«Ecco le ragazze», ha detto l’agente, sbucando dal grigiore con un ombrello enorme a tinte troppo sgargianti.
«Già, ecco le ragazze», gli ho fatto eco. Io e mia sorella non eravamo più ragazze da un pezzo.
L’agente immobiliare aveva solo qualche anno più di noi, ma apparteneva al mondo, e ai tempi, di mio padre. Aveva l’allegria incrollabile e un po’ viscida del venditore, il che mi spingeva implicitamente a diffidarne. Ma era l’unico punto di contatto fra noi e quegli edifici. Nostro padre non ci parlava quasi mai dei suoi affari. Sapevamo solo di aver ereditato quei due stabili, e con essi l’agente che li amministrava.
«I locatari ci aspettano», ha detto.
Io e mia sorella odiavamo quegli incontri di rito. Era già abbastanza doverci trovare faccia a faccia con la nostra ignoranza in fatto di beni immobili. Ma incontrare i locatari voleva dire accettare ciò che eravamo davvero, e che eravamo state per tutti quegli anni di assegni cartacei e bigliettini in corsivo: due proprietarie. Io: comunista convertita alla programmazione barra proprietaria di immobili. […]
Abbiamo cominciato dai piani superiori. Gli affittuari di quegli uffici erano perlopiù immigrati russi, profughi dell’economia programmata finiti a loro insaputa, dopo tanta strada, ad affittare uno spazio da una ex comunista. Tanto valeva restare in patria. C’era un’avvocata con un ufficio invaso da una spessa coltre di fumo di sigaretta. Una strana azienda che offriva ambigui seminari di «training». Un altro russo che stava mettendo in piedi una catena di rivenditori di uno strano intruglio dimagrante in una confezione di alluminio. (Ha insistito perché ne prendessimo un campione; dopo un po’ di resistenza siamo state costrette ad accettare per buona educazione.)
Mio padre era un sentimentale. Aveva cominciato a lavorare come contabile durante la Grande Depressione. Di certo si rivedeva in quei dilettanti allo sbaraglio. Ai miei occhi, però, le loro imprese sembravano improbabili, infruttuose – l’ultimo rantolo della vecchia economia borghese di mio padre – e in buona sostanza spacciate.
Al pianterreno c’erano i commercianti: una piccola gioielleria, un’edicola, un negozio di scarpe, uno di vestiti, uno di borse. Alcuni erano nostri affittuari da venticinque anni. Quasi tutti erano indietro con i pagamenti. «E cosa vogliamo fare, cacciarli a pedate?», ha detto l’agente. «Almeno non abbiamo le vetrine sfitte». […]
Ed è così che ho dovuto considerare le centoventisei infrazioni, pena il rischio di ritrovarmi con i negozi sfitti. Tubature troppo vecchie. Isolamento in amianto. Sistemi antincendio inaffidabili. Marciapiedi crepati. Ascensori che arrivano troppo lentamente o partono troppo in fretta. Scale che hanno portato la gente su e giù per decenni e che da un giorno all’altro sono state dichiarate troppo strette.
«E chissà cos’altro», dice l’agente. «Risalgono al 1978». A sentire la sua voce sembra un’eternità. Ci toccherà assumere qualcuno anche solo per fare il punto delle infrazioni – un ispettore urbanistico in pensione, che chiede cento dollari a infrazione solo per dirci cosa sistemare. Visualizzo i corridoi labirintici del catasto della città di New York, ettari su ettari di schedari vetusti custoditi da impiegati rancorosi e ostili. Il nostro ex ispettore che lascia la ventiquattrore a fargli da segnaposto in code interminabili, allungando banconote a destra e a manca per «fare il punto» su infrazioni che per quanto ne sappiamo potrebbe anche aver redatto lui in persona.
«Considerate», dice l’agente, «che saranno 12.600 dollari solo per capire il problema».
«Quanto costerà riparare tutto?», chiedo.
«Mi piacerebbe saperlo, bimba».
«Mi sembra di essere finita in un racconto di Borges», dico
all’agente, che mi rimanda uno sguardo di assoluta incomprensione. «Parlami di software», riprovo.
«Mi piacerebbe saperne qualcosa, tesoro».
La giornata uggiosa, le vetrine sprangate, la confusione nel sentirmi una proprietaria, il terrore di perdere i miei beni immobili, le centoventisei infrazioni, l’ispettore in pensione, l’agente col sorriso stampato in faccia di cui non riesco a fidarmi – per qualche minuto mi sento sopraffatta. Sento crescere la rabbia nei confronti di mio padre che ci ha lasciate così impreparate. Mi viene da odiarlo per averci «protette» tanto a lungo. Ma un attimo dopo mi travolge la nostalgia per il sogno americano in cui sono stata cresciuta: sua madre che a quattordici anni scappa in gran segreto dalla Russia e si mantiene lavorando come una schiava in sartoria, appendendo in cucina un ritratto di Eugene V. Debs; mio padre che sotto lo sguardo pieno di speranza del vecchio socialista prepara l’ammissione al college durante la Grande Depressione e inizia a lavorare da contabile, si trasferisce da Bed-Stuyvesant a Flushing, Queens, e con diecimila dollari di leva finanziaria, esponendosi per un milione, si compra un angolino di Wall Street.
«Morty ci aspetta», dice l’agente. Morty. Il negozio di borse. L’inquilino di più lunga data. La visita più difficile di tutte.
