Lettera di Notte #1, come la cultura mainstream è diventata una bolla insignificante

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    Caro Giacomo, l’altro giorno mi hai chiesto se mi andava di “ampliare” quello che avevo scritto in un post su Facebook. L’argomento del post era che secondo me la cultura generale, il mainstream è una bolla.

    La cultura mainstream – nazionale e internazionale – è una bolla. Come i più minuscoli gruppetti, accetta cose dette solo in una certa maniera e non capisce nient’altro. Capisce il suo slang. Il suo slang è emozionale-morale. Quale morale non importa, visto che per ogni proverbio esiste un proverbio che dice l’opposto e presi insieme fanno la saggezza popolare. Chi vuole stare nel mainstream – lo so per certo di prima seconda e terza mano – si adegua sottilmente e spontaneamente come ci adeguiamo per entrare in un gruppetto affiatato. Ci viene di scrivere romanzi come fossero serie tv, ci viene di stare sul pezzo come fossimo giornalisti, ci viene di dare consigli per gli acquisti come fossimo pubblicitari. Vogliamo starci, ma non vogliamo stare in un mondo grande. Vogliamo che la cultura nazionale o internazionale ci faccia credere che ritrovarsi in quella grande piazza equivalga a dialogo, complessità e maturità, e quella cultura ce lo assicura volentieri scegliendo portavoce dall’aria molto seria. La società dello spettacolo usa i metodi della bolla perché deve saper prevedere la reazione di molti consumatori a un prodotto. Non è un mondo adulto. Quando spingiamo prodotti culturali possiamo parlare solo di urgenza e necessità. Il prodotto culturale non ha caratteristiche specifiche, non parla alla storia del proprio linguaggio ma solo al momento presente della comunicazione, anche se è altro sogna di essere solo content. Questo costringe i poveri uffici stampa a spingerci libri come fossero fatti puri e semplici della cultura e non libri. Costringe noi a non esprimerci troppo in dettaglio per evitare di inceppare il meccanismo con cui campiamo. L’era dei critici non è finita perché i critici si erano troppo staccati dal mondo: è finita perché per consumare cultura non c’è bisogno di sapere troppo, basta sapere cosa gira e cosa tira, per assumerlo.

    Ma ancora oggi se devi comprare una chitarra nuova – cioè per qualunque acquisto di cultura che realmente richieda un’alta definizione dei tuoi desideri – devi passare per i critici, per chi ti dice bene cosa hai davanti e ti aiuta a evolvere.

    Penso sempre che gli italiani sono così culturali e critici solo sulle case, sul caffè e sulla cucina.

    Voglio un mondo di cose specifiche che non si ammassano tutte in una palta emozionale morale

    Ti ho risposto di dirmi le tue curiosità per avere una traccia da seguire: tu me ne hai lasciate così tante e così dense che ho pensato mi stessi chiedendo di scrivere un libro:

    …cosa intendi per mainstream culturale dato che il vero e proprio mainstream non esiste più infatti parli di bolla (anzi direi che siamo passati dal mainstream al meanstream), poi sarebbe credo interessante raccontare quanta fatica, sudore costa questo mettersi in posa (anzi questa messa in piega) alla bolla e al tempo stesso quanto soccorrere questo messaggio “globale” o presunto tale depotenzi le specificità culturali di ognuno rendendo ognuno poco appetibile e ancor meno pagabile sul mercato. E infine in questo bailamme come si sviluppa la critica necessaria? Ritorna nella accademie, nei negozi di quartiere sui campetti di periferia? Come riportarla al centro?

    È una sera di una settimana dopo, la prima senza bere alcol da diversi mesi perché negli ultimi giorni mi si è alzata la pressione. Sto cercando di rinunciare a mandarti il pezzo ma non riesco, anche se non ho un piano preciso di quello che voglio dirti.

    Mi piace scrivere un post ogni tanto come uno che si è fermato al bar dopo il lavoro e fa il fenomeno.

    Ho scritto quel post dopo altri due sullo stesso argomento. Mi piace scrivere un post ogni tanto come uno che si è fermato al bar dopo il lavoro e fa il fenomeno. Non so fare l’intellettuale pubblico, mi fa imbarazzare quando lo vedo fare agli altri: sono come una ragazzina in un fumetto che fa la schifata quando le altre ragazzine baciano i ragazzi. Pura repressione. Quindi se parlo di bolle e mainstream non faccio testo, perché non mi importa niente del risultato finale: chiunque la società di massa si metta ad ascoltare, io guarderò sempre con imbarazzo da represso all’abbraccio fra l’oratore e l’uditorio.

