Tempo fa, sono stati ritrovati degli scatti di Fulvia Farassino, diapositive degli ultimi anni di vita di Pier Vittorio Tondelli, compresi tra il 1985 e il 1991. Tra le decine e decine di fotografie ce n’è una che lo ritrae in spiaggia, d’inverno, avvolto in un largo cappotto nero: quel cappotto è stato la linea guida di sguardo dell’illustratore Alessandro Baronciani, che lo ha fatto indossare a una ragazza sognante, a testa in giù, disegnata sulla parete dello Spazio Tondelli di Riccione, inaugurato nel 2015. Il territorio è una realtà vivente, stratificata, plurale che si trasforma, un continuo richiamo tra il passato e quello che sarà.
Alla vigilia dell’ultimo appuntamento del Riccione TTV Festival, ho incontrato Simone Bruscia, direttore della kermesse, per parlare di teatro, arte, danza e territorio, anche alla luce del recente Premio Ubu assegnato a Riccione Teatro, un importante riconoscimento non solo per i traguardi raggiunti ma soprattutto l’attestato di un indirizzo di ricerca che sembra andare nella direzione giusta.
La tua storia professionale passa attraverso luoghi diversi: riminese di nascita, ti laurei a Roma ma torni in Romagna. Cosa ha significato per te questa esperienza e che sguardo ti ha donato su Riccione, la città in cui hai scelto di vivere?
È sempre stato un mio grande desiderio provare a fare quello che Luciano Bianciardi chiamava il “lavoro culturale”. Il primo grande tentativo è arrivato tra il 2004 e il 2005, quando completati gli studi a Roma, città nella quale mi sono formato e che ancora oggi sento molto familiare, tornai a Rimini con l’idea di dar vita a un festival che facesse dialogare la musica con la letteratura. Nacque così, grazie anche alla collaborazione di Mauro Ermanno Giovanardi, leader dei La Crus, il festival “Assalti al cuore”, un titolo baudelairiano, anche aggressivo, per una kermesse in realtà molto morbida ma votata a esperimenti di ricerca.
Si è trattato di un’esperienza importante che mi ha consentito di ritrovare un rapporto con la mia città di nascita e, più in generale, con la Romagna. Negli anni successivi, infatti, ho diretto alcune stagioni teatrali di Savignano sul Rubicone e Bellaria, insieme alla direzione artistica del Bellaria Film Festival.
L’approdo a Riccione Teatro è arrivato nel 2010 con la direzione del TTV insieme a Fabio Bruschi e, a seguire, ho deciso di trasferirmi qui. In questi anni Riccione è cambiata molto, così com’è cambiata anche la percezione dei progetti culturali nella città. Il pubblico riccionese è un pubblico estremamente ricettivo e curioso, sebbene sia eterogeneo, costituito anche da non addetti ai lavori. Basti pensare che Riccione ha avuto il proprio teatro nel 2015 con l’inaugurazione dello Spazio Tondelli, che ha segnato davvero l’inizio di una avventura culturale per questa città. Mi meraviglia sempre, come il primo giorno, la capacità di stupore che ha il pubblico di questo territorio romagnolo, è qualcosa di squisitamente provinciale: personalmente sono molto legato a questa parola, perché la provincia è un luogo di solidità, prima ancora affettiva che geografica.
Tu hai la direzione del Riccione Festival dal 2010. Cosa rappresenta questo evento per il territorio e come è cambiato negli anni?
Il TTV (Teatro Televisione Video) nasce nel 1985 da un’idea di Franco Quadri con la volontà di mettere in relazione le arti sceniche con il video. Nello scenario europeo erano gli anni della video-danza e del video-teatro, ma erano anche gli anni della documentazione teatrale e di quello che, almeno per me, resterà sempre un rapporto molto complesso, quello tra il teatro e la televisione.
In principio non si trattava di un festival, ma di un premio e la restituzione era una rassegna video, per l’appunto, ed è proprio in quel periodo che abbiamo acquisito documentazioni ricchissime che fanno parte di un archivio prezioso.