Il negozio puzza di bancarotta. Odora di fallimento, come se Morty, che ha passato i settanta, e il figlio, sulla soglia dei cinquanta, non mettessero piede fuori di qui da vent’anni. L’assortimento è abbastanza aggiornato, ma ha già un’aria impolverata, dismessa. Un discount tre isolati più in là non riesce a tenere abbastanza scorte per soddisfare tutti i clienti, mentre Morty e il figlio se ne stanno chiusi in un negozietto deserto. Perché non ci rinunciano?, mi chiedo. Fatico a concepire quale terribile mancanza di alternative possa tenerli seduti qui dentro anno dopo anno, chiedendo sconti sull’affitto mentre stentano sempre di più a mantenersi.
«È colpa dei modem», dice Morty.
Cosa? L’ha detto davvero o l’ho sognato? Qualcuno sta davvero per parlarmi di sistemi operativi?
«Hai detto modem, Morty?»
«Sì. È colpa dei modem. Prima c’erano dei vicepresidenti gentilissimi che venivano in treno dall’East Side o da Scarsdale. Ogni tanto compravano una borsa, un portafogli, una valigetta. Ora abbiamo una clientela di una classe diversa». Ripiega le mani sulla pancia, appoggiandosi alle scanalature dietro il bancone. «Questi nuovi clienti vogliono roba a buon mercato, oppure si guardano intorno ma non comprano niente. Intanto i dirigenti se ne stanno a casa in Connecticut. Non pagano le tasse qui, e non comprano niente. Fanno il telelavoro, lo chiamano così».
Si ferma, si gratta un gomito. «È colpa dei modem, ve lo dico io».
Osservo a lungo Morty, che chiaramente non ho mai veramente visto prima. Quell’ometto corpulento nel suo negozio deserto, per cui non ho mai provato altro che pietà, mi ha colpita più a fondo di quanto non immagini. Ha chiuso il cerchio: le reti di Brian, l’universo di transazioni della vicepresidente, i software che scrivo, i sistemi che installo, la vertigine erotica dei momenti di programmazione – di colpo tutto ciò si ricollega in maniera chiarissima allo svuotamento umano del centro finanziario del mondo. È colpa dei modem: il computer come una bomba H, che fa sparire gli umani lasciando gli edifici intatti.
Nel mio mondo è così facile dimenticare i centri urbani spopolati. È la professione stessa a incoraggiarlo: stattene in casa, da solo, di fronte al tuo splendido monitor a colori. Clicca. Tutto ciò che vuoi è a un solo click di distanza. Ogni cosa nel mio mondo è tesa a farmi scordare in quale misura – da proprietaria di immobili, da programmatrice, da proprietaria/programmatrice che aiuta a spopolare gli edifici come il mio – sia corresponsabile del destino di Morty e del suo negozio di borse.
«Sai», gli dico, prendendo un portafogli. «Mi sa che me ne serve proprio uno nuovo».
«Morty ti farà un bello sconto», dice sorridendo l’agente immobiliare.
Morty non sorride, e non mi offre uno sconto. Ripongo il portafogli. «Magari la prossima volta», dico.
«Adesso andiamo a vedere le mansarde», dice l’agente.
Le mansarde. Sono nell’altro edificio, svoltato l’angolo, sopra un minuscolo negozio di abbigliamento. Sono in condizioni disastrose.
Nessuno ci mette piede da sessant’anni. L’agente ha tutto un piano – vuole farci «cedere» l’usufrutto degli spazi per novantanove anni a un’impresa che li ristrutturerà per farne degli appartamentini da a affittare. «Ormai questa zona è messa così male che l’unica strada praticabile è il residenziale», dice l’agente. «Così fate meno soldi ma trasformate l’edificio in un’obbligazione. L’impresa si occupa dei rapporti con gli inquilini, e voi ricevete un fisso ogni mese».
Ci inerpichiamo per le scalette buie sul retro. Le assi del pavimento sono piene di crepe. Prendo nota delle finestre coi vetri rotti, delle mura decrepite, dei soffitti di lamiera mezzo collassati, dei comignoli intasati. Inspiro una polvere che risale all’infanzia di mio padre.
È davvero possibile trasformare in denaro questa pila di materia in decomposizione?
«Vendiamoli», dico.
«Vendiamoli», dice mia sorella.
«Facciamolo», dico io, sognando di poter tornare agli anni in cui mio padre era ancora vivo e New York era ancora il cuore del mondo capitalista. Mi convinco che sia possibile tornare a un’epoca in cui un figlio di socialisti poteva farsi strada no a ottenere un buon business, dei beni immobili, così che, anni dopo, una figlia programmatrice ex comunista che vive dal lato opposto del continente, in California, possa incassare ogni mese una rendita elettronica. Mi figuro di poter davvero trasformare quel cumulo di calce e mattoni in un’obbligazione, non una cosa ma un bene astratto – e che sia possibile disfarne la consistenza – fisica, convertirlo in qualcosa che possa arrivarmi attraverso il sistema bancario di Brian: una transazione anonima, crittata, sicura, senza un filo di polvere. Denaro libero da infrazioni antiche e inquilini problematici, distillato in un flusso purissimo di bit che attraversano il continente alla velocità di rete, a un solo click di distanza: neanche denaro, in fin dei conti, ma una nuova misura del valore: logica, smaterializzata, pulita.
«Stiamo mettendo in piedi un server di porno offshore», dice Brian.
Siamo di nuovo a cena insieme, qualche settimana dopo il mio ritorno da New York. Brian ha smesso di mangiare e aspet- ta di vedere la mia reazione.
«In Messico», aggiunge. […]