    Tanti eventi nel mondo letterario mi hanno fatto capire che mi viene da ridacchiare davanti a quell’abbraccio tra gli oratori e i loro pubblici come se avessi l’apparecchio e i brufoli e oratore e pubblico stessero ballando un lento strusciandosi attraverso i pantaloni. Come le ragazzine dei fumetti io dico: ma sono falsi!, ma senti che parole stupide si dicono!, tutto per poi fare quelle porcherie! C’è troppo piacere, troppa fusione. Perciò quando, in seguito a uno dei miei post contro la società e in favore delle presunte bolle che sono comunità, Christian Raimo mi dice che non ci si può rinchiudere nelle bolle e rinunciare a mettere le mani sulla città, io da una parte capisco perché me lo dice, dall’altra penso: ma non ti imbarazza sbracciarti e sgolarti per convincerli, per attirarli? A me fa venire il solletico tra le gambe dallo schifo.

    (Poi Raimo lo divido in due parti: il Raimo politico si sgola nei posti giusti, nelle comunità, dove ha senso sgolarsi; il Raimo mediatico per me fa quello che fanno gli altri: e come tutti gli altri nessuno escluso lo fa “a fin di bene” e io non so distinguere il suo “a fin di bene” dal “a fin di bene” dei suoi nemici.)

    Che c’entra con la bolla e con il mainstream? È un avvertimento, per dire che chi sta parlando del rapporto tra piccole cerchie e opinione pubblica è uno che a monte si copre la bocca dalla tensione ogni volta che ha conferma che la vita pubblica è fatta soprattutto della quantità di desiderio investito da alcuni nel proporre le proprie visioni a numerosi altri. Da gente che studia come porsi e poi ripete sempre la stessa formula perché funzioni, perché solo così può crearsi un pubblico: rimanendo sempre uguale e lasciandosi riconoscere e voler bene.

    Ho visto scrittori bravissimi imparare a parlare al pubblico come a un bambino piccolo, lentamente e scandendo i concetti, per riuscire a tenere coeso questo pubblico, e infoltirlo. Questo è un punto di partenza importante per me: devo ammettere che per me la costruzione del discorso pubblico è la somma di tantissimi momenti di quel tipo, di incontri fra un oratore e un pubblico.

    Tanti pubblici capeggiati da tanti oratori sfumano uno dentro l’altro rimescolando tendenze che poi rielaborano la cultura generale

    Tanti pubblici capeggiati da tanti oratori sfumano uno dentro l’altro rimescolando tendenze che poi rielaborano la cultura generale. Un giorno si festeggia Muccioli per la lotta violenta alla droga, un giorno si festeggia la fluidità di Achille Lauro, ma è sempre tutto un convergere di pubblici con i loro pastori-oratori. Vedendo il pubblico non lo diresti, sembra fatto di persone vere, quindi non ha senso criticarlo troppo: ma se tu pubblico vedessi come si prepara il tuo oratore per dirti le cose che ti tengono attento e seguace verrebbe in mente anche a te. Possibile che quel carisma del tuo oratore si basi su un progetto di carriera, come se l’oratore non fosse dotato di un fluido magico ma avesse bisogno di pianificare costantemente il proprio discorso e il proprio calendario per non perdere la tua attenzione?

    Vedere tutto questo sbattimento degli oratori dietro le quinte fa passare il gusto di guardare la televisione o leggere un giornale: perché da piccolo mi sembravano voci autorevoli che capitavano lì per caso e dicevano la loro. Poi ho scoperto che stanno tutti cercando, come me, di guadagnare e insieme farsi adorare, e di farsi adorare all’interno dell’ideologia di chi possiede i media, che siano il quotidiano o il social o il canale TV o la piattaforma streaming.

    Già da questo, Giacomo, capisci perché non volevo più scrivere di bolla e mainstream. Ci sono tante premesse da fare che sembra Tristram Shandy. E alla fine forse penso che non se ne possa scrivere seriamente, ma solo in qualche post per trollare chi è convinto di star facendo la sua per creare un “sano” e “normale” discorso pubblico.

