In una delle mie prime esperienze lavorative, quando ancora le decine di sfumature diverse tra i vari job title del marketing non mi erano molto chiare, mi sono ritrovato per sei mesi a essere pagato senza fare nulla. Non era l’obiettivo primario della mia assunzione – altrimenti avrei sicuramente cercato di restare più a lungo – ma la conseguenza di una posizione aperta non per effettiva necessità ma solo perché lo richiedeva il mercato. Se il competitor principale cercava un developer evangelist o un beverage application technologist, non si poteva essere da meno, a prescindere dalla sua utilità. Per David Graeber – professore di Antropologia presso la London School of Economics, commentatore della BBC e giornalista anarchico, scomparso di recente – si sarebbe trattato sicuramente di un bullshit job, cioè un lavoro senza senso. Nonostante la traduzione più letterale del neologismo di Graber possa essere “lavori di merda”, tra le due categorie esiste una differenza sostanziale. Oggi, infatti, a causa della radicata ideologia neoliberista e delle sue conseguenze, che hanno eroso la dimensione collettiva convincendoci che da soli ce l’avremmo fatta, impedendo così di creare solidarietà e cooperazione con gli altri e di sentirne persino il bisogno, si considerano “di merda” soprattutto le mansioni che vertono sulla cura, collettiva e individuale: netturbini, badanti, imprese per le pulizie – tanto che c’è chi nelle istituzioni arriva a considerare i servizi sociali come una punizione. Al contrario, con “lavori senza senso”, la resa più appropriata, Graeber fa riferimento alle occupazioni ben retribuite diffuse nei Paesi ad alto reddito, così inutili, superflue o addirittura dannose al punto che anche chi le svolge non riesce a giustificarne l’esistenza, pur sentendosi obbligato – e questa sì è una condizione di merda – a farlo. Mansioni che si concentrerebbero soprattutto nel middle management della cultura corporate internazionale, perché a dispetto del mito dell’efficienza, anche il privato giustificherebbe lavori improduttivi.