza delle idee messe in condivisione e le problematiche sui rapporti di potere che si instaurano nelle riunioni.

    A quali pubblici facevano riferimento?

    Il pubblico, come i redattori, erano e sono tuttora nella fascia dai 15 ai 35 anni, prima della fase in cui i processi di professionalizzazione entrano in gioco. Si tratta comunque di un pubblico non certo numeroso, formato dalle menti più inquiete e dissidenti, provenienti soprattutto da situazioni familiari e sociali difficili, giovani che trovavano nelle pagine delle riviste controculturali delle idee e degli spunti, ma anche precisi percorsi e attitudini esistenziali, in grado di liberare un immaginario alla ricerca di un’identità collettiva. Tutto ciò per provare a migliorare la propria vita

    Quale è l’eredità culturale di quelle riviste?

    La comunità solidale è uno dei pilastri su cui si poggiano tutte le controculture, in contrapposizione alle logiche dell’individualismo, una comunità in cui il valore dell’amicizia si accosta a quello della lotta fino a renderlo inossidabile, questa non è solo una possibile eredità, ma anche un messaggio che può avere una forte influenza sul presente.

    Le riviste controculturali non hanno mai conosciuto frontiere di classe, di genere o di razza

    In secondo luogo, come allude già il termine underground, le aggregazioni spontanee che diventano redazioni di riviste agiscono in semiclandestinità, sono cioè fotosensibili alle sirene dell’inesorabile macchina del turbo capitalismo tecnologico odierno. “Solo in quei luoghi dove non arriva la società dello spettacolo si può riconoscersi e forse trovare una via d’uscita insieme”.

    Infine c’è da considerare il fatto che le riviste controculturali non hanno mai conosciuto frontiere di classe, di genere o di razza e hanno da sempre prodotto un’infinità di idee e spunti rivolti alle fasce più deboli della società, con una funzione educativa alternativa e di creazione di un messaggio sociale capace di stimolare la lotta contro le diseguaglianze.

    Oggi che forma dovrebbe avere una rivista underground?

    Oggi si fa fatica a capire il valore della parola “sociale”, siamo in un periodo di grande transizione dove regna il disorientamento più totale e quindi i giovani preferiscono amputarsi una “e”, immergendosi dentro le immense solitudini connesse dei “social” che nulla hanno a che fare con le relazioni vis-à-vis necessarie per realizzare un progetto in cui si mette in gioco la materialità effettiva delle idee. La forma di una rivista underground a nostro parere rimane quella cartacea, uno strumento libero di girare per le strade e in grado di abbattere le pareti divisorie delle nostre case e quelle del web.

    La Milano di oggi è ancora capace di accogliere quella forma di azione politica e controculturale?

    Milano da 50 anni è un centro nevralgico della scena controculturale, tra i più vivaci in Europa. Non sappiamo se sarà ancora capace di accoglierla e sostenerla, resta il fatto che a differenza delle forme di ricomposizione sociale tipiche del novecento – partiti, sindacati e organizzazioni extraparlamentari – i messaggi che provengono dall’underground hanno ancora una forte capacità di incidere sull’immaginario dei più giovani.

    Se non a Milano dove intravedete il medesimo spirito di quegli anni?

    Non è facile individuare e ancora meno storicizzare le dinamiche del presente, ma durante la ricerca con il collettivo Moicana, formato da alcuni studenti di storia della Statale e dagli autori e autrici di Agenzia X che sono stati protagonisti delle diverse controculture, ci siamo resi conto che se nei primi anni del duemila c’era stata un’indubbia crisi della stampa underground, in questi ultimi tempi abbiamo trovato parecchie riviste provenienti da diversi ambiti di espressione artistica e sociale: dagli studenti universitari, agli animalisti, dai collettivi che si occupano di grafica e fumetti, alle pubblicazioni dei gruppi militanti impegnati nelle lotte sul territorio e delle palestre popolari, fino ad arrivare alla scena Lgbt e quella dei poetry slam.

    Qui per sostenere l’Edicola che non c’è

    Perché immaginare un’edicola che non c’è? Quale è il senso del vostro progetto?

    L’idea è quella di costruire una sorta di esposizione come se fosse un’edicola, dove chi entra può aggirarsi tra gli scaffali divisi per decenni e iniziare un percorso storico tra le diverse caratteristiche delle riviste esposte.

    Il settore degli anni sessanta colorato, psichedelico con un sguardo rivolto a un futuro radioso, gli anni settanta di colore rosso come il conflitto di classe e i suoi linguaggi fortemente ideologici che si scontrano con quelli folli e geniali del 1976/77. Il nero distopico e senza futuro del punk con l’esplosione di una miriade di ‘zine autoprodotte grazie all’utilizzo della fotocopia e poi lo scaffale frattalico degli anni novanta con gli studi sul no copyright e l’etica hacker, sui rapporti di genere e di razza e l’arrivo dell’hip hop.

    Tutto il materiale raccolto è stato digitalizzato e verrà messo in rete e gratuitamente scaricabile

    L’ultimo settore sarà quello dedicato al primo ventennio del secolo con una diminuzione delle riviste a favore di blog e siti sul web (in questo caso ci saranno dei monitor che mostreranno alcune testate elettroniche), con invece un inaspettato incremento di nuovi progetti cartacei negli ultimi anni.

    Chi verrà all’esposizione si potrà fare un vero e proprio viaggio attraverso tutte le pubblicazioni, consultando il materiale autoprodotto dalla cultura alternativa nel suo svolgersi storico.

    Proprio per questo proponiamo “l’edicola che non c’è” nel tunnel M1 Duomo-Cordusio, il luogo dove nel 1966 nacque la redazione informale della prima rivista controculturale milanese: “Mondo Beat”.

    Cosa vi aspettate dalla messa online dell’archivio da un punto di vista di germinazione culturale?

    Il lavoro di ricerca è stato realizzato in 6 mesi consultando molti archivi storici, sociali e anche in quelli individuali. Tutto il materiale raccolto è stato digitalizzato e verrà messo in rete e gratuitamente scaricabile. Tutto ciò permetterà la connessione tra memoria e realtà per contribuire a sviluppare i movimenti a venire.

    Quale rivista manca di più tra le fanzine in archivio e quale sarebbe utile rifare, ripensare?

    Le esperienze editoriali dell’underground più importanti di questi 50 anni presi in considerazione sono “Re nudo” e “Decoder”, due riviste che hanno avuto un vasto pubblico di riferimento e che hanno interpretato al meglio le innovazioni sociali e culturali del loro tempo.

    Note