    Quindi le bolle. Per chi non conoscesse il succo di questo discorso: quando a uno vengono i complessi per una cosa che ha letto o visto oppure quando a uno dà fastidio un post di qualcun altro, ci si mette a criticare queste bolle, ossia mondi chiusi, discorsi fatti tra poche persone legate da Internet e dai consumi culturali.

    Si criticano perché in quelle bolle i discorsi non incontrerebbero contraddizioni perché la bolla vive per conto suo e non sulla pubblica piazza e quindi non può sentire altre voci. Ciò renderebbe solipsistico ogni sforzo culturale, tranne quello di quel bravo cittadino perbene che ha abbastanza tempra da accedere alla cultura generale senza snobismi, leggendo e guardando tutto e partecipando e vagliando.

    Di chi è questo pensiero che ho descritto? Di vari tipi umani, e di vari tipi di oratori. Ma diciamo che per un certo tipo di oratore comunista ma non militante lasciar perdere il centro del discorso è problematico, significa rinunciare alla lotta; e per un liberale il centro è la sua agorà, e l’agorà è composta di quotidiani, social, mensili, settimanali, canali tv, piattaforme streaming, parlamenti. Tutti questi posti per lui sono l’agorà.

    Gli anarchici e parte degli artisti invece non hanno problemi con ciò che viene chiamato bolla: per gli anarchici, una bolla potrebbe essere un’iperstizione felice, un annuncio utopico dal futuro; per certi artisti, l’agorà produce una merda tale, e con un tale concorso di talenti e correnti politiche, che è meglio starsene rinchiusi in un locale a suonare e pitturarsi i corpi nudi, tanto se usciamo da quel locale tra vent’anni sempre la stessa merda ritroviamo appena fuori.

    Questi i giocatori principali dell’avvincente sfida a risignificare le parole bolla e mainstream ogni tanto. Le mie tre piazzate su Facebook nascevano dal fastidio per chi automaticamente scambia tanti bei posti per bolle solo perché sono posti piccoli oppure non sfiorati dall’interesse presente del mercato.

    Ecco le due piazzate:

    1
    Gente, parlate di bolla con senso di colpa come se a bolla si contrapponesse una sana cultura nazionale e popolare piena di gusto e senso a cui state rinunciando. Se state nelle bolle è perché la società nata da gladio è soffocante. quando vi prendete in giro da soli per le bolle ricordate che le bolle sono sistemi di sopravvivenza per evitare di stare con tutte le scarpe e tutto il gusto dentro un sistema in cui è “realizzarsi” arrivare a scrivere per il dottor cane.

    2
    La bolla degli impressionisti. pff. la bolla della no wave. pff. la bolla del krautrock. tut mir lidl. la bolla dei new topographics. la bolla dei surrealisti. ma non vi annoiate a dirvi sempre le stesse cose? la bolla di frigidaire. dio che spocchia. la bolla della resistenza. la bolla delle catacombe. la bolla del folkrock. la bolla del topanga canyon. la bolla del citypop giapponese. la bolla della ambient. che noia, che palle, ma andate a occuparvi di qualcosa di più importante. la bolla dell’hiphop. la bolla del minimalismo musicale. la bolla del minimalismo letterario anni ottanta. la bolla di nuovi argomenti. la bolla del gruppo 63. la bolla di roma est. la bolla dell’isola. la bolla della new wave. la bolla del surf. la bolla delle radio libere. madonna quanto vi parlate addosso. la bolla della nouvelle vague. la bolla delle case editrici indipendenti romane. la bolla dell’antifascismo. la bolla dei centri sociali. la bolla del femminismo. la bolla dell’alfabetismo. la bolla dell’arte. la bolla della comunità. la bolla di avere una vita.

    Ho cominciato a scrivere al liceo mentre leggevo Aldo Nove, Tiziano Scarpa e Isabella Santacroce. Ho notato poi come a tutti e tre in modi diversi non sia mai cominciato a fregare un cazzo del discorso pubblico.

    Io mi sento allo stesso modo, nonostante per lavoro e per curiosità faccia diverse cose nel mondo della cultura: un conto è avere l’occasione di presentare un libro di Walter Siti o scrivere o tradurre, un altro, per me, è svegliarsi la mattina e difendere questo mondo. Ho molti amici che pensano che quando un posto di potere viene dato a noi diventa buono. Io non lo penso e la trovo una diabolica illusione.

