Vietato divertirsi: vita di un freelancer cognitivo

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    “Qualunque cosa ti chiedano, non dire che ti sei divertito a scriverlo.” Me lo disse un amico che lavora da anni nell’editoria alla vigilia della prima presentazione del mio romanzo d’esordio. L’avevo chiamato per sciogliere un po’ della tensione che accumulavo da settimane, mi aspettavo avrebbe snocciolato qualche suggerimento sommario, invece se ne era uscito con quella frase categorica.

    “Alla gente non piace” spiegò. Ero sbalordito. A stupirmi non era tanto che al pubblico non piacesse sentirsi dire da un autore che il suo lavoro era uno spasso, quanto il fatto che una frase del genere, se non l’avesse detta lui, non mi sarebbe mai passata per l’anticamera del cervello.

    Eppure non era una frase campata per aria. Dopotutto, stavo per presentare il frutto di cinque anni di lavoro, lo sbocco di dieci anni di speranze e frustrazioni; andavo dicendo che scrivere era “la mia passione”, e allora la domanda ci stava tutta: mi divertivo a fare quello che facevo? E, soprattutto, mi rendeva felice?

    Non ero sicuro di voler rispondere. In quei cinque anni avevo attraversato un ventaglio emozionale piuttosto ampio: mi ero sentito galvanizzato, frustrato, sollevato, preoccupato, c’erano stati momenti d’orgoglio e momenti di abulia, giornate in cui spegnevo la luce sfibrato dalla tensione e altre in cui ero talmente contento di quanto avevo prodotto da addormentarmi senza raggiungere l’interruttore.

    Ma mi ero mai divertito? Era divertente, scrivere?

    Forse in alcuni momenti lo era stato. Alcuni capitoli che sembrava si fossero scritti da soli, alcuni passaggi che mi avevano strappato una risata. Ma bastavano a presentarmi davanti a una platea di persone a millantare di essermi divertito a fare quello che più mi piaceva? Negli anni seguenti avrei scoperto che tra gli scrittori che più stimavo nessuno trovava che scrivere fosse divertente. I più retorici la vivevano come una condanna, i più onesti si limitavano ad ammettere a se stessi che fare quello che sai fare meglio può essere soddisfacente, realizzarti persino, ma difficilmente ti renderà felice.

    Credo che questo non valga solo per gli scrittori, ma anche per tutta quella famiglia allargata che potremmo riunire sotto l’ombrello dei “freelancer cognitivi”, o se vogliamo evitare anglicismi, dei “cottimisti della cultura”. Conosco diverse persone che hanno scelto di rincorrere il proprio sogno e che in una certa misura l’hanno raggiunto, dalla scrittura hanno tratto un lavoro, vivono in mezzo ai libri come hanno sempre desiderato, traducono saggi illuminanti e romanzi memorabili, lasciano dietro di sé tracce durature con sopra impresso un nome sempre più riconoscibile.

    Era quello che sognavano, è quello che hanno ottenuto. Eppure provate a chiedere loro se si divertono a fare quello che fanno, se sono felici di aver trasformato la propria passione in lavoro, e preparatevi, nella migliore delle ipotesi, ad essere presi per ingenui.

    Molti danno colpa alla precarietà connaturata a questo tipo di lavoro, altri lamentano di non aver modo di scrivere quello che davvero vorrebbero, altri ancora rimpiangono di aver lasciato Legge, o Ingegneria, o quel lavoro d’ufficio così comodo; ma io credo che la questione sia più semplice di così: il fatto è che vivere di scrittura significa passare gran parte del proprio tempo soli, spesso seduti allo stesso tavolo su cui si pranza, si cena, si fa colazione, per lunghe ore ogni giorno, tutti i giorni; e soprattutto, significa dedicarsi per tutto quel tempo alla più logorante delle operazioni cognitive: prendere decisioni.

    A voler essere pignoli, nessun lavoro vero e proprio può considerarsi divertente. Lo stesso verbo divertire, nella sua accezione etimologica, significa “volgere altrove”, “allontanare”.

    Divertirsi, dunque, non significa tanto fare qualcosa che ci renda soddisfatti o felici, quanto distogliere l’attenzione da un’occupazione o una preoccupazione che altrimenti affaticherebbe il nostro cervello. Il discorso vale naturalmente per qualunque occupazione che richieda concentrazione, ma è particolarmente vero per i freelance.

