Pubblichiamo un estratto da “La cultura cura. Progettare nuovi centri culturali in tempi incerti”, libro di Noemi Satta, nato dal desiderio di ripercorrere un periodo di circa sei anni, con attenzione al processo, al metodo, all’abilitazione al cambiamento. Obiettivo della trattazione è esemplificare un percorso e raccontare una case history specifica, quella di Magnete.
In questo capitolo conclusivo si alternano voci e prospettive diverse, volte a mettere in luce aspetti che lungo la trattazione e la descrizione della nascita e sviluppo di Magnete sono ricorrenti, dal racconto dell’esperienza alle sue diverse fasi fino allo sguardo dei fondatori, e che meritano un approfondimento.
Nel caso di Magnete è evidente che l’input principale arriva da due soggetti esterni, Fondazione Cariplo, che individua il quartiere Adriano come una delle aree dove portare strumenti, competenze e investimenti, e Proges, che prende in carico un incompiuto del territorio e cerca di dargli forma e funzioni nuove. Come outsider si può avere un ruolo di attivazione: è un aspetto che consideriamo anche per osservare l’apporto generativo di figure come ricercatori, artisti, attivisti e alcuni tra i vari profili che a diverso titolo entrano nei territori e modificano i campi di forza e gli equilibri. Abbiamo affrontato Il ruolo delle comunità e cosa significhi lavorare in contesti dove il cambiamento può essere innescato in parte o totalmente, accompagnato, arricchito e nutrito.
Conflitto, polisemia, alfabetizzazione, intersezionalità, democrazia, arte e cultura come ambiti di esplorazione di sguardi e prospettive nuove, presa di parola, decolonizzazione, prossimità, condivisione delle conoscenze: sono solo alcuni dei temi portati all’attenzione in questi dialoghi che contribuiscono sia a confermare alcune delle linee già intraprese sia a tracciare un panorama più ampio entro cui osservare la crescita e il radicamento di Magnete.
Abbiamo volutamente parlato delle ferite acuite dalla pandemia e di quanto l’incertezza, la fragilità, la vulnerabilità siano dimensioni non eludibili, con le quali confrontarsi per lavorare sui processi di abilitazione al cambiamento. Su questi ultimi punti, un confronto quasi interno tra chi ha accompagnato questo lungo processo, per capire con uno sguardo retrospettivo, quale tipo di apprendimento è avvenuto per l’organizzazione e per chi da advisor ha condotto e facilitato il processo con al centro proprio il cambiamento e i metodi, le difficoltà, le intersezioni con altri ambiti organizzativi e strategici, per capacitare i gruppi e le persone.
Tutti hanno lasciato parole chiave e sfide come viatico per il prossimo futuro di Magnete e di centri culturali, o Community hub, simili.
Polisemia, alfabetizzazione, presa di parola, soggettivazione
Intervista a Bertram Niessen
Attivare cultura nei territori, in relazione all’empowerment, all’equità e alla giustizia sociale.
Un assunto che condividiamo e che forse è da attualizzare.
Nel 2023 – quindi dopo tre anni dall’inizio della pandemia – credo che tutta una serie di parole chiave che hanno segnato i mondi dell’innovazione sociale e dell’innovazione culturale degli anni Dieci si siano decisamente svuotate di senso. Sono state stiracchiate talmente tanto in direzioni diverse che dentro ormai ci si trova veramente di tutto: quindi oggi serve problematizzare nuovamente le parole, ma soprattutto le categorie che vanno a indicare. E, infatti, la gran parte delle nuove esperienze generative che osservo sui territori non usa più tanto questi termini: non perché non si sia d’accordo con quello che si intendeva prima, quanto per il fatto che sono termini abusati e utilizzati in ambiti troppo diversi.
Empowerment, ad esempio, è secondo alcuni un termine connesso a un’idea di promozione neo-liberale dell’individuo ma non necessariamente delle comunità. La disuguaglianza viene sempre affrontata in modo tecnico, senza che se ne tirino in ballo le cause reali che hanno a che fare sostanzialmente con una società che è sempre più ingiusta, non solo più disuguale. Questa iper-tecnicizzazione ha condizionato tutta la prima ondata di innovazione sociale. Tendenzialmente, è una cosa che sempre meno risulta interessante per generazioni di studiosi e di attivisti under 30, che stanno anche cercando un nuovo modo di definire il tema. Se per quelli della nostra generazione era qualcosa che veniva spontaneo leggere in relazione a determinati tipi di culture politiche in cui eravamo cresciuti, oggi questa trasmissione si è interrotta e quindi è rimasto solo l’aspetto tecnico. Allora la richiesta diventa un’altra, cioè quella di ripoliticizzare i termini e soprattutto le pratiche.