    Un conto è scrivere o tradurre, un altro, per me, è svegliarsi la mattina e difendere questo mondo.

    La mia idea della società di massa in Occidente è veramente schematica. Fino alla metà degli anni Sessanta, per un lunghissimo dopoguerra, istituzioni e capitale pensavano tutti che l’espansione della cultura e dell’arte stesse avendo un effetto di stimolo del mondo occidentale. Tutti quei viaggioni artistici esistenziali politici avrebbero creato tanto progresso socio-economico. Ma poi quel mondo produttivo organizzativo si è accorto che il ROCK diventava troppo rapidamente psichedelia fricchettona anarchica o comunista e quindi istituzioni e capitale hanno cominciato a selezionare meglio le persone da sponsorizzare. Siamo passati da Revolver a Spielberg. Abbiamo insultato Yoko Ono perché rappresentava l’arte concettuale che veniva a interrompere del sano lavoro compositivo perbene.

    Gli anni Settanta hanno segnato questa transizione. Tutto il resto è diviso tra Top of the Pops e la controcultura. Tra andare a Sanremo e appendersi per i capezzoli nei teatri sperimentali. A volte ti tocca andare a Sanremo perché non te la senti di appenderti per i capezzoli. Hanno messo l’aut-aut.

    Non c’è più un centro che è nel solco della storia. Il centro non ha evoluzione, gira in tondo, è noioso, è solo consumabile, non vi si assiste allo sviluppo delle idee interessanti, come invece è successo fino diciamo all’inizio degli anni Settanta. Le eccezioni sono sporadiche: un editor vuole fare di un certo libro difficile una cause célèbre anche se non venderà tanto, ci si gioca la reputazione.

    Un produttore  TV vuole rischiare, chiama un certo autore. Ma sono sempre cose appese a un filo. E a chi viene fatto passare non si dà la libertà di movimento, è tutto un realismo, un signora la preghiamo di comprendere, di limitarsi… Uno si emoziona tanto quando lo chiamano che poi cerca di limitarsi da solo.

    Non c’è più un centro che è nel solco della storia

    Ho spiegato la mia visione del mondo, perché nei dibattiti suoi social se parli di bolla e mainstream tutti intervengono nei commenti ma quasi nessuno dice seriamente qual è la propria visione del mondo.

    Per me tutto ciò che si è creato nel discorso pubblico dagli ottanta a oggi è una finta. Stiamo fingendo di fare come facevano prima quelli. Per esempio, perché si scimmiottano Moravia e Pasolini, quando si è scrittori? Per il wishful thinking, pensiero stupendo, di poter fare ancora oggi gli innovatori coraggiosi al centro del sistema. Per me è una grande cazzata, e delle due l’una: o è un’illusione personale dell’oratore oppure è un raggiro del proprio pubblico.

    Perché oggi editori e gatekeeper vari non sono più così curiosi delle nostre sperimentazioni, e se ci fanno prendere il nostro posto nelle istituzioni, nei luoghi visibili dell’agorà, è perché sappiamo come censurare il nostro potenziale/desiderio di cambiamento anche solo personale casomai dovesse disturbare. Emanando strategicamente questo senso vintage di Moravia e Pasolini noi oratori possiamo far credere al pubblico che siamo rimasti a prima di quel riflusso che chiuse il momento innovatore del dopoguerra. Fa parte del discorsetto che facciamo al pubblico per farlo sognare, come racconteremmo scemenze a una persona con cui vogliamo andare a letto. A volte ci crederemo anche, alle cose che raccontiamo. Magari ci diamo una spettinata.

    Di solito a questo punto uno mi chiede: ma allora non si può far niente?

    La mia risposta istintiva è che non me ne frega assolutamente un cazzo.

    Ma non è del tutto vera. La vera risposta è che secondo me la domanda qua sopra nasce dal desiderio di rimanere dentro quel romanzo di Philip Dick dove lui è vivo e noi siamo i morti. Ogni volta che uno risponde Certo che si può fare qualcosa ma questa persona fa il suo nella società dello spettacolo, questa persona sta mentendo, ti sta vendendo un’idea vintage di impegno, una piccola truffa, e te la consegna là dentro dove sei morto, come nel romanzo di Dick, e lui dispone dello spray Ubik della retorica, che ridona effimera lucentezza a quel mondo sbiadito, gnostico, morto. Lui ti può guardare dall’alto, perché non è morto, avendo lui il dono della parola, ma usa la parola soltanto per darti questi spruzzetti cosmetici che ti fanno sentire vivo. Tu e tutto il pubblico vi sentite come se steste prendendo il tè con Sartre: Ubik funziona.

