25 aprile: resistere al tempo per ritrovare il futuro

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    Qualche giorno fa sono stata nel delta del Po. È un paesaggio che si coglie, come molti spazi umidi, dal corso del fiume; una valle di acqua placida interrotta da canneti e scanni che è già mare, che mescola i colori fluviali, il verde, l’azzurro opaco, e il grigio salmastro scintillante. Anche la luce che si riverbera sulla distesa liquida è lattiginosa: la vista, come il terreno, si trova in qualche modo sott’acqua. La “Marino Cacciatori” è una motonave spartana: due piani, interno di perline di legno, un piccolo bar che serve spritz senza selz né ghiaccio tra i divanetti bianchi. L’imbarcazione ha risalito prima il Po di Venezia fino al faro di Pila, per poi attraversare la “Busa” di Tramontana, un canale stretto -letteralmente una buca- dal fondo che cambia a seconda delle maree.

    Il Delta polesano è un territorio così mutevole che nell’arco di sei mesi si possono osservare evoluzioni radicali del paesaggio. Sebbene queste trasformazioni siano fisiologiche, in tempi più recenti il cambiamento climatico e gli interventi umani hanno accelerato questi processi. Stefano, il capitano, racconta di come sia difficilissimo realizzare persino le visure catastali delle proprietà. Vengono fissati dei pali approssimativi, ma il salmastro governa i terreni, sposta acque e argilla, produce e genera nuove isole in tempi velocissimi, e si rischia di rimanere -letteralmente- con un pugno di sabbia. Il paesaggio si altera, e con esso le pertinenze. Il diritto viene concretamente “eroso” ma allo stesso tempo, si possono formare nuovi spazi di tutela imprevisti, inattese fronde e isole. Un’immagine che mi è tornata in mente pensando agli sgretolamenti del presente: penso all’instabilità dei diritti sostanziali, a fronte della loro esistenza formale.

    Sono giornate di dibattiti faticosi: fraseggi polarizzati evocano una visione del mondo che si delinea come quotidiano spazio di sopraffazione e di conservazione, perseveranza e legittimità di prepotenze. Dalla facilità con cui si sospende la protezione speciale alla leggerezza con cui si replicano discorsi sulla sostituzione etnica, passando per l’evocata cancellazione del reato di tortura (per citare gli ultimi episodi in ordine di tempo) le settimane recenti hanno chiarito le gerarchie dei poteri e del potere che le tutela, e, per differenza, chi potere non ne ha. Cosa significa allora festeggiare la Liberazione, ossia il processo generativo della Costituzione, dell’europeismo e della “pace irreversibile”?

    La giornata del 25 aprile da mesi è preannunciata come “divisiva” e presenta, nelle sue forme più condivise e vicine, un rischio retorico di reductio agiografica del presente schiacciato sul passato. Non mi avventurerò nel sentiero del ricordo epico, nell’evocazione dei giorni, dei nomi e delle lotte, proprio in quest’anno in cui la guerra, la minaccia nucleare e la presenza del governo più a destra della storia repubblicana non sono uno spauracchio apotropaico ma un orizzonte concreto di senso. Le affinità tra i periodi potrebbero rafforzare la confusione. L’evocazione spiritica delle memoria, nella staticità degli eroismi padani e alpini, di linee gotiche e di fronti lacustri, pur riconoscendone il valore e l’urgenza di conservazione e trasmissione, mi sembrano un rischio e non un’opportunità.

    Più che mai, stavolta, mi preme l’immanenza di questa giornata, il suo stare nell’oggi, non il riportarci ad allora. Perché quella distanza è diventata il presupposto della non responsabilità sul presente. Perché il ricordo evocativo assolve, non ci ingaggia sulle mancanze del quotidiano. Ho ripreso in mano racconti, diari, romanzi, frammenti, testimonianze e fantasie, le narrative prodotte in quegli anni, perché come sostiene Nietzsche, «ciò che non è storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo, di una civiltà». Cosa ci dicono quelle voci? Come risuonano negli interrogativi dell’oggi? Norberto Bobbio scrive dell’utilità di quel passato soprattutto come spazio di conforto.  Paradossalmente, perché la Resistenza rappresenta la descrizione e la tensione verso un orizzonte futuro, i sentieri da non abbandonare per non smarrire i tentativi di una vita e una società meno diseguale.