Da quando lavoro al TTV il progetto è cambiato profondamente: dal Premio si è passati al Festival, mentre accanto alle arti sceniche e a quelle performative è subentrata anche la fotografia e il cinema. Questo percorso di mutazione è avvenuto incrociando progetti e autori che hanno fatto la storia recente di questo Festival, penso, ad esempio, ai video di Peter Greenaway, grande regista e sperimentatore che ha attraversato la videoarte, acquisiti da Riccione Teatro o, ancora, Matteo Garrone, che è stato ospite in una passata edizione del Festival e con il quale abbiamo provato a creare interferenze tra teatro, cinema e arti visive. In questa edizione abbiamo presentato un lavoro a cui tengo molto, in quanto emblema di tutte le attività del TTV.
Si tratta di “Segnale d’allarme. La mia battaglia”, progetto che abbiamo concepito con Elio Germano e Pierfrancesco Pisani partendo dal lavoro di drammaturgia nato dall’incontro di Elio Germano e Chiara Lagani, (compagnia Fanny & Alexander) già premio all’innovazione drammaturgica alla penultima edizione del Premio Riccione. Lo spettacolo, che è stato frutto di un lungo e articolato progetto di residenza a Riccione, ha debuttato allo Spazio Tondelli, in anteprima assoluta per gli studenti di Riccione.
In un secondo momento, insieme al produttore, Pierfrancesco Pisani e grazie alla collaborazione con il giovane regista Omar Rashid, abbiamo deciso di farne un progetto VR, virtual reality, concepito e girato allo Spazio Tondelli, un’opera che si può vedere con gli appositi visori e che ci ha permesso di essere ospiti alle giornate degli autori della Mostra del Cinema di Venezia l’anno scorso. Attualmente stiamo considerando di trasformare questo lavoro in un film, anche grazie alla collaborazione con la Cineteca di Riccione. Credo che questo progetto racconti al meglio l’attività produttiva e non solo promozionale di Riccione Teatro.
Il TTV ha da sempre un cartellone in cui molti degli spettacoli sono immaginati in precisi luoghi della città; quest’anno, ad esempio, la spiaggia ha avuto un ruolo centrale. Che spazi servono in questa città, per immaginare un teatro e arti visive sempre più facilmente fruibili per i cittadini?
In questi anni, grazie allo Spazio Tondelli, il teatro a Riccione ha acquisito una centralità. Lo Spazio non è un teatro all’italiana, è uno spazio scenico, una sala teatrale che abbiamo cercato di fare nostra e che ospita spettacoli che spesso vengono adattati per questa dimensione. Nonostante queste premesse, non siamo mai scesi a compromessi sulla proposta artistica: qui, i testi passano dalla pagina alla scena, ed è veramente interessante notare come tra gli abbonati ci sia molto riscontro non esclusivamente per gli spettacoli di punta, ma anche per la nuova drammaturgia. Tutto questo ha spinto l’amministrazione comunale di Riccione, che è sicuramente molto lungimirante, a riqualificare lo spazio e renderlo ancora più funzionale, trovando un accordo con i proprietari dello stabile, che è una vecchia casa del popolo, un edificio monumentale della città. L’intento è quello di renderlo ancora più capiente e più adatto alla scena del contemporaneo. Sarà uno spazio sempre più votato alla danza, alla musica e ai progetti sperimentali.
Nel territorio romagnolo ci sono tanti bei teatri, basti pensare al teatro Galli di Rimini, un teatro all’italiana che è estato inaugurato da poco e che ha seguito una via più tradizionale di riqualifica. Il mio sogno è che lo Spazio Tondelli diventi un punto di riferimento per i giovani e un luogo che possa contenere tutte le arti, dove realizzare anche i progetti più impensabili, riuscendo a far interagire l’intrattenimento con l’arte e la performance.
Credo che Riccione sia un posto perfetto per questo tipo di slanci, ce ne rendiamo conto anche quando scegliamo degli spazi per degli eventi culturali, che sia una spiaggia, un albergo, un terrazzo.