    Ubik a parte, ho usato anche il buon vecchio termine-insulto “Società dello spettacolo”. Cosa intendo per società dello spettacolo, questa sera? Il solito. La società che ti propone di consumare i propri contenuti invece che masticare roba con le fibre. In che senso? Faccio sempre l’esempio della musica: imparare uno strumento è lungo e difficile, è un viaggio strano. Sentirsi dire da un oratore la cosa giusta è gratificazione immediata e non richiede nessun movimento.

    MA ALLORA NON CREDI IN NIENTE?

    Non è importante rispondere. Perché uno che crede davvero in qualcosa, in qualcosa che conosce e ha approfondito nel tempo, non porrà mai una domanda così stupida, si chiederà piuttosto continuamente in cosa consista credere. Chiunque, quando uno gli dice che il discorso pubblico è irrilevante, si agiti e domandi MA ALLORA? Per me forse ha vissuto solamente nella società dello spettacolo, dove i problemi di risolvono sempre a fine puntata.

    In questo momento il discorso pubblico tracciabile su social, quotidiani, piattaforme, radio e tv è composto in ogni sua parte di piccoli gruppi portati a pascolare da oratori che non stanno predicando forme di conoscenza ma solamente piccole consolazioni.

    Ogni cosa ha formato snack. Manca una grande scuola di Scacchi  universale gestita da un Commissario degli Scacchi, non so se mi spiego.

    Chiunque venda le tendenze del momento da un megafono mainstream non sta facendo un discorso. Lo dico non perché mi dà quella sensazione così a pelle, ma perché so come ci si fa strada in questo mondo. Ci si fa strada, come dicevo prima, non elaborando una visione del mondo, ma correndo a riempire dei buchi di palinsesto. Lo so, l’ho fatto, lo faccio, datemi voi dei soldi e la reputazione e smetto di farlo. È una mia debolezza. Ma è veramente roba che non ha valore, che non merita di essere difesa.

    Ci si fa strada non elaborando una visione del mondo, ma correndo a riempire dei buchi di palinsesto

    Io l’ho vista la gente fare la gavetta. Alla fine della gavetta certi si rompono davvero il cazzo e se ne vanno via. Altri capiscono come possono rendersi utili, e rimangono lì. Io mi tengo a metà, vivacchiando solo perché sono piccolo borghese e ho il terrore che i miei parenti pensino che non ho combinato niente nella vita. Ma da lì a crederci?

    No, non è solo quello: mi danno delle belle traduzioni, mi fanno editare una rivista, mi pubblicano.

    (C’è gente che cita Minima moralia ogni volta che c’è da dire una cosa alta. Ma chi potrebbe difendere la dignità delle nostre carriere di oratori mentre legge Minima moralia? È impossibile. Quel libro è bello da leggere con i capelli bianchi, perché è bello se accetti la tua inanità e insieme la tua dignità.)

    C’è un altro fatto. Per chi si è formato ascoltando Glenn Branca e i Kraftwerk, leggendo Gadda e Woolf, la cultura generale, il mainstream, è semplicemente una noia. Anni fa cominciai a scrivere di serie tv. Bello, approfondiamole le serie tv. Ma poi mi sono stufato. Per forza: un conto era accogliere questo nuovo mezzo per raccontare, un conto è fare finta ogni anno che escano venti cose buone, quando i sistemi produttivi si fanno così oliati che vederne una ti aiuta solo a capire che esisti come pubblico di una certa categoria merceologica.

    Oppure, come fanno alcuni intellettuali, pur di partecipare al dibattito e rimanere visibile ti fai la bocca a tanti prodotti di comunicazione e consumo e li spingi come dessero le stesse sensazioni dell’arte che hai in casa fin da quando avevi vent’anni. Così continui a fare l’oratore, e a farti seguire dal pubblico.

    Per chi si è formato ascoltando Glenn Branca e i Kraftwerk, leggendo Gadda e Woolf, la cultura generale, il mainstream, è semplicemente una noia.

