Tutto chiede libertà: il ritorno di Jan Fabre

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    Arrivo alla stazione di Anversa da Bruxelles in treno. Sono le dieci di sera, ma è ancora giorno. C’è una luce resistente. Sono in Belgio da poche ore e già mi sento in una versione personale, sebbene meno solitaria, delle notti bianche. Nessuno qui è andato via. La città è piena di gente. Il giorno promette di non finire e io me ne vado in giro per il quartiere. Il ragazzo che mi prepara il kebab (uno dei kebab migliori della mia vita), mi chiede perché sono qui.

    Sarà una deriva, una specie di vizio intellettuale, un tentativo di alternativa, per me che ho una specie di atavica inabilità al turismo: sarà che io alla me turista non ci credo, ma da qualche tempo la mia idea di viaggio è quella di percorrere chilometri, voltare le spalle alla patria e dirigermi all’estero per vedere degli spettacoli teatrali.

    Peak Mytikas (On The Top Of Mount Olympus) di Jan Fabre andrà in scena a Milano il 4 e l’11 novembre al Teatro Out Off

    È una pratica per assistere a lavori che altrimenti non potrei conoscere, mi dico. Ma – ci ho pensato – detto così è riduttivo, e non è questo il punto. Certo, è anche vero. Non sono moltissime le opportunità di assistere in Italia a eventi che ospitino gruppi internazionali, però – alla fine – queste opportunità a volte ci sono (almeno nelle grandi città o nei festival importanti). Ed è anche vero che alcune produzioni teatrali non vengono esportate e non escono dai loro paesi d’origine, ma anche questo in alcuni casi accade. Lo ribadisco: non è affatto una questione di opportunità.

    Quello che rende davvero diversa questa esperienza da spettatori è riuscire a spostare se stessi da una certa zona di comfort per sbilanciarsi, esporsi, molto prima che lo spettacolo inizi. Non si tratta di prendersi qualche ora per andare a teatro. È qualcosa di più. O forse è molto di più. È una specie di rito complesso che prevede uno spostamento nello spazio, un’immersione, nuovi odori, un’attesa e poi, alla fine, un incontro. Un incontro che accade nei luoghi dove quegli spettacoli sono stati immaginati e costruiti. Un incontro che si gioca tra le mura di casa degli autori. Una postura completamente nuova ci prende, una sorta di risveglio che, io credo e sento, amplifica in modi inaspettati il nostro percepire le cose.

     

    Peak Mytikas di Jan Fabre – © Hanna Auer

     

    “Sono qui per andare a teatro”, rispondo al ragazzo del kebab. E in effetti è quello che faccio. Il giorno seguente esco e, qualche statua di Rubens dopo, raggiungo a piedi il quartiere di Seefhoek, alle spalle della stazione. Un quartiere operaio in via di riqualificazione. Cammino fino al 23 di Pastorijstraat: qui trovo il portone del Laboratorium della compagnia Troubleyn / Jan Fabre. Lo spazio costruito col contributo di numerosi artisti (Marina Abramović, Bob Wilson, Pascal Rambert solo per citarne alcuni) è incantevole. Si vedono gli strati, si sentono il tempo e il passaggio delle persone. C’è un’energia molto potente, eppure pacata, in controllo. L’ingresso, il cortile, le sale: tutto mi sembra familiare. Sembra una casa, un rifugio dove è impossibile non percepire l’accumulo emotivo. Sono le due del pomeriggio e il pubblico (lo ammetto: molto più eterogeneo di quello a cui sono abituata in Italia) comincia a popolare l’atrio. Sono tutti in fibrillazione. Stiamo per assistere a Peak Mytikas (On The Top Of Mount Olympus), il nuovo lavoro del regista belga, scritto da Johan De Boose, già autore del memorabile Belgian Rules/Belgium Rules (abbiamo parlato del panorama del teatro belga qui). La performance – che nel foglio di sala è definita rave mitologico – dura otto ore. Ci prepariamo. Bevo un caffè americano lunghissimo, leggendo e rileggendo una targa di Alberto Garutti, incastrata nel pavimento:

    tutti i passi che ho fatto
    nella mia vita
    mi hanno portato qui, ora

    Entriamo in sala. Un affascinante Dioniso gender-fluid si autoproclama narratore e guida di questo viaggio che procede follemente senza rispondere alle coordinate che da spettatori cerchiamo per orientarci. Lo accompagna, lo sostiene e lo sfida un elettrizzante ed elettrizzato Prometeo. È una discesa o una risalita, un tuffo, una caduta, difficile stabilirlo, ma tutto si muove. Un cabaret inarrestabile quello di Fabre, che celebra violentemente tutte le cose umane: l’amore, la pace, il rispetto e sullo stesso piano l’odio, la guerra, il disprezzo. Vita e morte sono intercambiabili. Sembrano la stessa cosa. Come una risata o un grido disperato che spesso nel procedere del lavoro si accendono e si confondono. Peak Mytikas, il luogo che la performance vuole evocare, è la cima più alta del Monte Olimpo. Mytikas in greco significa naso. E siccome gli dei vivono su questa montagna, questo Naso è il naso stesso con cui le divinità godono della fragranza del mondo. Agli dei piace l’odore che proviene dalla terra. Odore di morte, odore di paura, di sudore e di desiderio, l’odore delle conquiste e quello sfinente delle tragedie annunciate. In questo carillon sconcertante tutto emana e tutto chiede libertà.

    Chiedono libertà i corpi degli undici straordinari performer (tra cui spiccano anche gli italiani Matteo Franco e Pietro Quadrino) che si portano – attraverso la ripetizione, la durata e la resistenza – a una trasformazione: diventano emblema di una fatica, di una mortalità, ma anche di una sovrumanità e di una grandezza che raccontano un essere umano seducente, creatura capace e potente, eppure straordinariamente fallace, misera e fragile, sempre amputata, colpita, sempre imbrigliata nelle contraddizioni culturali che la società gli costruisce attorno. Chiedono libertà i protagonisti designati: Edipo e Antigone, di cui durante lo spettacolo si assiste a diversi e ricercati monologhi. Vecchi eroi tornano e ci consegnano domande antiche ancora senza risposta. Edipo col suo desiderio di smettere di vedere il mondo, è davvero cieco? O è solo un vigliacco come siamo tutti? Perché a lui accade qualcosa di tanto funesto? Dove risiede la sua colpa? E sua figlia Antigone, la prima donna che ha detto no al potere – la prima anarchica della Storia – ha ancora un posto e una voce nel nostro presente? Quanto entrambi ci assomigliano? Chiedono libertà, infine e soprattutto, le parole e le azioni: un testo che sfida totalmente l’epoca, contraddicendo – prima di altro – due pessime derive del nostro tempo: la semplificazione e il buon senso come diktat. Una scrittura elegante, musicale, muscolare, polemica e profonda. Una drammaturgia che sa scavare dentro le ossa, sa ferire, ma sa anche concedere un respiro e un abbandono che assomiglia impunemente al riso. Un lavoro che tocca con lo stesso rispetto (o con la stessa mancanza di rispetto), l’ironia e la catastrofe della vita. Tutto chiede libertà e se la prende, facendosi accompagnare dal pubblico, testimone attento di tutto il rito.

     

    Peak Mytikas di Jan Fabre – © Hanna Auer

     

    Esco da questa strana festa, macabra e rumorosa, con un odore fortissimo di lavanda addosso, nel cuore una performance indimenticabile di Cédric Charron (storico performer di Fabre) e nelle orecchie le straordinarie musiche di Alma Auer, che la stessa artista esegue dal vivo durante lo spettacolo. Dopo più di otto ore in sala – con gli occhi abituati alle luci soffuse della finzione – fuori il mondo appare alieno. Ogni cosa ha perso la sua scontatezza. Siamo stati in un posto lontano – nel tempo e nello spazio – abbiamo fatto tanta strada, tutti assieme, vicini, come assistenti di un atto collettivo e inusuale. Tornare indietro per riposizionarsi di nuovo nello scorrere delle cose non è semplice.

    Il giorno dopo lo spettacolo penso a una frase di André Gide: «È con i buoni sentimenti che si fa la cattiva letteratura». Penso che sia un rischio rilevante questo, che non riguarda solo la letteratura e il teatro. Penso che ci sia uno strano movimento correttivo nell’aria della nostra società che tocca il linguaggio e l’estetica; esiste una libertà che sì, possiamo esercitare, ma entro grossi limiti, una libertà che risente di un perenne giudizio, di una diffusa necessità di analizzare le parole e le immagini per stabilire se sono giuste, se possono essere dette e mostrate o se invece sono troppo, come ci insegnano le discutibili politiche di censura dei social. E mentre questa tensione ci porta a “pulire” il modo in cui ci esprimiamo, il bisogno reale appare esattamente l’opposto e cioè la necessità di qualche sentimento cattivo in più per arricchire e approfondire le riflessioni (se poi possiamo davvero parlare di buoni e cattivi sentimenti). In questo senso, penso che a Jan Fabre vada rinnovato il merito di sapersi porre sempre in modo nuovo e totalmente antitetico rispetto a questo rischio.

     

    Immagine di copertina da Peak Mytikas di Jan Fabre – © Hanna Auer

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