Detto ciò, per parlare con gli addetti ai lavori sicuramente è ancora un linguaggio che si può usare, ma sottolineo che quando ragiono sulla cultura sui territori il tema è come costruire processi di soggettivazione. Questa è la grossa differenza: se realizzo percorsi di soggettivazione, questi diventano anche possibilità di capacitazione politica, non solo culturale. Slegare la dimensione culturale da quella politica è sempre più un’operazione artificiale.
Si tratta di lavorare, praticamente, sulla costruzione di spazi dove la democrazia è agita in modo pieno.
Esatto. Soprattutto considerando che negli ultimi vent’anni è stata costruita un’equazione fallace tra conflittualità/conflitto e violenza, intesa nel senso di guerra e sopraffazione. Invece dobbiamo imparare a riconoscere e recuperare il valore del conflitto: Miguel Benasayag e Angélique del Rey nel loro Elogio del conflitto mostrano come in realtà la rimozione programmatica del conflitto dalle relazioni non elimini le tensioni che stanno dentro e attorno ai problemi che lo generano, ma semplicemente elimina la possibilità che si possa esprimere una diversità di punti di vista. E questa cosa in realtà non fa altro che esacerbare le cause dell’esistenza del conflitto stesso. Credo che questa sia la la grande trasformazione in corso rispetto agli anni Dieci: la grande domanda di reintrodurre gli elementi conflittuali all’interno delle pratiche culturali.
Una volta che si assume che il conflitto o il dissenso (Appadurai, 2011) sono parte essenziale del processo è importante anche saperci lavorare in modo generativo.
Credo che su questo ci siano due dimensioni da tenere presenti. Da una parte quella strettamente politica, che vuol dire costruire spazi, campi, ambiti, ambienti nei quali sia possibile la polisemia, per avere la capacità e la possibilità di attribuire significati diversi e divergenti agli stessi simboli. Dall’altra una dimensione culturale, un percorso di costruzione di strumenti di alfabetizzazione. Freire è sicuramente un riferimento, ma anche Ivan Illich quando parla di convivialità, che non è certo cortesia forzata o educazione forzata, quanto qualcosa dove appunto anche il dissenso può trovare posto. O anche Sennett, che nel libro Insieme evidenzia molto bene la gradazione estremamente articolata di situazioni di confronto, in cui l’ascolto e il rituale di discussione per avviare una collaborazione espressiva sono alla base di tutto, senza rinunciare alle conflittualità.
“Le conversazioni riguardano le differenze” e questo per quello che riguarda le politiche territoriali significa costruire condizioni per poter effettivamente confrontarsi. Dall’altra parte la politica funziona anche per scarti, per strappi: lì c’è appunto la necessità di costruire anche delle dimensioni nelle quali la parola non viene solo “data”, ma anche “presa”. Ecco, saper prevedere le condizioni per le complessità significa assumere di saper cogliere gli attriti e le conflittualità che questa cosa implica.
E veniamo all’esperienza di cheFare del 2018 nel quartiere Adriano (mi riferisco ad “Adriano a cielo aperto” dentro “Civic Media Art” azione di “Lacittàintorno”): cosa ha voluto dire entrare da outsider e cosa hai imparato da quel processo?
È stata una di quelle occasioni in cui ci siamo messi in mezzo – e uso questo termine consapevolmente – tra tensioni anche molto diverse, non conciliabili e alla fine neanche conciliate. E proprio su questa distanza si è costruita la generatività dell’operazione. Avevamo l’impulso che arrivava dal mondo della cultura olandese che contempla la possibilità di introdurre elementi di dissenso e di conflitto nelle pratiche culturali. Anche l’artista Kevin Van Braak, con il quale abbiamo lavorato, è un po’ interprete di quell’approccio. Ci interessava al contempo non andare nella direzione iconica, ma soprattutto stare nella costruzione di momenti di relazione, anche complessa, tra gli abitanti. Ci sono voluti diversi mesi per arrivare a quel punto.
Entrare con l’arte da outsider significa mettersi in mezzo e preservare un valore dell’arte che mette in questione diversi ambiti. Quando riguardo quelle foto continuo a pensare che fosse particolarmente azzeccata l’idea di appendere ai palazzi gli striscioni con le frasi.
Alcuni elementi nell’operazione, derivati dall’intuizione formale di Kevin di lavorare sugli striscioni (una delle forme d’arte pubblica più utilizzata) partivano dalla sua visione dei palazzi della zona, “che sembravano dei rendering”. Ha forzato questo aspetto. Abbiamo lavorato molto dal punto di vista tecnico per rendere la visione dal vivo quasi bidimensionale, come in un’immagine. Una caratteristica quasi post mediale.