    Se come oratore io non ho un vero piano, vorrei per un attimo prendermi a esempio come parte di un pubblico. Poniamo che esista un pubblico dove ci sono le persone come me. Chi sarebbe il suo oratore? Non c’è, teste di cazzo, non c’è, perché non ci importa niente di farci guidare in mezzo a quel porcile di San Remi e varietà e talk show. Non serve neanche definire cosa significa “le persone come me”. Significa solo che tra cinque anni potrei essere diventato musulmano. Significa persone discontinue.

    In un pubblico siffatto rientrebbero molte persone che invece quando lavorano magari lavorano per certe istituzioni che sono come dei grandi oratori-leviatano. Oppure lavorano proprio per degli oratori come quelli che dicevo prima. Questi lavoratori della cultura mainstream (editor, autori TV, giornalisti) sarebbero interiormente divisi in due: per campare aiuterebbero gli oratori Ubik, ma come uditori sarebbero parte di un pubblico a cui non importa niente di essere guidati. [Domanda a bruciapelo: chi ha messo in classifica dei dischi dell’anno 2020 The Quietus? NON HA IMPORTANZA, la classifica di un sito di musica come The Quietus non ha importanza nemmeno per chi lo legge, mentre quella di un sito come Pitchfork sì. Perché The Quietus non si è posto come macchina di produzione di caramelline culturali mentre Pitchfork sì (anche se Pitchfork è fatto in modo più professionale ed è perciò stato comprato da Conde Nast) (scusate faccio esempi stranieri perché non mi va di fare a botte).]

    In quegli spettacoli, dicevo, lavorano persone che quando invece sono parte di un pubblico sono parte di questo pubblico che non ha oratore, perché non gli importa niente di essere rappresentato. Dopo un po’ che ti guardi intorno, se ti piacciono le cose in modo discontinuo ma approfondito e non consumistico, non ti interessa più avere un posto che ti fa lifestyle radunando tutte le cose che ti piacciono. Te le cerchi da solo. Ti piace andare in posti diversi. Ti piace pure non tenerci alla distinzione tra lifestyle e passione, purché non ti rompano il cazzo sulle tue passioni vere quando le eserciti e se ne restino tra di loro quando si devono fare le classifichine.

    Questo pubblico, chiamiamolo pubblico, questa società che non ha oratore semplicemente perché non vuole essere rappresentata, perché anche se le piace Tiziano Scarpa, per dire, non le serve uno Scarpa pifferaio che la conduca verso il Centro (e sparo il nome di Scarpa perché so che lui non ha mai portato anima viva verso il Centro, perché per fortuna nostra ha altre passioni nella vita), questo pubblico è enorme ed è fatto da tutte le persone che cercano quello che si pensa e si fa e si dice nel mondo senza obbedire alla logica del Centro.

    È un gruppone eterogeneo che non si può spingere da una parte all’altra a motivo del fatto che ognuno segue certe cose e non altre e non è che per questo quel qualcuno, dal momento che gli piace quello che legge e vede, quello che ama. E non parlo di una qualche maggioranza morale e silenziosa: parlo di chiunque conosca qualcosa profondamente e perciò se ne fotta dello stato del pop italiano o se il romanzo sia morto – due esempi tra tanti di dibattito nevrotico del Centro. (E lo ripeto, il Centro è pieno di gente come me che con la mano sinistra compila le classifiche e con l’orecchio destro studia il canto gregoriano.)

    Ora io non voglio dire che questo gruppo misto di persone abbia i gusti migliori. I gusti non mi interessano: mi interessa un’altra cosa che potrei forse formulare in questo modo:

    avete presente quando nelle storie d’amore uno dei due si stufa e dice che si è stufato? e l’altra persona dice: ma hai un’altra? No. E allora perché mi lasci che farai dove andrai cosa vuoi al posto di noi, di me, perché non vuoi più questa cosa? – E avete presente come l’altra persona, quella che si è stufata, non ha nessun interesse a seguire la logica della persona che è stata mollata, perché il luogo di cui parla, la Coppia, il Centro, non le interessa più, e perché il fatto stesso che la Coppia si presumesse Centro di Tutto ordinando così, in cuor suo, tutto l’Essere, adesso sembra, alla persona che si è stufata, completamente buffo, assurdo e irrilevante?

    Ecco.

    Note