Mi viene in mente il primo Premio Riccione che ho diretto, nel 2011, quando decisi di fare la premiazione nel giardino del Grand Hotel, un hotel chiuso da anni, in evidente stato di abbandono ma incredibilmente magnifico. Non potrò mai dimenticare l’immagine di Massimo Zamboni “arrampicato” sulle finestre del Grand Hotel, mentre nel giardino Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco leggevano un inedito adattamento per il teatro de “Il piccolo principe” di Antoine de Saint Exupery, scritto da un giovanissimo Pier Vittorio Tondelli e l’antica facciata videomappaata li proiettava in un dimensione altra.
Pier Vittorio Tondelli, una figura che nella tua vita professionale e personale è molto presente, ha sempre vissuto la dualità tra provincia e grande città, in particolare con uno sguardo all’Europa, considerata la meta ambita del lungo peregrinare. Il Riccione Festival oggi si è molto aperto ad una visione internazionale. Come siete arrivati a questo traguardo?
Nelle cronachette, nei giri in provincia, citando il suo Weekend post moderno, Tondelli è riuscito a costruire una incantevole polifonia geografica, mettendo insieme la Riviera d’inverno con le periferie di Berlino, l’ippodromo di Cesena con la Klagenfurt di Ingeborg Bachmann. Ecco, anche il nostro Festival ha sempre cercato di mantenere, fin dal principio, la sua vocazione ad uno sguardo internazionale, pur restando ben radicato al nostro territorio: da un lato abbiamo ospitato personalità quali Peter Greenaway, Dan Fante, figlio del leggendario John, Lutz Forster, direttore artistico del Tanztheater Wuppertal, dall’altro abbiamo allargato i confini del Premio anche alla drammaturgia europea. L’anno scorso, ad esempio, grazie a Fabula Mundi Playwriting Europe e PAV, abbiamo ospitato un bellissimo focus sulla drammaturgia polacca contemporanea, con ospiti due delle più interessanti drammaturghe della scena polacca, Elzbieta Chowaniec e Anna Wakulik.
Soprattutto, ci stiamo interessando alla diffusione e alla produzione della drammaturgia italiana all’estero: tra gli altri progetti, il lavoro in Spagna, in collaborazione con Laura Pugno, con l’Istituto italiano di cultura e il Centro Dramàtico Nacional Valle Inclàn, e il lavoro a New York, grazie alla cura di Valeria Orani, con l’Italian Playwrights Project, al Martin E. Segal Theatre Center.
Il tema della geografia letteraria, quella geografia che indaga i luoghi attraverso un occhio parziale, coinvolto, è un tema molto caro al tuo Festival. Cosa ti porterai di questa edizione?
Qui a Riccione abbiamo sentito molto il tempo del risveglio, quel momento che è seguito alla quarantena, e questo grazie al mare, poiché lo abbiamo visto rigenerarsi. In quei mesi di silenzio il mare incombeva in città, la sua voce si sentiva dai tetti, dalle finestre aperte. Questa edizione per me, per noi, è significato ripristinare il dialogo con quel mare e l’ultima performance di questo secondo appuntamento del Festival, la Nelken Line bauschiana che ha visto coinvolte oltre duecento persone, tra autoctoni, danzatori, turisti o semplici curiosi, è stato il giusto coronamento di questo sentire.
Durante la camminata danzante alla nostra sinistra avevamo “l’oceano Adriatico” (così come l’ha definito la danzatrice australiana Julie Shanahan), alla nostra destra lo skyline degli alberghi riccionesi, inconfondibile, davanti a noi Monte San Bartolo, già le Marche. Quel nostro trovarci lì avvolti nella giusta distanza anche in un momento come questo in cui la regola è e deve essere il distanziamento mi ha riportato alla mente i versi di una poesia di Andrea Zanzotto: “Qui non resta che cingersi intorno al paesaggio/qui volgere le spalle”.