L’altra operazione è quella realizzata in chiusura, quella tavola da completare in modo collettivo colorando i puntini. Lì la cosa interessante è stata che fosse una specie di maratona e lui ha programmaticamente ricercato la fatica da parte di chi partecipava, una cosa non scontata. Desiderava scavare e superare la dimensione un po’ retorica che hanno questi incontri.
Il lavoro di contatto con gli abitanti è stato molto interessante: per le prime due settimane quasi non sapevamo dove andare perché sembrava che per le strade del quartiere quasi non ci fossero persone. Poi abbiamo capito piano quali fossero i nodi relazionali e spaziali. Nel lavoro con gli abitanti abbiamo messo in pratica l’idea di costruire dei momenti per mescolare linguaggi, codici, pubblici che normalmente non entrano in contatto tra loro. La connotazione curatoriale che abbiamo sviluppato lì è rimasta poi in tutto quello che facciamo, con un forte accento sull’accessibilità che non è banalizzazione ma anzi uno scarto continuo di lato. È stata una pratica di divulgazione continua, perché comunque abbiamo spiegato in modo molto dettagliato a tutti quanti, costantemente, cosa stavamo facendo. Infine, questo elemento di ibridazione dei pubblici – cioè di mettere in contatto pezzi di mondo che normalmente non si parlano – per noi è diventato una parte costitutiva della nostra mission.
Questa esperienza è stata insieme a tutte le altre azioni del programma parte del processo iniziale avviato da Fondazione Cariplo e ha contribuito certamente a preparare il terreno del quartiere Adriano per lo sviluppo di Magnete, la cui progettazione è avvenuta prima e durante il periodo pandemico. Su questo periodo si possono ancora fare riflessioni. Secondo te quali sono gli ambiti sui quali c’è bisogno di lavorare per ricucire a livello territoriale dopo questo biennio che teoricamente ci sta rivedendo tutti “di nuovo fuori” più che “di nuovo insieme”?
Quando vado in giro a fare la presentazione del libro (Niessen, 2023) sento una specie di resistenza inconscia a parlare del periodo della pandemia e di ciò che ha comportato. E questo mi sembra che stia succedendo anche a livello collettivo e, tornando al discorso iniziale, sulle disuguaglianze. I gruppi sociali e gli individui più colpiti da quella fase continuano ad essere invisibili: i fattori che hanno generato le disuguaglianze iniziate (o peggiorate) in pandemia continuano ancora adesso ad agire, con l’aggravante che adesso se ne parla meno e quindi gli invisibili lo sono sempre di più. Come nel caso degli adolescenti, quelli che sono stati fregati più di tutti: mi pare che la dimensione psicologica, evolutiva ma anche culturale – e forse anche politica – dell’adolescenza sia da rimettere al centro. E in qualche modo questo scollamento vissuto in modo molto forte dagli adolescenti si riflette oggi nel loro sentirsi sradicati rispetto a tutto il resto.
A proposito di invisibili mi pare possa interessare anche quel discorso che hai aperto nel libro sulle professionalità del mondo della cultura. È un settore particolarmente in affanno e questo è forse uno di quegli aspetti di invisibilità che non viene toccato nel discorso politico.
Ricordiamoci sempre che l’Italia ha la metà della spesa di PIL rispetto agli altri Paesi dedicata alla cultura. Negli ultimi tre anni la fatica di produrre e fare cultura sta aumentando, provocando una frattura che i politici e i policy maker faticano a vedere, anche nei confronti delle politiche tradizionali di innovazione sociale e culturale. I finanziamenti sempre più esigui, a fronte di una produzione identica e per certi versi perfino aumentata, non sostengono più gli operatori, che di quello dovrebbero anche poter vivere, pagare l’affitto e via dicendo. Manca l’osservazione del problema, non è al centro del dibattito pubblico, e mancano quindi le risposte. Anche perché non c’è nessuna elaborazione politica e culturale. Se guardiamo i grandi incontri, i grandi festival, i grandi convegni d’ambito culturale lasciano la questione sempre ai margini e diventano a volte un po’ surreali perché non affrontano l’elefante nella stanza. Oltretutto in alcune città, come Milano, questa cosa inizia ad evidenziare anche una fortissima crisi della capacità di ricerca e di produzione di nuovi linguaggi. L’incapacità di fare cultura nuova. Perché nel momento in cui la cultura è sempre più dipendente dalle regole di mercato, se nessuno sostiene i costi della ricerca l’innovazione culturale (intesa non in termini di innovazione del management o delle filiere distributive, ma come innovazione dei linguaggi) viene meno.
Quali sono a tuo parere le sfide del futuro?
