Rosetta. L’identità dietro la macchina da presa

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    La paura viene descritta nelle parole del filosofo Curi come “testimonianza dell’incapacità di riconoscere un dato fondamentale, e cioè il fatto che la relazione con l’altro costituisce la condizione senza la quale non è possibile il riconoscimento e l’affermazione della propria identità”. E quell’identità trova spazio dietro la macchina da presa di Suranga Deshapriya Katungampala, regista cresciuto a Verona che ha trasformato la doppia assenza in doppia presenza: guardare l’Italia, il Veneto, Verona, con le lenti dello Sri Lanka, e sommare le due visioni, tradurle, senza perdere pezzi, senza subire l’integrazione omologante. Per questo anche le maestranze di “Per un figlio”, opera prima che verrà proiettata durante la serata, hanno biografie che mantengono quel doppio sguardo, scelta dettata dal bisogno di valorizzare le competenze e le forme di fare arte che hanno altri stili e origini da quelli del contesto italiano. Lo abbiamo intervistato.


    Il 30 marzo Rosetta arriva al Beltrade per parlare di migrazioni, degli immaginari e dei progetti che generano e portano con sé. Alle 18:30 il regista Suranga Deshapriya Katugampala, lo studioso di design Ezio Manzini e l’artista Adrian Paci risponderanno alle domande di Valeria Verdolini, a seguire aperitivo con dj set a cura di Matteo Saltalamacchia. Alle 21:30 verrà proiettato per la prima volta il film “Per un figlio”, di Suranga Deshapriya Katugampala.


     

    Come nasce “Per un figlio”? Cosa ti ha spinto a raccontare questa storia e quanto di biografico c’è nel racconto che fai?

    Era dicembre 2014 quando a Negombo, in Sri Lanka, Aravinda ed io abbiamo discusso giorno e notte di questo film. Come farlo, con chi e con quali soldi. L’ unica cosa certa era l’urgenza di raccontare, di dire “noi ci siamo”, “le nostre storie sono anche le vostre storie, le storie di un mondo comune”. È nato un film minimalista, fatto di momenti quotidiani, domestici, a volte ripetitivi. Un film volutamente semplice. Una storia di una provincia qualsiasi del Nord Italia.

    Molte donne cingalesi lasciano la famiglia e i figli per andare all’estero. I primi flussi migratori dallo Sri Lanka verso l’ Europa sono avvenuti intorno agli anni 70, verso Italia all’inizio degli anni 90. Da allora sono passati molti anni. Parole come colf, badante, immigrazione, integrazione, razzismo ci hanno accompagnati in questo tempo. Chi parte dal proprio paese di origine affronta uno sradicamento socio-culturale ma si trova anche davanti alla possibilità di un altro radicamento.

    La presenza di donne e uomini cingalesi, portatori di culture e stili di vita diversi da quelli italiani, ha dato vita a monasteri buddhisti cingalesi, luoghi di pratiche religiose e culturali: per non dimenticare le origini e per renderle visibili nel nuovo contesto di vita. E intanto nascono i figli o i figli si ricongiungono alle madri, come capita a Sunita. I figli crescono in un Paese che iniziano a sentire loro mentre i genitori lo vivono come un luogo, solo e per sempre, di passaggio. Non si tratta di una storia autobiografica. Quello che ho fatto è di mettere assieme storie che conosco, di persone che conosco. Sono cresciuto sentendo esperienze, storie dei parenti e amici. Le ho messe insieme legandole alle mie personali esperienze.

    Sunita, la protagonista del tuo film, è resistente al cambiamento culturale. Vive, per dirla con il sociologo Sayad, una doppia assenza o doppia presenza rispetto ai luoghi da cui è partita e quelli in cui è arrivata. Come la descriveresti? Questi percorsi possono essere definiti come doppia somma o doppia sottrazione?

    Sunita non vuole mettere radici in Italia. È diversa dalle altre madri, parla appena l’italiano, forse non vuole impararlo. Non è ignoranza. Sarebbe un segno di appartenenza all’occidente senza valori. La allontanerebbe dalle sue origini, dai suoi principi morali, educativi, da tutti i modi in cui può proteggere suo figlio. Ma tra le quattro mura di casa, per le strade italiane, i valori di Sunita si manifestano subendo, inevitabilmente, una distorsione, mentre creano altre interpretazioni e visioni.

    Con quali e quanti sguardo hai scelto di raccontare? Con quale estetica?

    Ho fortemente voluto spostare il punto di vista. Direi dall’interno. Perchè spesso le letture sono dall’esterno, dall’alto. Volevo stare dentro. Vedere le cose da te. L’estetica è minimalista, l’obiettivo era di non essere moralista. Perchè su questa tematica ce n’è troppo di moralismo, buonismo. Il documentario , sia come metodo produttivo e approccio registico mi è parso una buona scelta.

    Sul sito del film si legge che hai fortemente voluto dei tecnici sri-lankesi, scelta “dettata dal bisogno di valorizzare le competenze e le forme di fare arte che hanno altri stili e origini da quelli del contesto italiano”. La questione estetica si unisce a quella etica: come proteggersi dall’integrazione omologante? Quali modelli per quest’Europa meticcia?

    Non so se c’è un modello. Ma dare spazio al diverso, vedere il diverso come parte integrante e non come parte esterna. Dal mio punto di vista trovare collegamenti con le origini. E questo non significa guardare il passato. Ma guardare il futuro. Perchè per me si tratta di un cerchio.

    Parlando dell’Italia, se e in che modo è cambiato lo sguardo degli italiani?

    Gli sguardi sono secondo me ancora legati ad una visione esotica dei paesi dei popoli migranti. E questo sguardo è strettamente legato ad un immaginario poco reale. Qui si insidia una difficoltà di comprensione del nuovo.

    Quali sono le urgenze di questo paese oggi?

    L’urgenza è di costruire un immaginario di una nuova italia. riconoscere cittadini nuovi, nuovi italiani. l’italia è cambiata. Ammetterlo e riconoscerlo e prenderne conseguenti decisioni, che siano politici, sociali, è un’urgenza.

    Come immaginare e raccontare le migrazioni seguendo una visione “politica”?

    La politica è l’organizzazione di uno stato. Lo stato sono i cittadini. Ci sono cittadini nuovi. Riconoscerli è un atto politico. Raccontarli è un atto politico. Portare il film in giro per l’italia e pensare che ci possano essere spettatori nuovi è un atto politico. Il cinema è un atto politico.

    L’arte e il cinema possono essere uno strumento efficace per superare pregiudizi e linguaggi? In che modo?

    Perchè è universale, l’arte tocca il sentimento, tocca l’intimo dell’umano.

    Come si può cambiare l’estetica della frontiera?
    Decostruendo l’idea stessa della frontiera.

    Cosa significa per te, oggi, sconfinare?
    Allargare il cerchio (il paese) e riconoscere cittadini nuovi.

    Note