    Il lavoro creativo, difficilmente si riduce all’esecuzione di un compito, il più delle volte richiede un costante processo decisionale, la cui responsabilità è in gran parte addossata al lavoratore stesso: il traduttore deve scegliere una combinazione di parole che non tradisca il testo sorgente; l’illustratore deve trovare una soluzione originale per veicolare un concetto in forma visiva; l’autore deve creare interi mondi e assicurarsi che le sue scelte rispondano a un principio di coerenza; etc.

    Dal punto di vista strettamente psicologico, prendere decisioni e divertirsi si assestano su estremi opposti. Una serie di esperimenti condotti dallo psicologo sociale Roy F. Baumeister hanno dimostrato come la nostra capacità di prendere decisioni sia limitata nel tempo: è come se avessimo un serbatoio di energie mentali che a ogni scelta si svuota un poco, finché diventa pressoché impossibile prendere decisioni in maniera lucida.

    “Questo affaticamento da scelta aiuta a spiegare perché persone solitamente ponderate si arrabbino con colleghi e familiari, sperperino soldi in acquisti irragionevoli e comprino cibo spazzatura al supermercato.” scrive John Tierney in un articolo uscito nel 2011 sul New York Times “Non importa quanto tu sia razionale e di saldi principi, non puoi prendere decisioni su decisioni senza pagarne un prezzo biologico. Non si tratta della normale fatica fisica – non sei conscio di essere stanco – ma sei a corto di energie mentali.”

    Sempre nel 2011, in una lecture per la rassegna Creative Mornings, l’illustratore del New Yorkerk Christoph Niemann descrisse il suo lavoro utilizzando un grafico che aveva il tempo sull’asse delle ascisse e il divertimento su quella delle ordinate:

    freelance, divertirsi

    Niemann è un vignettista, ha un approccio ironico, sapeva che sintetizzando in questo modo il suo lavoro avrebbe incassato le risate del pubblico.

    Ciò non toglie che il suo grafico sia piuttosto realistico. Il fatto che le idee originali siano più entusiasmanti della loro realizzazione è piuttosto intuitivo, e chiunque abbia provato a fare un lavoro creativo lo sa: finché rimane nell’iperuranio dell’immaginazione, un’idea può sembrare perfetta, ma per tradurla in realtà è spesso necessario sporcarla, mutilarla, contaminarla, tradirla.

    Al di là della questione strettamente creativa, però, il problema è un altro: se quel picco di divertimento (anche se sarebbe meglio parlare di “entusiasmo”) è così fugace, è soprattutto per via di tutte le scelte che un freelance deve prendere anche solo per intravedere la possibilità di sfruttare quell’idea.

    Porto come esempio la mia esperienza personale di giornalista freelance. La routine quotidiana, tendenzialmente, è la seguente: ti svegli, fai colazione, ti siedi al tavolo del soggiorno, apri il laptop e cominci a rispondere a mail e a dissodare il web in cerca di idee. Quando ne trovi una adatta a un buon articolo fai un po’ di ricerca preliminare, metti giù una bozza di proposta, valuti a chi potresti mandarla, quale testata pagherebbe meglio il pezzo, quale te lo pagherebbe per intero, quale invece magari rimanderebbe i pagamenti ad libitum, e così via.

    Hai notato che alcune testate – quelle che pagano meglio – tendono a rispondere solo a proposte articolate: allora estendi la ricerca, cominci a scrivere una bozza di ragionamento, un’ora dopo hai messo giù una cartella di pitch, hai preso abbastanza decisioni da esaurire parte non indifferente della tua riserva quotidiana, eppure non sai se qualcuno risponderà a quella email, se l’idea che a te sembra tanto buona verrà accettata, e in sostanza, se a fine giornata avrai messo qualche soldo in banca.

    Quando devi scrivere un libro il processo non è tanto diverso. La differenza è che prima di finirlo possono passare anni, e in tutto quel tempo lavorerai senza sapere se qualcuno deciderà di pubblicarlo, e di pagarti per farlo.

    Due anni dopo la telefonata col mio amico editor ero in una biblioteca per una delle ultime presentazioni del romanzo, quando dal pubblico si sollevò una mano e un ragazzo mi fece esattamente quella domanda. Quando gli risposi che no, non si può dire che scrivere un libro sia “divertente”, lui mi fece notare che stavo sorridendo e che sembrava mi stessi divertendo. “Solo perché in questo momento non devoprendere decisioni” gli risposi.  Forse ora capirà a cosa mi riferivo.

    Note