Primo punto: trovare nuove forme di politica e di politiche in grado di rispondere a una domanda pervasiva di nuove forme di senso. Secondo punto: favorire in modo proattivo, intelligente, efficace ed efficiente forme di ibridazione di saperi e competenze. Perché questa ibridazione oggi è veramente impoverita, soprattutto se la paragoniamo con quello che sta succedendo nelle grandi capitali culturali d’Europa: è evidente che noi stiamo rimanendo indietro con una velocità impressionante. Terzo punto: sicuramente ci sono le questioni legate ai principali fattori di disuguaglianza che sono classe, orientamento sessuale, provenienza ed età.
Quest’ultimo anche perché non siamo mai stati un paese per giovani, ma ultimamente lo siamo sempre meno. Quarto punto: considerare le forme di famiglia non tradizionale, che non vuol dire solo orientamenti di genere diversi, ma proprio l‘esplosione di forme di parentela non tradizionali.
Non ci si può fermare a un discorso sui pubblici o sull’efficienza del management, ma c’è bisogno di fare un lavoro di elaborazione simbolica e di scoperta di nuove forme, nuove pratiche, nuovi linguaggi, nuovi sistemi relazionali e via dicendo. L’ultimo punto sicuramente è il superamento della dicotomia tra natura e cultura. Perché se il climate change è l’effetto più evidente che ci sta obbligando a osservare le dinamiche velocissime di cambiamento delle condizioni ecologiche del nostro vivere, è l’interdipendenza e il considerare tutto ciò che è non solo umano nel nostro ambiente a creare dei nuovi paradigmi culturali.
Sta cambiando completamente il rapporto che abbiamo con l’animalità, cambia la relazione che abbiamo con la “nazione delle piante”, per forza cambia il rapporto che abbiamo con gli eventi climatici catastrofici e tutto questo implica nuove questioni in ambito filosofico, antropologico, ontologico. Tutta una serie di autori e autrici che fino a 15 dieci anni fa erano sostanzialmente noti solo agli specialisti (penso a Bruno Latour, Donna Haraway, Rosi Braidotti, Philippe Descola) adesso son diventati più pop, anche se i discorsi che fanno sono complessi e implicano un ripensamento radicale del nostro mondo. E si vede nelle nuove generazioni, forse meno radicali di noi negli stili e nei consumi, ma molto più radicali nel livello di consapevolezza. La loro affermazione è “guarda qua che ci stiamo estinguendo”. Questo è uno scollamento che ha bisogno urgentissimo di essere preso in considerazione, elaborato, tradotto in azioni e politiche.
Se avessi il potere della bacchetta magica cosa faresti subito? Che urgenza senti?
Farei una moratoria di tutto il costruito con un blocco dei cantieri per dieci anni. Impiegherei le risorse che vanno alla cantierizzazione (a esclusione di tutte le azioni di grande impatto sul fronte dell’efficientamento energetico) in ricerca. Investirei tutte quelle risorse nella produzione di nuovi modi di relazione, che vuol dire sostanzialmente processi, cura delle situazioni e dei contesti, degli eventi, di ricerca, di dibattito, scambio e confronto.
E se ti chiedessi di dare un consiglio a Magnete che sta cercando di dare forma a un’idea di spazio pubblico, di connessioni fra persone, di nuovi modi di intendere la cultura?
Mi viene da dire che la natura situata di Magnete in questo momento è estremamente peculiare, poiché si trova in un quartiere che continua ad essere lontano dal resto della città, che ha delle specifiche sociali e socio-spaziali molto forti. Quindi progettare una strategia di lungo periodo che tenga conto di queste peculiarità è sicuramente una delle cose più difficili, ma potenzialmente anche una delle più generative. È invece importante trovare una propria ragion d’essere. Praticamente, si può tradurre nel costruire sapere esperto intorno a questa unicità: fare residenze, costruire dei board, tessere relazioni sulla specificità territoriali e quindi aiutarsi a leggersi e a leggere il territorio. Costruire appunto alla fine un percorso di soggettivazione, tanto per tornare a quello che si diceva. Questo poi – ulteriormente tradotto – vuol dire anche trovare dei modi di essere sufficientemente forti da rispondere ai propri interlocutori, i propri donor, i policy maker di riferimento, rivedendo le questioni quantitative perché chiaramente lì non sono le quantità di pubblico ma più la qualità del coinvolgimento. Trasformare i numeri in discorso d’impatto: questa immagino che sarà una delle sfide più grosse.
Lavorare quindi sulla parametrazione, sul come misurare quello che effettivamente si riesce a portare come differenza.
Esatto sapendo motivare la differenza, sapendo comunicare la motivazione.
Comunicare come costruzione di senso. Per chiudere la nostra conversazione che parola chiave mi lasci come sintesi.
Soggettivazione.
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