    Questo hanno cercato disperatamente di fare in quei mesi concitati tra il 1943 e il 1945: dare un orizzonte meno cupo al presente, ma soprattutto al futuro, “partecipare direttamente al governo dei propri destini”. Il conforto del passato non ci può bastare, però, a fronte delle sfide odierne. Per ragionare sul presente dobbiamo ripescare la tensione prospettica, il senso dell’agire. Bobbio, ancora,  individua la base stessa dell’essere partigiano nell’immaginare un’altra storia possibile: “Il partigiano non è un soldato come tutti gli altri (e tanto meno un ufficiale) è prima di tutto un cittadino (guerra civile, questa volta da “civis”) se pure di una città futura”. La città del presente partigiano è una città ingiusta, in cui le gerarchie sono scritte dagli oppressori, e silenziano gli oppressi. Di questa spinta per la giustizia, del desiderio di libertà di espressione, della possibilità di perseguire un ideale politico, religioso, si nutrono le scelte raccontate nelle lettere dei condannati a morte per la Resistenza.

    Sono storie comuni, persone che hanno incontrato il destino della guerra o della scelta in circostanze mutevoli (e su questo, la mappa degli episodi delle stragi nazifasciste è una lettura illuminante sulla casualità dei destini e delle azioni di quegli anni confusi, così come le pagine lucide proposte da Renata Viganò nel suo “L’Agnese va a morire”).  Sono storie di emozioni avverse, di revisioni, di tentativi, di fato e di casualità.  Quando Livio Bianco organizza il gruppo per salire sulle montagne del cuneese sono in dieci. E tentano comunque un cambiamento, nonostante sembri folle, e irragionevole, perché ancora meno ragionevole è continuare a vivere senza libertà, perché quel tempo presente è diventato insopportabile e non può essere un futuro prossimo. 

    Non penso fino in fondo che il passato abbia la capacità di tracciare davvero i solchi in cui si muove il contemporaneo, di essere progresso, ma penso che tali riflessioni e fatti possano aprire un costante spazio dialettico e interrogarci su chi siamo, sui sentimenti che ci animano, sul rapporti che governano lo spazio politico, sulle aspettative attese o disattese. La memoria frammentaria delle Resistenze non rappresenta solo un conforto, non ci vincola a quel tempo come presenza e persistenza, ma può e deve essere una pratica attiva di conoscenza dell’oggi. La memoria come conoscenza ci inchioda -quasi facendole affiorare attraverso la rivisitazione storica- alle responsabilità del qui ed ora. Dove siamo e dove stiamo rispetto ai desideri di eguaglianza, libertà e giustizia centrali in quell’esperienza? Dove ci collochiamo rispetto alle emozioni avverse che hanno sfidato le strutture democratiche? Quanto misura il termometro della nostra insofferenza agli abusi di potere?

    “Resistere” contiene la particella re-, “addietro”, e sistere, con il raddoppiamento della radice di stà-re, star fermo, star saldo. Ma significa anche non deteriorarsi, nella sua accezione di “resistere al tempo”. Viviamo un tempo presente che ha eroso parte del futuro non occupandosene, e parte del passato per presunzione. Si sono declinati il riconoscimento dei diritti, la mobilità sociale, i tentativi di riduzione delle diseguaglianze non come presidi da difendere, ma come tappe naturali dell’evoluzione, meriti generazionali acquisiti. Ma ci siamo accorti che si tratta, invece, di processi negoziali e, ahimè, rinegoziabili. La recente pandemia ci ha esposto alla violenza di un mondo che amplifica le sofferenze e alimenta le patologie del potere, soprattutto in momenti di scarsità di risorse. Sarebbe eccessivo e sproporzionato, ma soprattutto un cattivo esercizio della storia paragonare le criticità dell’oggi al secondo conflitto mondiale, come se fossero il medesimo ordine di grandezze e gravità. Qui, ora, non è per fortuna un tempo in cui “i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere”.

    Ciò che però risuona, attraverso l’evocazione della memoria come forma di conoscenza è, invece, il peso crescente delle diseguaglianze, delle pratiche quotidiane di sopraffazione, delle prepotenze e della violenza strisciante. Un nucleo di fattori che sono, oggi come allora, un humus fertile per le distorsioni del potere e per le storture dei diritti. Eventi che sono rimasti il centro, l’obiettivo trasformativo delle pratiche di liberazione, che sono iniziate (e non finite) il 25 aprile. Sono meccanismi che nel presente sono ancora (parzialmente) arginati dalla tenuta dei presidi democratici, ma che hanno subito forti accelerate nel tempo egoista della pandemia. Fenomeni che possono essere combattuti con gli strumenti di lotta (civica) di cui la democrazia dispone, immaginando una città futura meno ingiusta, meno divisa, meno lontana, e più presente. Combatterle, essere ancora partigiani, significa attuare un esercizio quotidiano di libertà e giustizia per tutte e tutti. La memoria come pratica di conoscenza ci insegna che dobbiamo partire da lì per continuare a costruire la civis futura, e per non rischiare di tornare a percorrere i corridoi bui del passato. Buona liberazione.

     

    Image by Freepik

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