Qual è la differenza, nel nostro tempo, fra consumare un bene oppure fruirne? Esiste davvero una distanza così grande, sul piano etico e politico, fra i beni materiali e le opere culturali?
La nostra confusione dipende in fondo dall’essere continuamente costretti a ridefinire il nostro rapporto con i desideri e con il loro appagamento. Non è facile capire quando ciò che consumiamo (o di cui fruiamo) risponde a ciò che davvero vogliamo. Pensiamo al cibo, autentico campo di battaglia del ventunesimo secolo, sospeso fra oggetto di consumo, categoria estetica e sociale, condensato di tradizioni e cultura, luogo di rivendicazioni esistenziali e politiche di un nuovo pensiero anti-capitalista.
A suggerirci questo parallelo fra beni alimentari e opere culturali è stata la nostra esperienza di documentaristi, che ci ha portato quest’anno nelle campagne dell’agro-pontino con il proposito di indagare i fenomeni di sfruttamento delle comunità migranti, in vista della realizzazione del nostro prossimo film: The Harvest.
In breve, ecco la nostra riflessione: se chi, ancora minoritariamente, si dedica ai propri acquisti alimentari con consapevolezza ha oggi la possibilità di accedere a prodotti genuini ed eticamente soddisfacenti, eludendo la catena di sfruttamento che popola le nostre campagne di nuove forme di schiavismo, per quanto riguarda le opere culturali essere un “consumatore consapevole” è forse ancor più impegnativo: come possiamo sapere che, per realizzare la musica che ascoltiamo, l’artista non abbia dovuto cedere tutti i propri diritti a una major discografica? Chissà se l’autore del libro che stiamo leggendo è contento della piccola percentuale che gli rimane dopo tutti i passaggi distributivi? E ancora, quanti film cosiddetti “indipendenti”, ma anche solo coraggiosamente “diversi”, entrano nella programmazione del cinema sotto casa?
La necessità di creare nuove economie solidali nell’ambito delle produzioni culturali ha un’urgenza assoluta, giustificata dai rischi collaterali che derivano dalla crisi generalizzata dell’industria culturale “tradizionale”. Un’industria culturale che nel secolo scorso, per alcuni assetti specifici, ha garantito una varietà e una qualità significativa, un’accessibilità abbastanza congrua a target fortemente differenziati di fruitori/consumatori, una vita delle opere culturali sufficiente a garantire la loro sostenibilità. Il presente mercato digitale mette in crisi molti di questi lineamenti, lasciando un ampio spazio di azione a soggetti privati che commerciano in contenuti digitali senza essere particolarmente interessati al genere o alla qualità del contenuto che veicolano.
Che diffonda contenuti gratuiti oppure on-demand, il broadcaster non necessita di dirigere la propria offerta verso un target preciso, non si cura delle dispersioni del sistema, così come non si cura dell’esistenza sempre più effimera dell’opera (pensiamo alle canzoni) che sarà fruita, anzi consumata, per qualche settimana prima di scomparire.
Per quale ragione il mercato dei beni immateriali è tanto privo di discorsi di responsabilità?
È questa la domanda che ci ha spinto, nel 2013, a progettare una via alternativa per la distribuzione delle nostre opere e a condividerla immediatamente con altre valide realtà indipendenti che costituiscono il sottobosco delle produzioni culturali italiane.
Distribuzioni dal Basso nasce e si sviluppa su due fronti: come portale on-line, assicura l’accesso alle opere culturali grazie a un sistema di donazione libera ma obbligatoria, responsabilizzando l’utente a sostenere i progetti produttivi degli autori in catalogo; sul fronte off-line, DdB si impegna fin da subito nel costruire reti policentriche, organizzare rassegne di eventi culturali, promuovere i documentari e gli album musicali rilasciati con licenza Creative Commons.
Già, perché la peculiarità del nostro progetto distributivo è quello di diffondere materiale che può essere proiettato liberamente, copiato e riutilizzato secondo alcune regole, coerentemente all’etica della responsabilità che cerchiamo di promuovere.
La scelta di utilizzare le licenze Creative Commons è le conseguenza logica del nostro modo di intendere le produzioni culturali, esplicitando la sostanziale differenza tra profitto commerciale e le formule di sostenibilità e di autoreddito. Cultura Open significa per noi opportunità di crescita, benessere diffuso, capacità di smarcarsi dalle prospettive del mercato oligopolistico che governa il cosiddetto mainstream. Significa, a tutti gli effetti, dotarsi di nuovi strumenti per affrontare l’epoca digitale dell’iper-riproducibilità, dando un senso radicalmente diverso a ciò che il marketing contemporaneo definisce prosumtion, attestando l’avvicinamento fino all’identificazione fra la figura del produttore e quella del consumatori di contenuti. Significa, in breve, creare un nuovo rapporto etico fra i nodi di una rete capace di comprendere i meccanismi di creazione del valore che produce.
Ma significa anche costruire un rapporto diretto, vero e paritetico, tra chi realizza un’opera che chi ne usufruisce, spingendosi, in certi casi, anche in un rapporto di reciproco scambio tra autore e usufruitore. Raggiungendo così anche un altro obiettivo centrale: la dis-intermediazione dei rapporti economici, rispondendo a uno dei problemi principali generati dall’industria culturale nel suo insieme.
I risultati di DDB sono finora davvero incoraggianti: gli spazi culturali capiscono la natura del nostro sforzo e comprendono i benefici che ne derivano, molti utenti singoli offrono più di quanto consigliato, andando così a ricolmare completamente le donazioni meno ingenti di coloro che hanno stimato di non potersi permettere l’accesso alla cifra consigliata.
Il meccanismo del caffè sospeso funziona anche qui, nel luogo dell’irresponsabilità per eccellenza, la rete, ridistribuendo il peso della sostenibilità e garantendo una nuova forma di accessibilità autonoma (letteralmente: “che si governa da sé”). Costruire relazioni innovative e responsabili tra persone e esperienze nel luogo in cui queste fanno più fatica ad emergere, questa è un’altra delle sfide che ci siamo posti fin dall’inizio: usare gli strumenti che il 2.0 ci fornisce senza dare per scontato che la loro logica conseguenza sia la deumanizzazione delle relazioni tra persone, ridimensionate o uni-dimensionate, per dirla con Marcuse, al ruolo di utenti.
Nel 2016 Distribuzioni dal Basso ha compiuto tre anni, arrivando a generare un network nazionale di registi, circoli culturali, cinema e festival. Questa rete si impegna a trovare formule per garantire una sostenibilità alle produzioni e alle iniziative culturali, sostenendo in modo circolare nuove produzioni. Recentemente questo circuito è giunto ad abbracciare anche percorsi di editorie indipendenti, coinvolgendo case editrici come Bebèrt Edizioni di Bologna.
Ad oggi la distribuzione interessa circa 100 opere culturali in Creative Commons e conta più di 250 circoli e spazi affiliati, che occasionalmente o regolarmente organizzano proiezioni e presentazioni.
Grazie alla vittoria del bando cheFare, nell’ambito del progetto baumhaus network, abbiamo ora l’occasione di moltiplicare e propagare queste pratiche su una scala europea ed internazionale. Da oggi è infatti on-line il nuovo portale multilingua OpenDDB, grazie al quale non solo le opere locali in catalogo potranno circolare all’estero, ma anche autori e esperienze creative da altri Paesi saranno diffuse, secondo i nostri modelli di accessibilità, anche in Italia.
Crediamo che la via sia tracciata. E non è un atto di superbia, ma la constatazione di una necessità generalizzata di trovare nuovi percorsi, nuovi modelli e nuovi immaginari. In questa fase storica di transizione, ci sentiamo di essere solo una piccola figura sulla tela di un quadro che si va abbozzando; un quadro che dipinge un mondo culturale nuovo, di cui stavolta intendiamo essere protagonisti, insieme a tante altre esperienze come la nostra. Come? È presto detto: immaginando e sperimentando un network europeo di opere e di creativi che nel proprio contesto hanno portato avanti in questi anni modelli nuovi di produzione e diffusione di cultura. Si tratta solo di fare un piccolo passo in avanti: unirci in un’unica, forte istanza di cambiamento.